Il sudore si raccoglieva nelle pieghe del mio gomito e nella zona tenera dietro le ginocchia. Distesa sul lenzuolo, mi sfiorai le palpebre: gonfie, semichiuse dal tanto piangere. Non fosse stato per le palpebre, avrei potuto credere che la conversazione tra me e August non fosse mai avvenuta.
Non mi ero più mossa da quando August era uscita. Fissavo la piatta superficie della parete, la schiera di insetti notturni che se ne vanno a spasso quando pensano che nessuno sia sveglio. Poi, stufa di guardarli, posai il braccio sugli occhi e mi dissi: “Dormi, Lily. Per favore, prendi sonno”. Ma ovviamente non ci riuscii.
Mi misi a sedere, con la sensazione che il mio corpo pesasse cento chili. Come se qualcuno avesse avvicinato in retromarcia una betoniera alla casa del miele e, collegato il tubo al mio petto, si fosse messo a scaricare cemento. Orribile sentirsi un blocco di cemento nel cuore della notte.
Più di una volta, guardando il muro, avevo pensato a Nostra Signora. Avrei voluto parlarle, dirle: “E adesso che faccio?”. Ma prima, quando ero entrata da lei insieme ad August, non mi aveva dato l’impressione che potesse essere utile, incatenata com’era da capo a piedi. Si desidera che la persona che si prega appaia almeno in grado di aiutarci.
Mi trascinai comunque fuori dal letto e andai da lei. Decisi che neppure Maria doveva necessariamente apparire all’altezza in ogni momento. L’unica cosa che desideravo era che capisse, che emanasse un lungo sospiro e dicesse: “Oh, poverina. So come ti senti”. Potendo scegliere, preferivo qualcuno che capisse la mia situazione, pur non essendo in grado di porvi rimedio, anziché il contrario. Sono fatta così.
Percepii immediatamente la catena, l’odore intenso di ruggine. Provai l’impulso di scioglierla, ma avrei mandato a monte tutta la rappresentazione su cui erano impegnate August e le Figlie.
La candela rossa tremolava ai piedi di Maria. Mi misi a sedere davanti a lei a gambe incrociate. Sentivo il vento agitare la cima degli alberi: un suono cantilenante che mi trasportava indietro nel tempo, quando quello stesso suono mi svegliava la notte e, impastata di sonno e di nostalgia, immaginavo che fosse mia madre, là fuori tra gli alberi, a cantare il suo sconfinato amore per me. Una volta corsi in camera di T. Ray e gli gridai che lei era fuori della mia finestra. Lui si limitò a due sole parole: “Stronzate, Lily”.
Odiavo quando aveva ragione. Non c’era mai stata alcuna voce nel vento. Nessuna madre a cantare là fuori. Niente amore sconfinato.
La cosa tremenda, veramente tremenda, era la rabbia dentro di me. Era iniziata nel portico quando la storia di mia madre era miseramente crollata, e io mi ero sentita mancare il terreno sotto i piedi. Non volevo provare quella collera. “Non sei arrabbiata, non ne hai alcun diritto. Quello che tu hai fatto a tua madre è molto peggio di quel che lei ha fatto a te” mi dissi. Ma non si riesce a parlare a se stessi in quei momenti. O si è arrabbiati o non lo si è.
La stanza era calda e immobile. Ancora un minuto, e non sarei più riuscita a respirare, soffocata dal risentimento. I miei polmoni si espandevano fino a urtarci contro, e poi si richiudevano.
Mi alzai in piedi e presi a camminare al buio. Dietro di me, sul bancone da lavoro, mezza dozzina di barattoli di Miele della Madonna Nera in attesa di essere consegnati da Zach in città: forse a Clayton, oppure all’emporio Frogmore Stew, allo Amen Dollar, oppure al Divine Do’s, il salone di bellezza per la gente di colore.
Come ha osato? Come ha osato abbandonarmi? Ero sua figlia.
Guardai la finestra, con la voglia di prendere a pugni il vetro. Avrei voluto lanciare qualcosa fino in cielo per scaraventare Dio giù dal suo trono. Presi un barattolo di miele e lo scagliai con tutte le mie forze. Mancò la testa di Maria per pochi centimetri prima di spaccarsi contro il muro. Ne presi un altro e lanciai anche quello. Andò in frantumi per terra, accanto a una pila di telaini. Uno a uno, scagliai tutti i barattoli, finché ovunque ci fu miele spiaccicato, che colava come la pastella di una torta dalla frusta elettrica. In quella stanza appiccicosa, piena di vetri rotti, mi sentivo indifferente a tutto. Mia madre mi aveva abbandonato. Che mi fregava del miele sui muri?
Afferrai un secchio di latta e, con un grugnito, lo lanciai con tanta forza che scalfì il muro. Avevo il braccio destro stanchissimo, ma presi comunque un vassoio di stampi per candele e scaraventai pure quello.
Poi, immobile, osservai il miele colare dal muro verso terra. Un tortuoso rivolo di sangue rosso acceso mi scendeva lungo il braccio sinistro. Non sapevo come me l’ero procurato. Sentivo il cuore battere all’impazzata. Era come se avessi tirato giù la cerniera e, uscita dalla mia pelle, mi fossi momentaneamente allontanata, lasciando di guardia una pazza.
La stanza vorticava come una giostra, e lo stomaco era in subbuglio. Sentii il bisogno di toccare il muro con entrambe le mani per fermarlo. Tornai al tavolo dove avevo trovato i barattoli di miele e mi sorressi per non cadere. Non sapevo che fare, schiacciata da una profonda tristezza, non per quello che avevo fatto, per quanto terribile, ma perché tutto sembrava svuotato: i sentimenti che avevo provato per lei, le cose che avevo creduto, tutte quelle storie di lei di cui mi ero nutrita come fossero cibo, acqua e aria. Perché io ero la bambina che lei si era lasciata dietro. Era la fine di tutto.
Guardando il disastro che avevo combinato, mi chiesi se qualcuno, nella casa rosa, avesse sentito il rumore dei barattoli che colpivano il muro. Andai alla finestra a guardare oltre il giardino buio. I vetri in camera di August erano scuri. Sentii il cuore nel mio petto: mi faceva male, come se qualcuno l’avesse calpestato.
«Come hai potuto lasciarmi?» mormorai. Il mio respiro lasciò un cerchio opaco sul vetro.
Rimasi per un po’ incollata alla finestra, poi andai a raccogliere qualche pezzo di vetro dal pavimento davanti a Nostra Signora. Mi sdraiai sul fianco, le ginocchia serrate contro il mento. Sopra di me, la Madonna Nera era tutta schizzata di miele, ma non pareva affatto sorpresa. Rimasi lì, oppressa dal senso di vuoto, dalla spossatezza, prosciugata di tutto, anche dell’odio. Non c’era altro da fare, nessun posto in cui andare. Solo lì, solo quel momento, dove stava la verità.
Mi imposi di non attraversare la stanza al buio per non massacrarmi i piedi. Poi chiusi gli occhi e cominciai a mettere insieme i pezzi del sogno che volevo fare. Una porticina si sarebbe aperta nella statua della Madonna Nera, poco sopra l’addome, e io sarei sgusciata dentro, in uno spazio nascosto. Questo non era tutto frutto della mia immaginazione, perché in realtà avevo visto un’immagine simile nel libro di August: una statua della Vergine con una porta spalancata e, dentro, tante persone strette in quel mondo segreto di consolazione.
A svegliarmi furono le grandi mani di Rosaleen che mi scuotevano. Aprii gli occhi, ma la luce era accecante. Aveva il viso chino su di me, e l’alito profumava di caffè e gelatina d’uva. «Lily!» gridò. «Cosa diavolo è successo qua dentro?»
Avevo dimenticato la chiazza di sangue rappreso sul braccio. La guardai, e vidi un pezzo di vetro, piccolo come una scheggia di diamante, conficcato in una grinza della pelle. Intorno a me, barattoli in frantumi e pozze di miele. Gocce di sangue sul pavimento.
Rosaleen mi fissava smarrita, in attesa di una risposta. La fissai a mia volta, cercando di mettere a fuoco il suo viso. Un raggio di sole cadeva su Nostra Signora per poi riflettersi accanto a noi.
«Rispondimi.»
Abbagliata dalla luce, non riuscivo ad aprire la bocca per articolare le parole.
«Guardati. Hai perso sangue.»
La mia testa annuì, muovendosi su e giù sul collo. Guardai la stanza disastrata con imbarazzo, sentendomi ridicola, stupida.
«Ho lanciato qualche barattolo di miele.»
«Sei stata tu a combinare questo disastro?» chiese incredula, quasi sospettasse l’opera di una banda di vagabondi distruttori di case arrivata durante la notte. Sbuffò con tanta energia da sollevare i capelli, cosa non facile considerata la quantità di lacca che usava. «Oh, Dio del cielo» commentò.
Mi alzai in piedi, sicura che mi avrebbe sgridato, e invece con le dita grasse cercò di estrarre dal mio braccio la scheggia di vetro. «Bisogna metterci subito del mercurocromo per evitare l’infezione. Vieni con me.» Il tono era esasperato, come se avesse voglia di prendermi per le spalle e scrollarmi fino a farmi cadere i denti.
Sedetti sul bordo della vasca mentre Rosaleen mi detergeva il braccio con un tampone gelato. Coprì il taglio con un cerotto. «Ecco fatto, così almeno non muori di infezione.»
Chiuse lo stipetto delle medicine sopra il lavandino, poi chiuse la porta del bagno. Sedette sul water, con la pancia che le cadeva tra le gambe, facendolo scomparire sotto di sé. Appollaiata sulla vasca, mi sollevò il pensiero che August e June erano ancora in camera.
«Bene» disse «perché hai lanciato tutto quel miele?»
Osservai la fila di conchiglie sul davanzale della finestra, consapevole che quello era proprio il posto giusto, anche se ci trovavamo a centinaia di miglia dal mare. August aveva osservato che tutti dovevano avere una conchiglia nel bagno per ricordarsi che il mare era la loro casa. Le conchiglie, sosteneva, sono le cose preferite da Nostra Signora, subito dopo la luna.
Andai a prenderne una bianca e piatta, molto bella, con una sfumatura gialla intorno al bordo.
Rosaleen mi guardava. «Sto aspettando una risposta.»
«T. Ray aveva ragione su mia madre.» Sentii me stessa pronunciare quelle parole con un crescente senso di nausea. «Mi ha lasciato. È andata proprio come ha detto lui. Mi ha abbandonato.» Per la seconda volta sentii salire la rabbia che avevo provato la notte precedente, e per un attimo ebbi l’impulso di scaraventare la conchiglia contro la vasca, ma invece feci un respiro profondo. Lanciare oggetti non dava poi quella gran soddisfazione, avevo scoperto.
Come Rosaleen cambiò posizione, il coperchio del water scricchiolò e lei si spostò sul sedile. Si passò le dita tra i capelli. Il mio sguardo vagò sul tubo sotto il lavandino, sulla macchia di ruggine sul linoleum.
«Dunque se ne è andata, alla fin fine. Signore, proprio quello che temevo.»
Sollevai la testa. Ricordavo la prima notte dopo la nostra fuga, presso il torrente, quando avevo raccontato a Rosaleen quel che mi aveva detto T. Ray. Avrei voluto che lei scoppiasse a ridere all’idea di mia madre che mi lasciava, e invece aveva esitato.
«Tu lo sapevi già, vero?»
«Non ne ero sicura, però avevo sentito qualche voce.»
«Quali voci?»
Emise un sospiro, anzi in realtà qualcosa di più di un sospiro. «Dopo la morte di tua madre, ho sentito una telefonata di T. Ray a quella vicina, la signora Watson. Le disse che non aveva più bisogno di lei per accudirti perché aveva preso una delle raccoglitrici dal pescheto. Parlava di me, e quindi tesi le orecchie.» Davanti alla finestra passò un corvo, che riempì il bagno del suo frenetico cra-cra. Rosaleen aspettò che si allontanasse.
«Conoscevo la signora Watson perché la vedevo in chiesa, e poi spesso si era fermata a comprare le pesche da me. Era gentilissima nei miei confronti, ma mi guardava sempre come se portassi scritto in fronte qualcosa di terribilmente triste, e lei fosse tentata di avvicinarsi per cancellarlo.»
Afferrai il bordo della vasca mentre Rosaleen proseguiva. Non sapevo se avevo voglia di sentire il resto.
«Ho sentito tuo papà dire alla signora Watson: “Janie, sei stata fin troppo gentile a occuparti di Lily in questi ultimi mesi. Non so come avremmo fatto senza di te”.» Rosaleen mi guardò scuotendo la testa. «Mi sono sempre chiesta cosa intendesse, poi, quando mi hai raccontato che T. Ray sosteneva che tua madre ti aveva abbandonato, allora ho intuito.»
«Non riesco a credere che non me l’hai detto.» Incrociai le braccia sul petto.
«Dunque, come l’hai scoperto?»
«Da August.» Ripensai a tutto il pianto fatto in camera sua, io che stringevo in pugno un lembo del suo vestito, il monogramma sul fazzoletto, ruvido contro la guancia.
«August?» ripeté Rosaleen. Raro vederla sbalordita, ma quella era la sua espressione in quel momento.
«Ha conosciuto mia madre da bambina, in Virginia. L’ha cresciuta lei» spiegai.
Aspettai alcuni secondi che digerisse l’informazione.
«È qui che è venuta la mamma quando se ne è andata da casa. Quando… è intervenuta la signora Watson ad accudirmi. È venuta dritta qui, in questa casa.»
Gli occhi di Rosaleen si strinsero ulteriormente. «Tua madre…» disse, poi si interruppe. Chiaro che si stava sforzando di mettere insieme tutti i pezzi nel suo cervello. Mia madre che se ne andava. La signora Watson che badava a me. Mia madre che tornava solo per venire uccisa.
«La mamma rimase qui tre mesi, prima di tornare a Sylvan. Immagino che un giorno le sia balenata infine l’idea. “Ah, già. Ho una bambina a casa. Santo cielo, magari torno a riprenderla, adesso”.»
Sentii l’asprezza delle mie parole, e pensai che forse avrei conservato per sempre quel tono. Da quel momento in avanti, ogni volta che pensavo a mia madre correvo facilmente il rischio di scivolare in quel posto freddo dove prevale il risentimento. Strinsi la conchiglia e la sentii incidere il palmo della mano.
Rosaleen si alzò in piedi. La guardai. Com’era grossa in quel piccolo bagno. Anche io mi alzai, e per un secondo ci fissammo, strette tra la vasca e il water.
«Vorrei che mi avessi detto quel che sapevi di mia madre. Perché non l’hai fatto?»
«Oh, Lily.» La sua voce era gentile, come se le parole fossero state cullate su una piccola amaca di tenerezza nella sua gola. «Perché avrei dovuto ferirti con una cosa del genere?»
Rosaleen si incamminò al mio fianco verso la casa del miele con una scopa di filacce in spalla e una spatola in mano. Io portavo un secchio di stracci e lo Spic & Span. Usammo la spatola per raschiare il miele, finito anche in posti incredibili. Un po’ era schizzato perfino sulla calcolatrice di August.
Lavammo pavimento e pareti, poi ci mettemmo al lavoro su Nostra Signora. Rivoltammo tutto da cima a fondo, per fare tornare quel posto come prima, tutto il tempo senza dire una parola.
Io lavoravo con un senso di pesantezza dentro di me, completamente svuotata di ogni vitalità. C’era il mio alito che mi usciva in sbuffi rumorosi dalle narici. C’era il cuore di Rosaleen tanto pieno di affetto per me da trasparire dal suo viso sudato. C’era Nostra Signora che parlava con gli occhi, dicendo cose che non riuscivo a capire. E non c’era altro.
Le Figlie e Otis arrivarono a mezzogiorno, con tutto un carico di cibarie, come se non avessimo mangiato fino alla nausea la sera prima. Le misero nel forno per tenerle in caldo e rimasero in cucina a rubacchiare pezzi di frittelle di granturco di Rosaleen, commentando che erano le migliori che avessero avuto il piacere di assaggiare, cosa che la riempì di orgoglio.
«Piantatela di mangiare tutte le frittelle» esclamò June. «Sono per il pranzo.»
«Ma no, servitevi pure» disse Rosaleen, lasciandomi di stucco, perché regolarmente mi picchiava sulla mano ogni volta che rubacchiavo un pezzetto di frittella prima di cena. Quando arrivarono Neil e Zach, le frittelle erano quasi sparite, e Rosaleen era talmente compiaciuta che rischiava di alzarsi in volo.
Io, immobile e stordita, me ne stavo in un angolo della cucina. Avrei voluto strisciare via in ginocchio nella casa del miele e rannicchiarmi a letto. Avrei voluto che tutti tacessero e se ne andassero a casa.
Zach mi guardò, ma io mi voltai a fissare lo scarico del lavello. Con la coda dell’occhio mi accorsi che August mi stava osservando. Aveva le labbra luminose, brillanti, come spalmate di vaselina: anche lei si era data da fare con le frittelle, dunque. Mi si avvicinò per sfiorarmi la guancia. Non pensavo che sapesse del disastro da me combinato nella casa del miele, anche se aveva un suo modo di intuire le cose. Forse voleva farmi sapere che non c’era problema.
«Voglio che parli tu con Zach» dissi. «Della mia fuga, di mia madre, di tutto quanto.»
«Non vuoi raccontarglielo tu stessa?»
Sentii salire le lacrime. «Non posso. Ti prego, fallo tu.»
Guardò nella direzione di Zach. «D’accordo. Non appena si presenta l’occasione.»
Guidò tutto il gruppo all’esterno per l’ultima cerimonia del Giorno di Maria. Sfilammo in giardino, tutte le Figlie con briciole unte sulle labbra. June ci aspettava già fuori, seduta su una sedia da cucina priva di braccioli, e suonava il violoncello. Ci radunammo intorno a lei sotto il sole del mezzogiorno. Suonava una di quelle melodie che ti straziano, che penetrano nelle stanze segrete del tuo cuore e ne liberano la tristezza. Nell’ascoltarla, vedevo mia madre seduta sulla corriera in partenza da Sylvan, mentre il mio io di quattro anni sonnecchiava a letto, ignaro di quanto mi aspettava al risveglio.
La musica di June si trasformava in aria, e l’aria in dolore. Spostai il peso sulle gambe cercando di non respirare quel dolore.
Fu un sollievo quando Neil e Zach uscirono dalla casa del miele con Nostra Signora, perché questo distolse la mia mente dalla corriera. La portavano sottobraccio come un rotolo di tappeto, con le catene che sbatacchiavano contro il suo corpo. Strano che non usassero di nuovo il carretto, un mezzo di trasporto più dignitoso: invece, come non fosse abbastanza, la posarono proprio sopra un formicaio, provocando una fuga precipitosa dal suo interno. Ci mettemmo tutti a saltellare per scuoterci via le formiche dai piedi.
La parrucca di Zuccherino, che per qualche ragione lei insisteva a chiamare “cappello-parrucca”, con tutti quei balzi le era calata sulle sopracciglia, e quindi dovemmo darle il tempo di entrare a risistemarla. Otis le gridò dietro: «Te l’avevo detto di non metterla, con questo caldo. Il sudore te la fa scivolare via dalla testa».
«Decido io se mettermela o no» rispose lei, voltandosi a guardarlo oltre la spalla.
«Come se non lo sapessimo» ribatté lui, fissandoci come se fossimo tutti dalla sua parte, quando invece sostenevamo Zuccherino al cento per cento, non perché ci piacesse quella parrucca – la cosa più orrida che si fosse mai vista – ma perché ci piaceva ancor meno che Otis le desse degli ordini.
Quando fu tutto sistemato, August disse: «Bene, eccoci qui, davanti a Nostra Signora».
Notai con soddisfazione che era perfettamente lustra.
August lesse le parole di Maria dalla Bibbia. “Ed ecco che fin d’ora tutte le generazioni mi chiameranno beata…”.
«Beata Maria» la interruppe Violet. «Beata, beata Maria.» Guardò verso il cielo e tutti noi alzammo lo sguardo, chiedendoci se avesse visto Maria che saliva tra le nuvole. «Beata Maria» ripeté ancora.
«Oggi celebriamo l’Assunzione di Maria» disse August. «Commemoriamo il suo risveglio, la sua ascensione al cielo. E siamo qui anche per ricordare la storia di Nostra Signora delle Catene, per ribadire a noi stessi che quelle catene non sono mai riuscite a trattenerla. Nostra Signora se ne liberò ogni volta.»
August afferrò la catena avvolta intorno alla Madonna Nera e ne sciolse un giro prima di passare il capo a Zuccherino, che ne srotolò un altro pezzo. Ognuno di noi tirò via un giro. Quel che ricordo è il rumore metallico che faceva cadendo sulla pila ai piedi della statua, uno sferragliare che sembrava echeggiare le parole di Violet. Beata. Beata. Beata.
«Maria si sta innalzando» disse August, la voce ridotta a un mormorio. «Si sta innalzando verso il cielo.» Le Figlie alzarono le braccia. Perfino Otis tendeva le sue in alto.
«Maria, Nostra Madre, non può essere umiliata e legata» continuò August. «E neppure le sue Figlie. Ci solleveremo, Figlie. Noi… ci… solleveremo.»
June fendeva con l’archetto le corde del violoncello. Volevo alzare le braccia con tutti loro, sentire una voce dal cielo che mi diceva: “Tu ti solleverai”, sentire che era possibile; e invece le mie braccia rimanevano flosce lungo i fianchi. Dentro di me mi sentivo piccola e spregevole, abbandonata. Ogni volta che chiudevo gli occhi, vedevo sempre la corriera.
Le Figlie continuavano a tendere le braccia in alto, dando l’impressione di innalzarsi insieme a Maria. Poi, August prese un barattolo di miele della Madonna Nera dietro la sedia di June, e ciò che fece riportò tutti quanti sulla terra. Svitò il coperchio e lo rovesciò sulla testa di Nostra Signora.
Il miele colò sul volto di Maria, sulle spalle, si insinuò tra le pieghe del vestito. Un frammento di favo si incollò nella curva del gomito di Nostra Signora.
Guardai Rosaleen, come a dire: “Ecco, ottimo. Abbiamo impiegato tanto tempo a ripulirla dal miele, e loro glielo versano addosso”.
Decisi che niente di quello che facevano queste donne mi avrebbe mai più sorpreso, ma il pensiero durò soltanto un secondo, perché subito dopo le Figlie sciamarono intorno a Nostra Signora come un gruppo di api serventi e fregarono il miele sul legno, spalmandolo dalla cima della testa alle guance, al collo, alle spalle e alle braccia, sul petto e sul ventre.
«Su, Lily, vieni ad aiutarci» disse Mabelee. Rosaleen si era già lanciata e stava cospargendo di miele le gambe di Nostra Signora. Io mi tenevo indietro, ma Cressie mi trascinò vicino a Maria, mi immerse le mani nella poltiglia di miele riscaldato dal sole, poi le posò proprio sopra il cuore rosso di Nostra Signora.
Ricordai la mia visita a Nostra Signora nel cuore della notte, quando avevo messo le mani in quell’identico punto. “Tu sei mia madre” le avevo detto allora. “Sei la madre di migliaia.”
«Non capisco perché lo facciamo» osservai.
«Le facciamo sempre il bagno di miele» rispose Cressie. «Ogni anno.»
«Per quale ragione?»
August stava coprendo di miele il volto di Nostra Signora. «Le chiese usavano immergere le loro statue speciali nell’acqua santa in segno di omaggio» spiegò. «Soprattutto le statue di Nostra Signora. A volte le immergevano nel vino. Noi abbiamo optato per il miele.» Si mise a lavorare sul collo di Nostra Signora. «Vedi, Lily, il miele è un conservante. Sigilla i favi delle arnie per mantenerli sicuri e puliti, così che le api possano sopravvivere all’inverno. Quando lo cospargiamo sopra Nostra Signora, si potrebbe dire che è per conservarla un altro anno. Questa, almeno, è l’aspirazione del nostro cuore.»
«Non sapevo che il miele fosse un conservante.» Cominciavo a sentire i polpastrelli scivolosi, come unti.
«Be’, in genere non si pensa a questa caratteristica del miele, e invece ha un’azione tanto efficace che in passato lo si spalmava sui cadaveri per imbalsamarli. Le madri seppellivano i loro figlioletti morti nel miele, perché li manteneva intatti.»
Un uso del miele che non avevo mai preso in considerazione. Immaginai agenzie di pompe funebri che, invece di bare, vendevano grandi barili di miele. Cercai di raffigurarmeli nello sportello drive-in dell’impresa locale.
Cominciai a lavorare con le mani sul legno, quasi imbarazzata per l’intimità di quei gesti.
A un certo punto Mabelee chinò troppo la testa e si riempì i capelli di miele; Lunelle, invece, prese un biscotto con il miele che le colò fino in fondo ai gomiti. Cercò di leccarlo, ma ovviamente non ci arrivava con la lingua.
Le formiche, attirate dal miele, cominciarono una processione su per un fianco di Nostra Signora, e, per non essere da meno, un gruppetto di api esploratrici atterrò sulla testa della statua. Basta portare fuori un po’ di miele e il mondo degli insetti accorre veloce.
«Adesso immagino che arriveranno gli orsi» osservò Queenie. Mi misi a ridere, e scorgendo una zona priva di miele alla base della statua, mi affrettai a ricoprirla.
Nostra Signora veniva accarezzata da mani di ogni sfumatura di marrone e di nero, che si muovevano in ogni direzione, e proprio allora accadde una cosa stranissima. Gradualmente tutte le nostre mani assunsero lo stesso movimento, spostandosi su e giù per la statua con gesti lunghi e lenti, per poi scivolare di lato, come uno stormo di uccelli che cambia direzione in cielo nello stesso momento, e induce a chiedersi chi sia stato a dare l’ordine.
Continuammo così per non so quanto tempo, senza parlare per non rovinare il momento. Cercavamo di preservare Nostra Signora e, per la prima volta da quando avevo saputo di mia madre, mi sentivo contenta di fare quel che stavo facendo.
Finalmente ci allontanammo tutte. Nostra Signora stava lì, le catene accatastate sull’erba ai suoi piedi, dorate di miele.
Le Figlie di Maria immersero una a una le mani in un secchio d’acqua per lavarsi. Io aspettai fino all’ultimo momento, volendo tenere sulla pelle quello strato di miele il più a lungo possibile. Era come se stessi indossando un paio di guanti dalle proprietà magiche, in grado di preservare tutto ciò che toccavo.
Lasciammo Nostra Signora in giardino per andare a mangiare, e poi tornammo a lavarla con l’acqua compiendo gli stessi gesti lenti con cui l’avevamo cosparsa di miele. Poi, dopo che Neil e Zach l’ebbero portata al suo posto in sala, tutti se ne andarono. August, June e Rosaleen cominciarono a lavare i piatti, ma io sgusciai via nella casa del miele. Mi distesi sul letto, cercando di non pensare.
Avete mai notato che, quanto più ci si sforza di non pensare, tanto più si fanno elaborati i nostri pensieri? Mentre tentavo, trascorsi venti minuti concentrata su questa domanda: se fosse consentito di ottenere un miracolo della Bibbia, quale avrei scelto? Scartai quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci perché non volevo mai più vedere cibarie. Camminare sull’acqua sarebbe stato interessante, ma a che serviva? Voglio dire: sì, cammini sulle acque, e allora? Scelsi di essere resuscitata dalla morte, perché una grossa parte di me si sentiva morta stecchita.
Tutto questo, prima che mi rendessi conto di pensare. Avevo ripreso a cercare di non pensare quando August bussò alla porta.
«Lily, posso entrare?»
«Certo.» Non mi preoccupai di alzarmi. Fine dei tentativi di non pensare. Provate voi a stare vicino ad August per cinque secondi senza pensare.
Entrò leggera con in mano una cappelliera a strisce bianche e oro. Mentre abbassava gli occhi su di me, mi parve più alta del solito. Il ventilatore sul piccolo ripiano ruotava investendo con un getto d’aria il suo colletto, che le sbatteva sulla pelle.
“Mi ha portato un cappello” pensai. Forse era andata in città, da Amen Dollar, e mi aveva comprato un cappello di paglia per tirarmi su di morale. Ma non aveva molto senso, per la verità. Perché mai avrebbe dovuto tirarmi su un cappello di paglia? Per un secondo pensai che fosse quello che Lunelle aveva promesso di farmi, ma neppure questa ipotesi reggeva. Non ne aveva avuto il tempo materiale.
August sedette su quello che era stato il letto di Rosaleen con la cappelliera in grembo. «Ti ho portato alcune cose appartenute a tua madre.»
Fissai quella scatola perfettamente tonda. Trassi un respiro profondo, che produsse uno strano suono nel venire fuori. Cose appartenute a mia madre.
Rimasi immobile. Inspirai l’aria che proveniva dalla finestra, agitata dalle pale del ventilatore. Era impregnata di umidità, ma per il momento non pioveva ancora.
«Non vuoi guardare?»
«Dimmi solo cosa c’è.»
Diede qualche colpetto sul coperchio. «Non sono sicura di ricordarlo. Non ricordavo neppure più questa scatola, fino a stamattina. Pensavo di aprirla insieme a te, ma non è necessario che guardi, se non vuoi. Sono solo poche cose che tua madre ha lasciato qui il giorno in cui è tornata a Sylvan a prenderti. I suoi vestiti ho finito per darli all’Esercito della Salvezza, ma il resto della sua roba l’ho conservato, quel poco che c’era. È in questa scatola da dieci anni, credo.»
Mi alzai a sedere. Sentivo il cuore battere forte, e mi chiesi se anche August lo udisse, dal lato opposto della stanza. Bum-bum. Bum-bum. Malgrado il panico che lo accompagna, c’è qualcosa di familiare e di stranamente consolante nel sentire il proprio cuore battere in quel modo.
August posò la scatola sul letto e tolse il coperchio. Mi sporsi un po’ per vedere dentro, ma non riuscii a scorgere niente altro che carta velina ingiallita.
Tirò fuori un piccolo involto e lo sfasciò. «Lo specchio da tasca di tua mamma» disse sollevandolo. Ovale, con una cornice di tartaruga, non più grande del palmo della mia mano.
Mi lasciai scivolare per terra e appoggiai la schiena al letto, un po’ più vicina ad August. Lei indugiava come se aspettasse che io andassi a prendere lo specchio. Io praticamente dovetti sedere sulle mani per impedirmelo. Infine, lo sollevò per guardarlo. Cerchi di luce rimbalzarono sulla parete alle sue spalle. «Se guardi qui, vedrai il viso di tua madre che guarda te.»
“Non ci guarderò mai” pensai.
Lo posò sul letto, pescò di nuovo nella scatola e trasse una spazzola da capelli con un manico di legno. Me la porse. La presi senza pensarci. Il manico – freddo e liscio, come consumato dall’uso – mi dava una sensazione strana. Mi chiesi se si fosse data cento colpi di spazzola ogni giorno.
Mentre stavo per restituirla ad August, scorsi lunghi capelli ondulati tra le setole. Avvicinai la spazzola al viso e la fissai. I capelli di mia madre, una parte vera del suo corpo.
«Be’, accipicchia» commentò August.
Non riuscivo a distogliere gli occhi. Erano cresciuti sulla sua testa e ora se ne stavano lì, sulla spazzola, come un pensiero lasciato indietro. Compresi allora che per quanto ci si sforzi, per quanti barattoli di miele si lancino in giro, per quanto si pensi di lasciarsi alle spalle la propria madre, lei non scomparirà mai dalle zone vulnerabili dentro di noi. Premetti la schiena contro il letto sentendo arrivare le lacrime. La spazzola e i capelli di Deborah Fontanel Owens nuotavano davanti ai miei occhi.
La porsi ad August, che mi lasciò cadere in mano un suo gioiello. Una spilla d’oro a forma di balena, con un minuscolo occhio nero e un fiotto di cristallo di rocca che usciva dallo sfiatatoio.
«Portava questa spilla sul maglione il giorno che è arrivata qui.»
La strinsi fra le dita, poi, in ginocchio, mi avvicinai al letto di Rosaleen per posarla accanto allo specchio tascabile e alla spazzola. Li spostai tutti come se lavorassi a un collage.
Allo stesso modo usavo posare sul letto i regali di Natale. In genere erano quattro cose che T. Ray chiedeva alla signora dell’emporio Sylvan di scegliere per me: maglione, calze, pigiama e sacchetto di arance. Buon Natale. Avrei potuto scommetterci la vita sulla lista dei regali. Li disponevo in verticale, poi formavo un quadrato, una diagonale, ogni tipo di configurazione che mi convincesse che si trattava di una traccia di affetto.
Alzai gli occhi su August. Stava tirando fuori dalla scatola un libro nero. «Questo l’ho regalato a tua madre quando stava qui. Poesia inglese.»
Presi il libro in mano, lo sfogliai, notai i segni a matita sui margini: non parole, ma strani piccoli scarabocchi, vortici turbinosi, una torma di V, svolazzi con occhi, pentole con coperchi, pentole con faccette, pentole da cui uscivano volute di vapore. Piccole pozze che all’improvviso avrebbero dato vita a una terribile ondata. Fissando le miserie private di mia madre, mi venne voglia di uscire a seppellire il libro nella terra.
Pagina quarantadue. Le otto righe di William Blake che aveva sottolineato, alcune parole anche due volte:
O rosa, tu sei malata,
il verme invisibile,
che vola nella notte
nella bufera urlante
ha scoperto il tuo letto
di gioia color cremisi:
e il suo oscuro segreto amore
distrugge la tua vita.
Chiusi il libro. Volevo che quelle parole fluissero via da me, ma mi si erano incollate dentro. Mia madre era la rosa di William Blake. Non desideravo altro che dirle quanto mi dispiaceva di essere uno dei vermi invisibili che volano nella notte.
Posai il libro sul letto accanto alle altre cose, poi mi voltai verso August. Stava frugando di nuovo nella scatola e faceva frusciare la carta velina. «Un’ultima cosa» disse, tirando fuori una piccola cornice ovale di argento annerito.
Quando me la passò, mi trattenne le mani per un secondo. La cornice conteneva la fotografia di una donna di profilo, la testa china verso una bambina seduta su un seggiolone, con un lato della bocca tutto sporco di pappa. I capelli della donna si arricciavano in quaranta direzioni, bellissimi, come se li avesse appena spazzolati cento volte. La bambina portava un bavaglino con un orsacchiotto. Un ciuffo di capelli in cima alla testa legati con un fiocco. La mano sollevata verso la donna.
Io e mia madre.
Non mi importava nient’altro al mondo che il suo viso inclinato verso il mio, i nasi che si sfioravano, il suo sorriso ampio e allegro, sfavillante. Mi dava da mangiare con un cucchiaino. Aveva strofinato il naso contro il mio inondando della sua luce il mio viso.
Dalla finestra aperta arrivava il profumo del gelsomino, che è il vero profumo della Carolina del Sud. Andai ad appoggiare i gomiti sul davanzale e respirai a fondo. Dietro di me sentii August muoversi, le gambe che scricchiolavano, quindi si rilassava.
Fissai la fotografia, poi chiusi gli occhi. Pensai che May fosse arrivata in cielo e avesse spiegato a mia madre che io aspettavo un segno. Quello che mi avrebbe fatto capire di essere stata amata.