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La vita delle api è assai breve. In primavera e in estate – i più faticosi periodi di bottinatura – un’operaia, di norma, non vive più di quattro o cinque settimane… Minacciate da ogni genere di pericoli durante i voli per la raccolta del cibo, molte operaie muoiono ancor prima di aver raggiunto quell’età.

The Dancing Bees

Sedevo in cucina insieme ad August, June e Rosaleen, mentre le tenebre avvolgevano la casa. May era uscita da almeno cinque minuti quando August si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. Usciva nel portico, rientrava, scrutava verso il muro.

Dopo venti minuti disse: «Basta, adesso. Andiamo a prenderla».

Recuperò la torcia dal camion e puntò dritta verso il muro, mentre June, Rosaleen e io stentavamo a tenerle dietro. Un uccello notturno cantava su un ramo con trasporto febbrile, con urgenza, come fosse suo compito far salire la luna in cima alla volta del cielo.

«Ma-a-a-ay» gridò August. Anche June la chiamò, subito imitata da Rosaleen e me. Continuammo a gridare il suo nome, ma non ci arrivava alcuna risposta. Soltanto quell’uccello notturno che cantava alla luna.

Camminammo lungo il muro del pianto, poi di nuovo in senso contrario, con apprensione crescente. Cammina adagio, guarda attentamente, chiama più forte. Senz’altro l’avremmo trovata in ginocchio, le batterie della torcia esaurite. Avremmo pensato: “Santo cielo, come abbiamo fatto a non vederla, quando siamo passate prima?”.

Ma non fu così, invece, e quindi ci inoltrammo nel bosco dietro al muro, chiamandola a voce sempre più alta finché mi accorsi che la raucedine si era insinuata nella nostra gola, mentre nessuna di noi osava dire: “Qualcosa assolutamente non va”.

Malgrado la notte, continuava a fare un caldo infernale, e percepivo l’odore del nostro corpo accaldato mentre rastrellavamo il bosco con un cono di luce di dieci centimetri. «June, torna a casa e chiama la polizia» disse infine August. «Di’ che abbiamo bisogno di aiuto per ritrovare nostra sorella. Finita la telefonata, inginocchiati davanti a Nostra Signora e pregala di proteggere May, poi torna qui. Noi ci dirigiamo verso il fiume.»

June partì di corsa. La sentimmo farsi strada nel sottobosco mentre noi ci avviavamo in fondo al terreno, dove scorreva il fiume. August camminava sempre più in fretta. Rosaleen, ansimante, si sforzava di tenerle dietro.

Raggiunto il fiume, ci fermammo un momento. Ero a Tiburon da abbastanza tempo, da un intero ciclo della luna. Sospesa sul fiume, entrava e usciva dalle nuvole. Fissai un albero sulla sponda opposta, le radici esposte e contorte, e avvertii un sapore metallico salire dalla gola e scivolarmi sulla lingua.

Tesi il braccio verso la mano di August, ma lei si era voltata a destra e si spostava lungo la riva continuando a chiamare la sorella.

«Ma-a-a-ay.»

Rosaleen e io le stavamo incollate alla schiena, tanto vicine che alle creature della notte dovevamo apparire come un grosso organismo con sei gambe. Restai sorpresa quando la preghiera che recitavamo ogni sera dopo cena, quella con il rosario, iniziò di sua volontà a ripetersi dentro di me. Sentivo con chiarezza ogni parola. Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te; tu sei benedetta tra le donne, e benedetto è il frutto del ventre tuo, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.

«Brava, Lily. Preghiamo insieme» disse August, e solo allora mi resi conto che la stavo ripetendo ad alta voce. Non capivo se la dicevo come preghiera o la mormoravo per scacciare la paura. August recitò le parole con me, e poi si unì Rosaleen. Camminavamo lungo il fiume lasciando le parole dietro di noi come nastri srotolati nella notte.

Quando tornò, June aveva un’altra torcia, evidentemente recuperata in casa. La macchia di luce sussultava tra i rami degli alberi.

«Qui!» gridò August, puntando la torcia in alto. Aspettammo che June ci raggiungesse sulla riva.

«La polizia arriva subito» disse.

Arriva la polizia. Vidi che Rosaleen aveva gli angoli della bocca curvi verso il basso. La polizia non mi aveva riconosciuto quando avevo fatto visita a Zach in prigione, e mi augurai che non fosse più fortunata con Rosaleen.

June gridò il nome di May e avanzò al buio lungo la riva, seguita da Rosaleen, mentre ora August si muoveva adagio, con prudenza. Io rimasi dietro di lei, ripetendo mentalmente l’avemaria sempre più in fretta.

All’improvviso August si bloccò sui suoi passi. Anch’io. Non sentivo più il canto dell’uccello notturno.

Non staccavo un attimo gli occhi da lei: ferma, tesa, fissava in basso. Qualcosa che io non riuscivo a vedere.

«June» disse con voce strana, incerta, ma June e Rosaleen erano troppo lontane. Solo io la udii.

L’aria, pesante e umida, rendeva affannoso il respiro. Mi avvicinai ad August, le sfiorai il gomito con il braccio perché avevo bisogno di sentirla accanto a me, ed ecco sulla terra bagnata la torcia di May, spenta.

Ora mi sembra strano, ma restammo lì ferme un altro minuto. Aspettavo che lei dicesse qualcosa, ma invano. Immobile, prolungava quell’ultimo momento. Una brezza improvvisa fece frusciare i rami degli alberi, colpendoci in viso come la vampata di un forno, come le fiamme dell’inferno. August mi guardò, poi spostò verso l’acqua il raggio della torcia.

La luce spazzò lo specchio acqueo, tracciando una scia di schizzi dorati prima di fermarsi di colpo. May era nel fiume, appena sotto la superficie, gli occhi fissi e spalancati, la gonna aperta a ventaglio fluttuante nella corrente.

Un suono uscì dalle labbra di August, un gemito sommesso.

La afferrai per il braccio, ma lei si liberò di me, lasciò cadere la torcia ed entrò in acqua.

Io la seguii, sollevando schizzi nell’acqua sempre più alta, e a un certo punto caddi sul fondo scivoloso. Mi aggrappai al vestito di August, ma mancai la presa. Riemersi sputacchiando.

Quando la raggiunsi, lei aveva gli occhi abbassati sulla sua sorellina. «June!» gridò. «June!»

May giaceva in mezzo metro d’acqua con un’enorme pietra di fiume appoggiata sul petto. Le gravava sul corpo, trattenendolo a fondo. Nel guardarla pensai: “Ora si alza. August tira via la pietra e May riemerge per respirare. Poi torniamo alla casa e la asciughiamo per bene”. Volevo chinarmi a toccarla, scuoterla per la spalla. Non poteva essere morta lì, nel fiume. Assurdo.

Le uniche parti del corpo non sommerse erano le mani. Galleggiavano, i palmi come coppe dentellate ballonzolavano sulla superficie, mentre l’acqua scorreva tra le dita. Ancor oggi quell’immagine mi sveglia la notte. Non gli occhi di May, spalancati, fissi, o il masso posato su di lei come una pietra tombale, soltanto le mani.

June, sollevando grandi schizzi, arrivò accanto ad August, ansimante, le braccia inerti lungo il corpo. «Oh, May» sussurrò, poi distolse lo sguardo stringendo gli occhi.

Voltandomi verso la riva, notai che Rosaleen, in acqua fino alle caviglie, era scossa da un violento tremito.

August si inginocchiò per togliere la pietra dal petto di May. Le afferrò le spalle per sollevarla. Il corpo fece un orribile suono di risucchio quando ruppe la superficie. La testa ricadde all’indietro, e vidi che aveva la bocca parzialmente aperta, i denti sporchi di fango, erbe acquatiche fra le trecce. Mi voltai da un’altra parte. Solo allora compresi. May era morta.

Anche August l’aveva compreso, ma le appoggiò comunque l’orecchio al petto. Dopo un minuto si tirò indietro portandosi la testa di May al petto, come se volesse farle sentire il proprio cuore.

«L’abbiamo perduta» disse infine.

Rabbrividii. Mi accorsi di battere i denti rumorosamente. August e June sollevarono May per trasportarla faticosamente a riva. Era gonfia, impregnata d’acqua. Le afferrai le caviglie, cercando di allinearle. Il fiume doveva averle rubato le scarpe.

Quando la adagiarono a terra, le uscì acqua dalla bocca e dalle narici. “È così che il fiume ha portato Nostra Signora fino a Charleston” pensai. “Guarda le sue dita, le mani. Sono così preziose.”

Immaginai May che faceva rotolare il masso da riva fino all’acqua, poi si sdraiava e se lo tirava addosso. L’aveva tenuto stretto come un bambino, in attesa che i polmoni si riempissero. Mi chiesi se all’ultimo momento si fosse divincolata cercando di riemergere, oppure se se ne fosse andata senza lottare, abbracciata alla pietra, lasciandosi sommergere insieme al suo dolore. Quali creature avevano nuotato accanto a lei mentre moriva?

June e August, bagnate fradice, si chinarono accanto a lei, mentre le zanzare ci ronzavano nelle orecchie e il fiume continuava il suo corso tortuoso nell’oscurità. Ero certa che anche loro stessero immaginando gli ultimi momenti di May, ma non leggevo orrore sul loro viso, solo una dolente accettazione. Questa cosa se l’aspettavano da tanti anni, senza esserne consapevoli.

August cercò di chiudere gli occhi di May, che però rimasero semiaperti. «Proprio come April» mormorò June.

«Reggi la torcia, per favore» le disse August. La sua voce era ferma, pacata, e la udii appena al di sopra del tumulto del mio cuore.

Al piccolo raggio di luce, August estrasse le minuscole foglioline impigliate fra le trecce di May e se le infilò in tasca.

August e June le tolsero il terriccio dalla pelle e dagli abiti, mentre Rosaleen, la povera Rosaleen, che aveva perduto la sua nuova grande amica, se ne stava lì, senza emettere suono. Il mento le tremava al punto che avevo voglia di allungarmi per bloccarlo.

Poi, un rumore che non dimenticherò mai uscì dalla bocca di May, un lungo sospiro gorgogliante; e allora ci scambiammo uno sguardo, confuse, per un secondo piene di speranza, come se dopotutto potesse accadere il miracolo dei miracoli, ma era soltanto una sacca d’aria che si era all’improvviso liberata. Mi investì in pieno viso, con lo stesso odore di fiume del legno vecchio, un po’ marcio.

Abbassai gli occhi sul volto di May, investita da un’ondata di nausea. Mi inoltrai a passo malfermo tra gli alberi, poi mi chinai a vomitare.

Mentre mi ripulivo la bocca sull’orlo della camicia, udii un rumore squarciare il buio, un grido così lacerante che sentii il cuore sprofondare. Voltandomi indietro, vidi August incorniciata dal raggio della torcia di June. Quel suono proveniva dalle profondità della sua gola. Quando si spense, lei abbandonò la testa sul petto bagnato di May.

Mi aggrappai al ramo di un piccolo cedro e lo strinsi con forza, con la sensazione che tutto quello che avevo mi stesse sfuggendo di mano.

«Dunque sei orfana?» chiese il poliziotto. Era Eddie Hazelwurst, quello alto, dai capelli a spazzola, che aveva scortato August e me in prigione per l’incontro con Zach.

Rosaleen e io sedevamo sulle sedie a dondolo in salotto, mentre lui stava in piedi davanti a noi con un taccuino in mano, pronto a catturare ogni parola. L’altro poliziotto era fuori, vicino al muro del pianto, a cercare non si sa cosa.

La mia sedia oscillava tanto veloce che rischiavo di venire catapultata fuori. Rosaleen invece era immobile, a viso chino.

Appena tornate a casa dopo aver trovato May, August aveva salutato i poliziotti e poi mandato me e Rosaleen al piano di sopra. «Andate su ad asciugarvi» mi aveva detto.

Sfilate le scarpe, mi ero avvolta in un asciugamano a guardare dalla finestra insieme a Rosaleen. Avevamo osservato gli uomini dell’ambulanza uscire dal bosco con il corpo di May su una lettiga, poi ascoltato i poliziotti rivolgere a June e August ogni genere di domanda. Le loro voci erano risalite su per la tromba delle scale. “Sì, era depressa negli ultimi tempi. Be’, per la verità è sempre stata depressa, a periodi. Era malata. Non distingueva le sofferenze degli altri dalle proprie. No, non abbiamo trovato nessun biglietto scritto. L’autopsia? Certo, si capisce.”

Il signor Hazelwurst aveva voluto parlare con tutte, e quindi eccoci qui. Gli raccontai tutto quello che era successo dal momento in cui May aveva risposto al telefono al momento in cui l’avevamo trovata nel fiume. Poi, lui aveva incominciato a rivolgermi domande personali. Non ero la ragazza che la settimana prima era andata a trovare in prigione uno dei ragazzi di colore? Che ci facevo lì? Chi era Rosaleen?

Spiegai tutto: mia madre morta quando ero piccola, mio padre tornato al Creatore all’inizio dell’estate dopo un incidente sul trattore, la storia a cui mi aggrappavo. Rosaleen, dissi, era la mia tata.

«Penso mi si possa definire un’orfana» dissi. «Però ho dei parenti in Virginia. L’ultimo desiderio di mio padre era che io andassi a vivere con la zia Bernie. Lei sta aspettando me e Rosaleen. Ci manderà i soldi della corriera, oppure verrà lei stessa a prenderci in macchina. Continua a ripetere: “Lily, non vedo l’ora che tu arrivi”. E io: “Saremo lì prima dell’inizio della scuola. Non riesco a credere che farò il secondo anno delle superiori”.»

Strinse gli occhi come se faticasse a seguire il discorso. Stavo infrangendo ogni regola su come mentire senza farsi beccare. “Non parlare troppo” mi dissi, ma non riuscivo a smettere.

«Sono felicissima di andare a vivere da lei. È molto cara. In tutti questi anni mi ha sempre mandato un sacco di regali, soprattutto bigiotteria e orsacchiotti. Una quantità di orsacchiotti.»

Per fortuna June e August non erano lì a sentirmi. Avevano seguito l’ambulanza con il carro del miele, desiderose di assicurarsi che il corpo di May arrivasse a giusta destinazione. Purtroppo, Rosaleen invece era presente. Temevo che ci tradisse, dicendo qualcosa del tipo: “Per la verità siamo venute qui subito dopo che Lily mi ha fatto evadere dalla prigione”. E invece sedeva ritirata in se stessa, assolutamente muta.

«Come ti chiami, già, di cognome?» domandò.

«Williams» risposi.

Gliel’avevo già detto due volte, il che mi indusse a chiedermi quali requisiti fossero richiesti per fare il poliziotto a Tiburon. Evidentemente, gli stessi che a Sylvan.

Si drizzò in tutta la sua altezza. «Be’, quel che non capisco, se devi andare a vivere con la zia in Virginia, è cosa ci fai qui.»

Questa la traduzione: “Mi lascia esterrefatto che una ragazzina bianca come te abiti in una casa di gente di colore”.

Sospirai. «Ecco, vede, zia Bernie ha dovuto sottoporsi a un’operazione. Un problema femminile. Così Rosaleen, questa qui, ha detto: “Perché io e te non ci sistemiamo dalla mia amica August Boatwright, a Tiburon, finché zia Bernie non si rimette in piedi?”. Non aveva senso che andassimo lassù finché lei era in ospedale.»

Lui annotò tutto quanto. Perché? Avrei voluto gridargli: “Qui non c’entriamo per niente io, Rosaleen e l’operazione di zia Bernie. Qui si tratta di May. È morta, nel caso tu non l’abbia notato”.

In quel momento avrei dovuto essere in camera mia a piangere tutte le mie lacrime, e invece ero impegnata nella più stupida conversazione della mia vita.

«Non c’era nessun bianco, a Spartanburg, in grado di ospitarti?»

Traduzione: “Qualsiasi altra soluzione sarebbe preferibile alla permanenza in casa di gente di colore”.

«No, signore. In realtà, no. Non avevo tanti amici. Per qualche ragione, non mi trovavo bene con gli altri, forse perché a scuola avevo sempre i voti migliori. Una signora della chiesa mi disse che potevo sistemarmi da lei finché zia Bernie non si ristabiliva, ma poi le è venuto il fuoco di sant’Antonio, e così non se ne è fatto niente.»

Oddio, qualcuno mi fermi.

Il poliziotto si rivolse a Rosaleen. «Com’è che conoscevi August?»

Trattenni il fiato, conscia che la mia sedia a dondolo si era fermata all’improvviso.

«È cugina prima di mio marito» rispose Rosaleen. «Ci siamo tenute in contatto dopo che lui mi ha lasciato. August era l’unica della famiglia a riconoscerlo per quel pezzo di stronzo che era.» Mi lanciò un’occhiata di sottecchi, come a dire: “Visto? Non sei l’unica capace di inventare balle su due piedi”.

Lui chiuse il taccuino e piegando il dito verso di me mi fece segno di seguirlo alla porta. Una volta fuori, mi disse: «Segui il mio consiglio. Telefona a tua zia e dille di venirti a prendere, anche se non è ancora completamente guarita. Queste sono persone di colore. Capisci cosa intendo?».

Aggrottai la fronte. «No, signore. Temo di no.»

«Intendo semplicemente che non è naturale, che non dovresti… be’, umiliarti.»

«Ah.»

«Tornerò presto, e fai in modo che non ti ritrovi ancora qui. D’accordo?» Sorridendo, mi posò la mano gigantesca sulla testa come fossimo due bianchi legati da un’intesa segreta.

«Okay.»

Chiusi la porta alle sue spalle. Quale che fosse il collante che mi aveva tenuto insieme per tutto quel tempo, in quel momento si sciolse. Tornai in sala, sentendo salire i singhiozzi. Rosaleen mi abbracciò, e anche lei aveva il viso solcato di lacrime.

Salimmo le scale verso la camera che aveva diviso con May. Tirò giù il lenzuolo. «Su, mettiti a letto» mi disse.

«E tu, dove dormi?»

«Proprio là» rispose, tirando giù dal letto accanto la coperta rosa e marrone a punto riso lavorata a mano da May. Si distese e affondò il viso nel cuscino. Capii che cercava di percepire l’odore dell’amica.

Forse pensate che abbia sognato di May, e invece, quando mi addormentai, fu Zach che mi comparì davanti. Non potrei neppure dire cosa succedeva in quel sogno. Mi svegliai un po’ ansimante, consapevole che si trattava di lui. Sembrava vicino e reale, tanto che avrei potuto sedermi e sfiorargli la guancia, mi pareva. Poi ricordai dove si trovava, e allora mi piombò addosso una terribile oppressione. Rividi le sue scarpe sotto la branda, e pensai che probabilmente in quello stesso momento se ne stava sveglio a fissare il soffitto e ascoltare il respiro degli altri ragazzi.

Un fruscio dall’altra parte della stanza mi fece sobbalzare e vivere uno di quegli strani momenti in cui non sai bene dove ti trovi. Ancora non del tutto sveglia, avevo pensato di essere nella casa del miele, ma poi compresi che era il rumore di Rosaleen che si rigirava nel letto. E allora, allora ricordai May. La rividi nel fiume.

Dovetti alzarmi, scivolare silenziosamente in bagno e sciacquarmi la faccia. Stavo lì, alla luce fioca della lampada da notte, quando, abbassando gli occhi, vidi i calzini rossi che May aveva messo ai piedi di porcellana della vasca da bagno. Non potei fare a meno di sorridere. Per nulla al mondo avrei dimenticato quel lato di May.

Chiusi gli occhi, e tutte le più belle immagini di lei mi si affollarono alla mente. Le sue treccine a cavatappi che luccicavano davanti all’annaffiatoio, le dita che sistemavano le briciole di cracker, che si davano tanto da fare per salvare la vita di un solo scarafaggio. E poi il cappello indossato il giorno che ballava la conga con le Figlie di Maria. Ma, soprattutto, rividi l’esplosione di amore e di angoscia che tanto spesso le accendeva il viso.

Aveva finito per bruciarla.

Dopo l’autopsia e il rapporto ufficiale della polizia, che attribuiva la morte a suicidio, dopo che quelli delle pompe funebri l’ebbero sistemata meglio possibile, May tornò nella casa rosa. Di primo mattino, mercoledì 5 agosto, un carro funebre nero imboccò il vialetto, e quattro uomini in abito scuro tirarono fuori la bara e la portarono in sala. Quando chiesi ad August come mai May tornava a casa dalla porta principale nella bara, mi rispose: «Staremo con lei fino alla sepoltura».

Non me l’aspettavo, perché tutti quelli che conoscevo a Sylvan facevano in modo che i loro cari defunti andassero dritti dalla camera ardente nell’agenzia di pompe funebri al cimitero.

«Stiamo con lei per poterle dire addio» spiegò August. «Si chiama veglia. A volte la gente ha molta difficoltà ad accettare la morte, a dire addio. La veglia aiuta a farlo.»

Se il defunto è proprio , in salotto, di sicuro ti mette faccia a faccia con la morte. Era strano pensare a stare con un morto in casa, ma se serviva ad accomiatarci da lei, tanto meglio.

«È un bene anche per May.»

«In che senso?»

«Sai che tutti noi abbiamo un’anima, Lily, che quando si muore torna a Dio, ma nessuno sa quanto tempo impieghi. Forse una frazione di secondo, forse un paio di settimane. Comunque, quando sediamo accanto al corpo di May, diciamo: “Stai tranquilla, May. Sappiamo che questa è casa tua, ma adesso puoi lasciarla. Vai pure”.»

August chiese agli uomini di posare la bara, sistemata su un tavolo con ruote, davanti a Nostra Signora delle Catene. Poi gliela fece aprire. Quando quelli si allontanarono in macchina, August e Rosaleen si sporsero a guardare May, mentre io mi tenevo indietro. Mi aggiravo inquieta, mi guardavo nei vari specchi, quando June scese dabbasso con il violoncello e si mise a suonare. Suonò Oh! Susanna, suscitando il nostro sorriso. Non c’è come un piccolo scherzo durante una veglia per rilassare un po’ l’atmosfera. Andai accanto alla bara, tra August e Rosaleen.

Era sempre la solita vecchia May, tranne che aveva la pelle tesa sugli zigomi. La luce del lampadario le conferiva una sorta di lucentezza. Le avevano messo un abito celeste che non conoscevo, con bottoni di perla e scollo a barchetta, e il cappello azzurro. Pareva che da un momento all’altro potesse spalancare gli occhi per sorriderci.

Quella era la donna che aveva insegnato a mia madre tutto quello che c’è da sapere per liberarsi degli scarafaggi in modo gentile. Contai sulle dita i giorni trascorsi da quando May mi aveva rivelato che mia madre era stata lì. Sei. Sembravano sei mesi. Volevo ancora disperatamente dire ad August quel che sapevo. Avrei potuto dirlo anche a Rosaleen, certo, ma era con August che desideravo parlare. Era la sola a sapere cosa significasse.

Davanti alla bara alzai gli occhi su August, con il forte impulso di raccontarle tutto in quel momento. Vuotare il sacco. Non sono Lily Williams, ma Lily Owens, e mia madre è stata qui. Me l’ha detto May. E poi sarebbe venuto fuori tutto, e sarebbe successo quel che doveva, per quanto terribile. Tuttavia vidi che si stava detergendo il viso dalle lacrime, e cercava un fazzoletto in tasca, e mi resi conto che sarebbe stato un gesto di egoismo rovesciarle anche questo nella coppa, già piena fino all’orlo del dolore per May.

June suonava a occhi chiusi, come se solo da lei dipendesse se lo spirito di May raggiungeva il cielo. Una musica mai sentita, quella, che induceva a credere che la morte non fosse altro che un passaggio.

August e Rosaleen finalmente sedettero, ma una volta accanto alla bara mi accorsi di non riuscire a distaccarmene. May aveva le braccia incrociate sul petto, come ali ripiegate su se stesse, una posa che non trovavo rasserenante. Mi sporsi a prenderle la mano. Era fredda come cera, ma non mi importava. “Spero che tu sia più felice in cielo” le dissi. “Spero che lassù non ti occorra nessun muro. E se vedi Maria, Nostra Signora, dille che sappiamo che quaggiù è Gesù quello che conta di più, ma noi facciamo del nostro meglio per tenere alto il ricordo di lei.” Per uno strano motivo avevo la netta sensazione che lo spirito di May si librasse in un angolo del soffitto, attento a ogni mia parola, anche se non la pronunciavo a voce alta.

“E vorrei che tu cercassi mia madre. Dille che mi hai visto, e che, almeno per il momento, sono lontana da T. Ray. Dille questo: ‘Lily sarebbe molto contenta se le mandassi un segno per farle capire che le vuoi bene. Non deve essere niente di speciale, ma per favore, manda qualcosa’.”

Emisi un lungo sospiro, sempre tenendo quella mano morta. Le sue dita sembravano molto grandi in confronto alle mie. “Penso che questo sia l’addio” le dissi. Avvertii un brivido, un bruciore agli occhi. Le lacrime che cadevano lungo le mie guance mi bagnarono il vestito.

Prima di lasciarla, però, la sistemai un pochino. Le unii le mani piegate sotto il mento come se stesse riflettendo seriamente sul futuro.

Alle dieci del mattino, mentre June continuava a suonare per May e Rosaleen si affaccendava in cucina, sedetti sulla scaletta del portico con il quaderno, intenzionata a descrivere l’accaduto, ma in realtà aspettavo August. Era andata al muro del pianto. La immaginai là fuori, intenta a deporre il suo dolore negli interstizi fra le pietre.

Quando la vidi tornare, avevo già smesso di scrivere e stavo scarabocchiando sui margini. Si fermò a metà del giardino e fissò il vialetto, schermandosi gli occhi dal sole. «Guarda chi c’è!» gridò, partendo di corsa.

Era la prima volta che la vedevo correre, e mi sbalordì la velocità con cui attraversò il prato, le lunghe gambe scattanti sotto la gonna. «È Zach!» mi gridò. Lasciai cadere il quaderno per precipitarmi giù per le scale.

Sentii che Rosaleen, dalla cucina, urlava a June che c’era Zach. La musica si interruppe nel mezzo di un accordo. Quando arrivai sul vialetto, lui stava scendendo dalla macchina di Clayton. August lo strinse tra le braccia. Clayton sorrideva, gli occhi fissi a terra.

Quando August lasciò libero Zach, mi accorsi di quanto era dimagrito. Rimase fermo a guardarmi. Non riuscivo a interpretare l’espressione del suo viso. Gli andai vicino, sperando di trovare la cosa giusta da dire. Una folata di vento mi scompigliò i capelli, e lui allungò la mano per allontanarmeli dalla fronte. Poi mi strinse forte al petto trattenendomi per alcuni momenti.

«Stai bene?» chiese June arrivando di corsa. Gli pose la mano sul volto. «Eravamo preoccupate a morte.»

«Sto bene, adesso.» Qualcosa che non riuscii a identificare gli aveva attraversato per un attimo il viso.

Intervenne Clayton. «La ragazza che sta alla biglietteria del cinema pare abbia visto tutto. Ci ha messo un po’, ma alla fine ha rivelato alla polizia chi è stato a lanciare la bottiglia. Così hanno prosciolto Zach da ogni accusa.»

«Oh, grazie a Dio» disse August, e tutte noi sembrammo riprendere a respirare normalmente.

«Siamo passati un attimo per dirvi quanto ci dispiace per May» disse Clayton. Abbracciò August, poi June. Quando si voltò verso di me, mi posò le mani sulle spalle: non proprio un abbraccio, ma quasi. «Lily, che piacere rivederti.» Poi guardò Rosaleen, che si teneva indietro, accanto alla macchina. «Anche te, Rosaleen.»

August prese la mano di Rosaleen perché si facesse avanti, e continuò a tenergliela, come faceva a volte con May. Mi colpì l’idea che voleva davvero bene a Rosaleen: forse le avrebbe cambiato il nome in July per sancire il suo ingresso nella loro comunità di sorelle.

«Quando il signor Forrest mi ha raccontato di May, non riuscivo a crederci» disse Zach.

Mentre ci incamminavamo verso casa per dare modo a Clayton e Zach di rendere omaggio alla bara, pensai: “Peccato che non ho fatto la messa in piega. Avrei potuto farmi uno di quegli chignon cotonati che usano ora”.

Ci raccogliemmo tutti intorno a May. Clayton chinò la testa, mentre Zach la guardava dritto in faccia.

Ci soffermammo lì a lungo. Rosaleen emise un lieve mormorio, forse di imbarazzo, ma alla fine smise.

Guardai Zach, le lacrime che gli rigavano le guance.

«Mi dispiace» disse. «È stata tutta colpa mia. Se avessi denunciato quello che aveva lanciato la bottiglia, non sarei stato arrestato e non sarebbe accaduto niente.»

Avevo pensato che forse non avrebbe mai scoperto che era stato il suo arresto a mandare May al fiume. Ma era stato sperare troppo.

«Chi te l’ha detto?» chiesi.

Fece un gesto, a significare che non importava. «Mia madre l’ha saputo da Otis. Non avrebbe voluto parlarmene, ma temeva che prima o poi l’avrei saputo da qualcun altro.» Si asciugò il viso. «Vorrei solo…»

August gli sfiorò il braccio. «Se è per questo, se io avessi detto subito a May del tuo arresto, invece di tenerglielo nascosto, tutto questo non sarebbe successo. Oppure se le avessi impedito di andare al muro quella notte, tutto questo non sarebbe successo. E se non avessi aspettato tanto a uscire a cercarla…» Abbassò gli occhi sul corpo di May. «È stata lei a farlo, Zach.»

Temevo, però, che il senso di colpa li avrebbe accompagnati per sempre. In questo consiste il senso di colpa.

«Potresti aiutarmi a velare le arnie?» disse August a Zach quando i due uomini stavano per andarsene. «Ricordi quando è morta Esther?» Poi, rivolta verso di me, aggiunse: «Esther era una Figlia di Maria. È morta l’anno scorso».

«Certo, rimango a darti una mano» rispose Zach.

«Vuoi venire anche tu, Lily?»

«Sissignora.» Non avevo idea di cosa significasse “velare le arnie”, ma non me lo sarei perso neppure per cinquanta dollari.

Dopo che Clayton si fu accomiatato, indossammo caschi e veli e andammo alle arnie, con le braccia cariche di tessuto di crespo nero tagliato in giganteschi quadrati. August ci mostrò come drappeggiare ogni quadrato su ogni arnia, fermandolo con un mattone dopo esserci accertati di lasciare aperta la porta d’ingresso delle api.

August, notai, si soffermava un attimo davanti a ogni arnia, le dita intrecciate sotto il mento. “Per quale ragione lo facciamo?” desideravo chiedere, ma non volevo interrompere quel che pareva un sacro rituale.

Quando finimmo di coprire tutte le arnie, rimanemmo sotto i pini a guardarle: una piccola città di edifici neri. Una città del lutto. Perfino il ronzio diventò cupo sotto quei drappi scuri, basso e prolungato come di notte il suono di una sirena da nebbia in mare.

August si tolse il cappello e si incamminò verso le sedie a sdraio in giardino, seguita da Zach e me. Sedemmo con il sole alle spalle, rivolti verso il muro del pianto.

«Molto tempo fa gli apicoltori coprivano le arnie quando moriva qualcuno in famiglia» disse August.

«Come mai?» chiesi.

«Si pensava che coprire le arnie impedisse alle api di andarsene. Sai, l’ultima cosa che volevano era che le loro api sciamassero quando moriva qualcuno. Si credeva che la presenza di api garantisse al morto di rivivere di nuovo.»

Spalancai gli occhi. «Sul serio?»

«Raccontale di Aristeo» disse Zach.

«Ah, già. Aristeo. Tutti gli apicoltori dovrebbero conoscere questa storia.» Mi sorrise in un modo che mi fece sentire che stavo per arrivare alla Parte Seconda dell’introduzione all’apicoltura: la Parte Prima consisteva nell’essere punti. «Aristeo fu il primo ad allevare le api. Un giorno tutte le sue api morirono, punizione degli dei per qualche sua cattiva azione. Gli dei gli ordinarono di sacrificare un toro per mostrare il suo pentimento, e poi di ritornare dalla carcassa dopo nove giorni e guardarvi dentro. Bene, lui fece esattamente come prescritto, e quando tornò vide uno sciame di api levarsi in volo dalla carcassa del toro. Le sue stesse api, rinate. Le riportò alle arnie, e da quel momento la gente si convinse che le api avevano potere sulla morte. I re greci si facevano costruire tombe a forma di alveare proprio per quella ragione.»

Zach, seduto con i gomiti sulle ginocchia, fissava il cerchio di erba verde smeraldo, ancora rigogliosa dopo la nostra danza con la canna dell’acqua. «Quando un’ape si pasce, un’anima rinasce» disse.

Gli lanciai uno sguardo perplesso.

«È un vecchio detto» spiegò August. «Significa che un’anima si incarnerà nella vita successiva se ci sono api nei paraggi.»

«È scritto nella Bibbia?» mi informai.

August si mise a ridere. «No, ma ai tempi dei romani, i cristiani, quando si nascondevano nelle catacombe, usavano incidere immagini sui muri. Per ricordarsi reciprocamente che dopo la morte sarebbero risorti.»

Infilai le mani sotto le cosce e sedetti eretta, cercando di immaginare le catacombe, qualsiasi cosa fossero. «Pensi che mettere un velo nero sopra le arnie aiuti May ad andare in paradiso?» chiesi.

«Santo cielo, no. Mettiamo quel velo nero soltanto per noi, per ricordarci che la vita cede il passo alla morte, e poi la morte si ritrae e dà luogo alla vita.»

Mi appoggiai allo schienale, fissando il cielo. Si estendeva a perdita d’occhio, sovrastando il mondo come il coperchio di un’arnia. Avrei voluto più di ogni altra cosa seppellire May in una tomba ad alveare. E poi, sdraiarmici dentro anch’io per rinascere a nuova vita.

Arrivarono le Figlie di Maria, cariche di cibo. L’ultima volta che le avevo viste, Queenie e la figlia Violet avevano i cappelli più piccoli di tutto il gruppo, e questa volta ne erano addirittura prive. Forse Queenie detestava coprirsi la chioma candida, che ostentava con una certa fierezza, mentre Violet, che doveva essere sulla quarantina, non accettava di portare il cappello se non lo faceva anche la madre. Se Queenie fosse andata in cucina a infilare la testa nel forno, Violet avrebbe fatto altrettanto.

Lunelle, Mabelee, Cressie e Zuccherino sfoggiavano tutte un copricapo nero, ma non appariscente come i precedenti; quello di Lunelle, però, era ornato da un velo e da una penna rossi. Non appena entrate allinearono i cappelli sul piano, tanto che mi venne voglia di chiedere: “A che scopo?”.

Si affaccendarono ad affettare prosciutto, disporre nei piatti il pollo fritto, irrorare di paprica le uova alle spezie. C’erano fagiolini, rape, maccheroni al formaggio, torta al caramello: tutti i piatti tipici dei funerali. Mangiammo in piedi in cucina, con piatti di carta, commentando che a May sarebbero piaciuti molto quei cibi.

Quando ci fummo rimpinzati al punto da desiderare un sonnellino, andammo in sala a vegliare May. Le Figlie passarono una ciotola di legno piena di quella che chiamavano manna. Un intruglio di semi di girasole, sesamo, zucca, melograno con miele, cotto in forno alla perfezione. Lo mangiavano a manate, sostenendo che per nulla al mondo avrebbero vegliato un morto senza mangiare i semi. I semi evitavano ai vivi di soccombere alla disperazione, spiegarono.

«Ha proprio un bell’aspetto, non trovate?» commentò Mabelee.

Queenie sbuffò. «Se è così, dovrebbero metterla in mostra allo sportello drive-in dell’agenzia di pompe funebri.»

«Oh, Queenie!» protestò Mabelee.

Cressie si accorse di Rosaleen e me sedute al buio, e spiegò: «Le pompe funebri hanno uno sportello drive-in. Prima, infatti, quella era la sede di una banca».

«Adesso espongono la bara aperta nella vetrina accanto allo sportello dove un tempo si andava in macchina a incassare gli assegni» continuò Queenie. «Così si può andare a omaggiare il defunto senza scendere dall’auto. Ti consegnano anche il registro delle firme dal finestrino.»

«È uno scherzo, vero?» fece Rosaleen.

«Assolutamente no. Sul serio» rispose Queenie.

Forse dicevano la verità, ma non sembravano troppo convinte. Ben presto scoppiarono a ridere, appoggiandosi l’una all’altra davanti a May, morta.

Lunelle disse: «Una volta sono andata là in macchina a rendere omaggio alla salma della signora Lamar, perché in passato avevo lavorato da lei. La donna allo sportello di fianco alla bara prima faceva l’impiegata in quella stessa banca, e quando io avviai la macchina, mi disse: “Buona giornata”».

Mi voltai verso August, che si stava asciugando gli occhi pieni di lacrime di ilarità. «Non permetterai che mettano May nello sportello della banca, vero?»

«Cara, non temere» intervenne Zuccherino. «Lo sportello drive-in è per i bianchi. Solo loro hanno abbastanza soldi per escogitare una cosa tanto ridicola.»

Scoppiarono tutte in risate isteriche, e anch’io non riuscii a trattenermi, in parte per il sollievo che la gente non facesse una gita fino alle pompe funebri per vedere May e in parte perché non riuscivo a non ridere vedendo le Figlie sghignazzare.

Ma voglio raccontare un segreto, una cosa che nessuna di loro notò, neppure August, e che mi riempì di gioia. Era quel che aveva detto Zuccherino, come se io fossi una di loro. Nessuno, nella stanza disse: “Su, Zuccherino, non puoi parlare dei bianchi in questo modo, quando ne abbiamo una presente”. Neppure gli passava per la testa che io fossi diversa.

Fino a quel momento avevo pensato che il grande obiettivo fosse che bianchi e neri trovassero il modo per andare d’accordo, ma dopo quel fatto decisi che sarebbe stato molto meglio non fare più caso al colore della pelle. Mi venne in mente il poliziotto, quell’Eddie Hazelwurst, che sosteneva che mi umiliavo a stare in quella casa, e assolutamente non riuscivo a capire come mai si fosse arrivati a questo, come mai le donne di colore fossero finite al livello più basso della scala sociale. Bastava guardarle per rendersi conto di quanto erano speciali, uniche, di quella loro dignità che spesso passava inosservata. Eddie Hazelwurst. Che pezzo di merda.

Provai un tale affetto per loro che sarei stata felice, se fossi morta, di essere messa in mostra allo sportello bancario, soltanto per garantire alle Figlie di Maria una bella risata.

La seconda mattina della veglia, molto prima dell’arrivo delle Figlie, ancor prima che June scendesse dabbasso, August trovò l’ultimo messaggio di May tra le radici di una quercia, a neppure dieci metri da dove era morta. Il bosco l’aveva sepolto sotto foglie appena spuntate, quelle che saltano fuori nel giro di una notte.

Rosaleen stava preparando una torta alla crema di banana in onore di May e io, seduta a tavola davanti alla tazza dei fiocchi d’avena, cercavo di sintonizzare la radio a transistor su un programma decente, quando August irruppe in cucina reggendo il foglio con entrambe le mani, come se le parole potessero cadere a terra se non stava attenta.

Gridò verso le scale: «June, scendi subito. Ho trovato un biglietto di May».

August lo aprì sul tavolo e lo guardò stringendosi le mani. Io spensi la radio di plastica e osservai la carta spiegazzata, le parole sbiadite dall’esposizione all’aria aperta.

I piedi nudi di June risuonarono lungo le scale. Entrò in cucina di corsa. «Oddio, August. Che dice?»

«È così… tipico di May.» August prese il biglietto per leggercelo.

Carissime August e June,

mi dispiace lasciarvi in questo modo. Ma non dovete essere tristi. Pensate piuttosto quanto sarò felice vicino ad April, mamma, papà e Grande Mamma. Pensate a tutti noi lassù insieme, e starete meglio. Sono stanca di portarmi addosso il peso del mondo. Ho voglia di posarlo, adesso. È venuta la mia ora di morire, e la vostra di vivere. Fate tutto come si deve.

Con affetto

May

August posò il foglio e si voltò verso June. Spalancò le braccia per accoglierla. Si strinsero forte, la sorella maggiore e la minore, petto contro petto, il mento di una appoggiato sulla spalla dell’altra.

Rimasero così a lungo da indurmi a chiedere se non fosse il caso che io e Rosaleen uscissimo, ma infine si sciolsero, e allora sedemmo tutte insieme, avvolte dal profumo della torta alla crema di banana.

«Pensi davvero che fosse arrivata l’ora della sua morte?» chiese June.

«Non lo so. Può darsi» rispose August. «Ma su una cosa aveva ragione, ed è che per noi è il momento di vivere. Questo è il suo ultimo desiderio, June, e quindi dobbiamo rispettarlo. D’accordo?»

«Che vuoi dire?»

August andò alla finestra, posò le mani sul davanzale, guardò il cielo color acquamarina, lucente come il taffettà. Stava per prendere una grande decisione: questa l’impressione che dava.

June si mise a sedere. «August, che c’è

Quando si voltò, aveva la mascella irrigidita. «Voglio dirti una cosa, June.» Andò a pararsi davanti a lei. «Tu da troppo tempo vivi a metà. May ha detto che bisogna morire quando è ora di morire, e vivere quando è ora di vivere. Senza paura, senza tirarsi indietro, ognuno di noi con tutto se stesso.»

«Non capisco di cosa parli.»

«Parlo di sposare Neil.»

«Come?»

«Da quando Melvin Edwards ti ha piantato sull’altare, tanti anni fa, tu hai avuto paura dell’amore, di correre rischi. Come ha detto May, è il tuo momento di vivere. Non rovinare tutto.»

June la guardò a bocca spalancata, senza dire una parola.

All’improvviso si diffuse nell’aria odore di fumo. Rosaleen aprì il forno ed estrasse la torta per scoprire che la punta delle meringhe era bruciacchiata.

«La mangiamo com’è» disse August. «Un lieve sapore di bruciato non ha mai fatto male a nessuno.»

Vegliammo May ininterrottamente per quattro giorni. August teneva sempre con sé l’ultima lettera, infilata in tasca o sotto la cintura, se indossava un abito privo di tasche. Io tenevo d’occhio June, che da quando August gliene aveva dette quattro a proposito di lei e Neil appariva silenziosa. Non cupa, più che altro riflessiva. La sorprendevo seduta con la testa appoggiata alla bara, ed era chiaro che non stava soltanto accomiatandosi da May. Cercava dentro di sé le risposte.

Un pomeriggio August, Zach e io andammo a togliere i veli neri dalle arnie. August disse che non si poteva lasciarli troppo a lungo, perché le api memorizzavano tutto della loro arnia e un cambiamento del genere poteva disorientarle. Potevano smarrire la strada di casa, disse. “Io ne so qualcosa” pensai.

Le Figlie di Maria si presentarono ogni giorno poco prima di pranzo. Sedevano in sala con May per tutto il pomeriggio, raccontando episodi della sua vita. Piangevamo un bel po’, certo, ma direi che cominciavamo a sentirci meglio all’idea del distacco. Speravo solo che fosse lo stesso anche per May.

Neil stava in casa con noi quasi quanto le Figlie, e sembrava decisamente turbato per il modo in cui June lo fissava. Lei non suonava spesso il violoncello, perché significava lasciare la mano di lui. A dire la verità, tutte noi trascorremmo quasi tanto tempo a osservare June e Neil quanto ad accompagnare May nell’altra vita.

Il pomeriggio in cui quelli delle pompe funebri vennero a prendere May per la sepoltura, le api ronzavano intorno alle zanzariere delle finestre. Quando la bara fu adagiata sul carro funebre, il ronzio aumentò fino a fondersi con i colori del tardo pomeriggio. Giallo dorato. Rosso. Striature marroni.

Sentii ancora il ronzio presso la tomba, anche se eravamo a miglia di distanza in un cimitero per gente di colore, con lapidi sgretolate e tante erbacce. Quel suono arrivava con la brezza mentre noi, stretti gli uni agli altri, guardavamo la bara di May calare nella terra. August passò in giro un sacchetto pieno di manna, e noi ne buttammo a turno una manciata nella fossa insieme alla bara. Nelle orecchie, solo il ronzio delle api.

Quella notte, nel mio letto nella casa del miele, chiusi gli occhi e sentii il corpo percorso dal ronzio. Trapassava la terra. Era il più vecchio suono del mondo. Quello delle anime che volano via.