Dopo aver passato in rassegna il contenuto della cappelliera insieme ad August, mi ritirai dentro me stessa e ci rimasi per un po’. August e Zach si prendevano cura delle api, mentre io trascorrevo la maggior parte del tempo da sola, al fiume. Volevo soltanto starmene per conto mio.
Il mese di agosto era diventato una sorta di graticola su cui i giorni si posavano sfrigolando. Io mi sventolavo con foglie di taro strappate, i piedi nudi a mollo nell’acqua corrente, accarezzata dalla brezza che si sollevava dalla superficie del fiume. Tutto in me appariva ottenebrato, istupidito dalla calura. Tutto, tranne il mio cuore, piazzato come una scultura di ghiaccio al centro del petto. Nulla poteva toccarlo.
La gente, in genere, preferisce morire che perdonare. È tremendamente difficile perdonare. Se Dio dicesse chiaro e tondo: “Ti do la possibilità di scegliere: o perdoni o muori”, migliaia di persone partirebbero decise a ordinarsi la bara.
Fasciai nella carta velina mezza strappata gli oggetti di mia madre e li riposi nella cappelliera, che chiusi con il coperchio. Sdraiata a terra sulla pancia per spingere la scatola sotto il letto, trovai una minuscola pila di ossa di topo. Le raccolsi e le lavai. Ogni giorno me le portavo in tasca, ma non sapevo perché.
La mattina, al risveglio, il mio primo pensiero andava alla cappelliera. Era come se mia madre in persona si nascondesse sotto il letto. Una notte dovetti alzarmi per spostarla dalla parte opposta della stanza, poi sfilai il guanciale dalla federa e al suo posto misi la scatola. Richiusi bene con un mio nastro da capelli. Tutto questo per poter prendere sonno.
Andavo nella casa rosa per usare il bagno e pensavo: “Mia madre si è seduta su questo stesso water”, e poi mi detestavo per averlo pensato. Chi se ne frega dove sedeva a fare pipì? Non si era preoccupata molto delle mie abitudini in bagno quando mi aveva abbandonato con la signora Watson e T. Ray.
Mi facevo delle lunghe prediche. Non pensare a lei. È tutto finito. Ma il minuto successivo, lo giuro davanti a Dio, me la raffiguravo nella casa rosa, oppure fuori, vicino al muro del pianto, a inserire i suoi tormenti fra le pietre. Avrei scommesso venti dollari che il nome di T. Ray era pigiato tra le crepe dei sassi. Forse c’era anche il nome Lily, là fuori. Rimpiansi che non fosse stata abbastanza intelligente, o capace d’amore, da capire che tutti sono oppressi da qualche peso, però si guardano bene dal rinunciare ai propri figli.
Per quanto strano, in un certo senso amavo la mia piccola collezione di pene e dolori. Mi offrivano la possibilità di autocompiangermi, mi facevano sentire eccezionale. Io ero la ragazza abbandonata dalla madre. Io ero la ragazza che stava in ginocchio sui chicchi d’avena. Davvero un caso speciale.
Eravamo nel pieno della stagione delle zanzare, così per gran parte del tempo, vicino al fiume, mi davo da fare a scacciarle. Seduta nell’ombra violacea, tiravo fuori le ossa di topo e ci giocherellavo con le dita. Fissavo le cose fintanto che non avevo l’impressione di sciogliermi dentro di loro. A volte dimenticavo il pranzo, e allora Rosaleen arrivava a portarmi un panino con i pomodori. Appena si allontanava, lo gettavo nel fiume.
Altre volte mi sdraiavo a terra e fingevo di trovarmi dentro a una di quelle tombe ad alveare. Avvertivo la stessa sofferenza provata alla morte di May, ma moltiplicata per cento.
August aveva detto: «Penso che tu abbia bisogno di sfogare il tuo dolore. Quindi, fai come ti senti». Ma ora che lo stavo facendo, avevo l’impressione che non avrei smesso mai più.
August doveva aver spiegato tutto a Zach e June, perché si aggiravano guardinghi intorno a me come se fossi un caso da psichiatra. E forse lo ero. Forse ero io quella che sarebbe dovuta andare a Bull Street, non mia madre. Ma almeno nessuno mi pungolava, dicendomi: “Per l’amore del cielo, sforzati di uscirne”.
Mi chiedevo quanto sarebbe passato prima che August prendesse provvedimenti, dopo tutto quello che le avevo detto: io, fuggita da casa, avevo aiutato Rosaleen a scappare, Rosaleen l’evasa. August mi stava concedendo del tempo, tempo per andare al fiume e fare quel che dovevo, proprio come aveva concesso tempo a se stessa dopo la morte di May. Ma non poteva durare per sempre.
È nella strana natura del mondo che esso continui a girare per quante cose strazianti accadano. June fissò la data del matrimonio: sabato 10 ottobre. Sarebbe stato il fratello di Neil, un reverendo episcopale-metodista nero di Albany, Georgia, a sposarli in giardino sotto il mirto. June spiegò i suoi progetti una sera a cena. Avrebbe percorso un sentiero di petali di rosa con un abito bianco di rayon con alamari, che le stava cucendo Mabelee. Non capivo proprio cosa fossero gli alamari, e June me ne disegnò uno su un foglietto, ma ancora non riuscii a raffigurarmeli. Aveva commissionato a Lunelle un cappello da cerimonia, un gesto davvero coraggioso da parte sua. Impossibile immaginare cosa le avrebbe messo in testa.
Rosaleen si offrì di preparare la torta a strati, che Violet e Queenie avrebbero decorato con “il tema dell’arcobaleno”. Anche in questo caso il coraggio di June mi riempì di ammirazione.
Un giorno, a metà del pomeriggio, ero diretta in cucina, mezza morta di sete, per riempire una brocca d’acqua e portarmela al fiume. Trovai June e August aggrappate l’una all’altra proprio al centro della stanza.
Mi fermai sulla soglia a guardare, anche se quello era un momento privato. June cingeva la schiena di August con mani tremanti. «A May sarebbe piaciuto tanto questo matrimonio» disse. «Mi ha ripetuto cento volte che ero troppo testarda riguardo a Neil. Oddio, August, perché non l’ho fatto prima, quando era ancora in vita?»
August si voltò leggermente e mi vide sulla soglia. Stringeva June, che si era messa a piangere, ma teneva gli occhi fissi su di me. «I rimpianti non servono a nulla, lo sai» disse.
Il giorno successivo sentii un certo appetito. Andai in cucina e trovai Rosaleen con un abito nuovo e le trecce appena fatte. Infilava fazzoletti di carta nel petto, casomai le fossero serviti.
«Dove hai preso quel vestito?» chiesi.
Lei fece un giro come una modella, e quando io sorrisi ne fece un altro. Era quello che si definirebbe un abito-tenda da campeggio: metri di stoffa che le cadevano dalle spalle senza il beneficio di una cintura o di una pince, giganteschi fiori bianchi su sfondo rosso vivo. Era chiaro che le piaceva moltissimo.
«L’ho comprato in città, ieri. Mi ci ha accompagnato August.» D’un tratto mi sorprese scoprire che le cose erano andate avanti anche senza di me.
«È un bell’abito» mentii, notando solo in quel momento che in giro non c’era traccia di preparativi per il pranzo.
Lisciò il davanti, guardò l’orologio sulla stufa, e prese la vecchia borsa bianca di vinile ereditata da May.
«Vai da qualche parte?» chiesi.
«Puoi giurarci» rispose August, entrando in cucina con un gran sorriso rivolto a Rosaleen.
«Vado a finire quello che ho cominciato» spiegò Rosaleen, alzando il mento con fierezza. «Vado a iscrivermi alle liste elettorali.»
Abbandonai le braccia lungo i fianchi, la bocca spalancata. «Ma il fatto… insomma… sai che sei…»
Rosaleen mi guardò sospettosa. «Che cosa?»
«Un’evasa. E se riconoscono il tuo nome? E se ti prendono?»
Rivolsi ad August uno sguardo preoccupato.
«Oh, non c’è problema, secondo me» disse August, prendendo le chiavi del camion da un chiodo di ottone sulla porta. «Andiamo al seggio elettorale situato nel liceo per ragazzi di colore.»
«Ma…»
«Per amore del cielo, non faccio altro che ritirare la scheda elettorale» disse Rosaleen.
«Hai detto la stessa cosa anche l’altra volta.»
Mi ignorò. Mise al braccio la borsa di May. C’era uno squarcio dalla maniglia fin su un lato.
«Vuoi venire, Lily?»
Volevo, e allo stesso tempo non volevo. Abbassai lo sguardo sui miei piedi abbronzati e nudi. «Rimango a prepararmi qualcosa per pranzo.»
August sollevò le sopracciglia. «Mi fa piacere vedere che hai fame, per una volta.»
Uscirono sul retro, e scesero la scala del portico. Le seguii fino al camion. Mentre Rosaleen saliva a bordo, le dissi: «Non sputare sulle scarpe di nessuno, intesi?».
Scoppiò in una risata che le scosse tutto il corpo. Sembrò che tutti i fiori dell’abito fossero stati investiti da una folata di vento.
Tornai dentro, bollii due salsicciotti e li mangiai senza pane. Poi mi diressi nei boschi, dove raccolsi alcune pratoline che crescevano spontanee nei tratti assolati. Dopo un po’ mi stufai e le buttai via.
Seduta per terra, mi aspettavo di sprofondare nel mio solito umore nero e pensare a mia madre, e invece gli unici pensieri riguardavano Rosaleen. Me la vidi in attesa in coda. Mentre con cura scriveva il suo nome. Per farlo bene. Il suo grande momento. D’un tratto rimpiansi di non essere andata con loro. Lo rimpiansi moltissimo. Avrei voluto vedere il suo viso mentre le porgevano la scheda elettorale. Avrei voluto dirle: “Rosaleen, sai una cosa? Sono fiera di te”.
Che ci facevo là seduta nel bosco?
Mi alzai e rientrai in casa. Davanti al telefono, nel corridoio, provai l’irresistibile impulso di chiamare Zach. Di diventare di nuovo parte del mondo. Digitai il numero.
«Che c’è di nuovo?» chiesi, quando rispose.
«Chi parla?»
«Molto spiritoso» gli dissi.
«Mi dispiace… per tutto quanto. August mi ha raccontato quel che è successo.» Per un attimo scese il silenzio tra noi, poi lui riprese. «Dovrai tornare?»
«Intendi da mio padre?»
Un attimo di esitazione. «Già.»
Nel minuto stesso in cui mi fece quella domanda, ebbi la netta sensazione che fosse esattamente quel che sarebbe successo. Lo sentivo con ogni fibra del mio corpo. «Suppongo di sì» risposi. Arrotolai il cordone del telefono intorno al dito e fissai la porta d’ingresso in fondo al corridoio. Per alcuni secondi non riuscii a distogliere lo sguardo. Mi vidi varcare quella porta per non tornare mai più.
«Verrò a trovarti» disse lui, e a me venne da piangere.
Zach che bussa alla porta di casa di T. Ray Owens. Impensabile.
«Ti ho chiesto se c’erano novità, ricordi?» Non me ne aspettavo, ma avevo bisogno di cambiare argomento.
«Be’, tanto per cominciare, quest’anno andrò al liceo dei bianchi.»
Rimasi senza parole. Strinsi il telefono nella mano. «Sicuro che sia il caso di fare una cosa del genere?» Conoscevo bene quei posti.
«Qualcuno deve pur cominciare. Tanto vale che sia io.»
Tutti e due, a quanto pareva, eravamo destinati al disastro.
Rosaleen tornò a casa, elettrice a pieno titolo degli Stati Uniti d’America. Le sedemmo tutte intorno, quella sera, prima di cena, mentre lei telefonava personalmente a ognuna delle Figlie di Maria.
«Volevo solo dirti che sono iscritta alle liste elettorali» annunciava ogni volta, poi faceva una pausa, prima di aggiungere: «Il presidente Johnson e il signor Hubert Humphrey, ecco chi. Non ho intenzione di votare per il signor Pisswater.» Sghignazzava ogni volta, come fosse una battuta spiritosissima. Poi aggiungeva: «Goldwater, Piss-water. L’hai capita?».
Andò avanti fin dopo cena, e proprio quando credevamo che si fosse ormai calmata, all’improvviso sbottava: «Voterò per Johnson».
Finalmente stanca, augurò a tutte la buonanotte, e io la guardai salire le scale con il suo vestito bianco e rosso da iscrizione alle liste elettorali, e ancora una volta rimpiansi di non essere andata con lei.
“I rimpianti non servono a nulla, lo sai” aveva detto August a June.
Corsi su per le scale e l’afferrai da dietro, fermandola con un piede per aria, in cerca del gradino successivo. Le circondai la vita con le braccia. «Ti voglio bene» dichiarai d’impulso, prima ancora di sapere cosa le avrei detto.
Quella sera, quando cicale, raganelle e le altre creature musicali tutte eccitate andavano forte, mi misi a camminare intorno alla casa con l’irrequietezza che prende all’arrivo della primavera. Erano le dieci di sera, ma piena di energia come mi sentivo avrei potuto fregare i pavimenti e lavare i vetri.
Mi avvicinai agli scaffali e misi in ordine i barattoli, poi presi la scopa e spazzai anche sotto il generatore di vapore e il serbatoio di decantazione, dove pareva che nessuno avesse scopato da cinquant’anni. Ma non ero ancora stanca, quindi tolsi le lenzuola dal letto e andai nella casa rosa per prenderne di pulite, attenta a non fare rumore per non svegliare nessuno. Presi anche stracci per la polvere e detersivo, nel caso ne avessi avuto bisogno.
Tornai indietro, e prima di accorgermene mi trovai immersa in un’operazione di pulizia radicale. A mezzanotte quel posto era lustro come uno specchio.
Passai perfino in rassegna i miei beni, e mi liberai di qualcosa. Mozziconi di matita, un paio di racconti scritti da me che sarebbero risultati imbarazzanti per eventuali lettori, un paio di calzoni corti strappati, un pettine con troppi denti mancanti.
Quindi presi le ossa di topo che tenevo in tasca: non avevo più bisogno di portarle in giro, ma sapevo anche di non poterle buttare via. Le legai insieme con un nastro rosso per capelli e le posai sullo scaffale accanto al ventilatore. Le fissai per un minuto, chiedendomi come era possibile affezionarsi a ossa di topo. Mi dissi che a volte si ha la necessità di prendersi cura di qualcosa, tutto qui.
A quel punto cominciavo a sentirmi stanca, però tirai fuori comunque gli oggetti di mia madre dalla cappelliera – lo specchio di tartaruga, la spazzola, il libro di poesie, la spilla a forma di balena, la foto di noi due con i visi vicini – e le sistemai sullo scaffale di fianco alle ossa di topo. Devo dire che la stanza appariva del tutto diversa.
Mentre scivolavo nel sonno, pensai a lei. A come nessuno è perfetto. Non resta che chiudere gli occhi ed espirare, accettando il fatto che il cuore umano è quel rompicapo che è.
La mattina successiva mi presentai in cucina con la spilla a forma di balena appuntata sulla camicetta azzurra preferita. Avevano messo su un disco di Nat King Cole, Unforgettable, that’s what you are, forse per non sentire il fracasso della lavatrice rosa Lady Kenmore in funzione nel portico. Un’invenzione meravigliosa, certo, ma rumorosa come un’impastatrice di cemento. August, seduta con i gomiti sul tavolo, stava finendo la tazza di caffè mentre leggeva l’ultimo libro preso dal bibliobus.
Alzò gli occhi, li puntò dritti sul mio viso, poi sulla spilla con la balena. Abbozzò un sorriso prima di tornare al suo libro.
Preparai i miei soliti Rice Krispies con l’uvetta. «Vieni alle arnie» mi invitò August, quando ebbi terminato di mangiare. «Devo mostrarti una cosa.»
Ci addobbammo con gli abiti per le api, quantomeno io, perché in realtà August raramente metteva qualcosa oltre al cappello e al velo.
Mentre camminavamo fuori, August allungò un passo per evitare di schiacciare una formica. Mi fece venire in mente May. «È stata May che ha insegnato a mia madre a salvare gli scarafaggi, vero?» chiesi.
«E chi altri, se non lei?» Sorrise. «Accadde quando tua madre era un’adolescente. May la sorprese a uccidere uno scarafaggio con la paletta delle mosche. “Deborah Fontanel” la apostrofò “ogni creatura vivente è speciale. Vuoi essere tu quella che pone fine alla vita di una di loro?” Poi le mostrò come fare un sentiero di caramella mou e cracker.»
Sfiorai la spilla con la balena sul petto, immaginando la scena. Poi mi guardai intorno, e mi accorsi del mondo. Era una giornata talmente bella che pareva impossibile che qualcosa arrivasse a rovinarla.
Secondo August, chi non ha mai visto un gruppo di arnie di primo mattino ha perso l’ottava meraviglia del mondo. Immaginate queste cassette bianche nascoste sotto i pini. Lame di sole filtrano fra i rami, facendo brillare gli spruzzi di rugiada che si asciugano sui coperchi. Poche centinaia di api gironzolano intorno alle arnie per riscaldarsi, e soprattutto per fare il bagno, perché le api sono pulitissime e non sporcano mai l’interno delle arnie. Da lontano sembra un grande affresco da museo, ma i musei non catturano il suono. Lo si sente da venti metri, un ronzio che pare arrivare da un altro pianeta. A dieci metri la pelle comincia a vibrare. Si rizzano i capelli sulla nuca. La testa ti dice: “Non andare oltre”, ma il cuore ti spinge dentro quel brusio che finirà per inghiottirti. Te ne stai lì e pensi: “Sono al centro dell’universo, dove il canto fa vivere ogni cosa”.
August sollevò il coperchio di un’arnia. «Questa ha perduto la regina» disse.
Avevo imparato abbastanza di apicoltura per sapere che un alveare privo di regina equivale a una condanna a morte per le api, che smettono di lavorare e si aggirano con il morale a terra.
«Cosa è successo?» chiesi.
«L’ho scoperto ieri. Le api se ne stavano qui, sull’asse di ingresso, con aria malinconica. Se vedi api che ciondolano lamentandosi, puoi scommettere che è morta la loro regina. Così ho frugato tra i favi, e in effetti non c’era più. Non so cosa sia successo, forse è semplicemente giunta la sua ora.»
«E adesso, che fai?»
«Ho telefonato al numero verde della contea, che mi ha messo in contatto con un tale di Goose Creek. Mi ha promesso di venire oggi con una nuova regina. Voglio che ci sia un’altra regina prima che una delle operaie si metta a deporre uova. Nel caso, sarebbe un bel guaio.»
«Non sapevo che le operaie deponessero le uova.»
«In realtà possono produrre soltanto uova di fuco, non fecondate. Ne riempiono i favi, e man mano che le api muoiono di morte naturale, non c’è nessuno a sostituirle.»
Abbassò il coperchio. «Volevo soltanto mostrarti che aspetto ha una colonia senza regina.»
Sollevò il velo del cappello, poi anche il mio. Incrociò il mio sguardo mentre io studiavo le pagliuzze dorate nei suoi occhi.
«Ricordi quando ti ho raccontato la storia di Beatrix, la monaca fuggita dal convento? E della Vergine Maria, che ha preso il suo posto?»
«Certo. Ho pensato che tu sapessi che ero scappata come Beatrix. Cercavi di farmi capire che Maria stava tenendomi il posto a casa, e sbrigava lei le mie faccende in attesa del mio ritorno.»
«Oh, non è assolutamente quello che cercavo di dirti. Non eri tu la fuggiasca a cui mi riferivo, ma tua madre. Tentavo di farti entrare in testa una piccola idea.»
«Quale idea?»
«Che forse Nostra Signora poteva prendere il posto di Deborah e fare da sostituta madre per te.»
La luce creava disegni sull’erba. Li osservai, intimidita da ciò che stavo per dire. «Una sera, nella casa rosa, ho detto a Nostra Signora che era mia madre. Le ho posato la mano sul cuore, come fate sempre tu e le Figlie alle riunioni. So che ci avevo già provato ed ero svenuta, ma questa volta rimasi in piedi, e per un po’, dopo, mi sono sentita davvero più forte. Poi ho avuto la sensazione che questa forza venisse meno. Quel che mi serve, penso, è tornare a toccarle il cuore.»
«Ora ascoltami, Lily. Ti dirò una cosa che non dovrai mai dimenticare. D’accordo?»
Il suo viso si era fatto serio, concentrato. Gli occhi spalancati.
«D’accordo.» Sentii una sorta di scossa lungo la spina dorsale.
«Nostra Signora non è un essere magico, una fatina buona. Non è la statua in sala. È una cosa che si trova dentro di te. Capisci cosa intendo?»
«Nostra Signora si trova dentro di me» ripetei, dubbiosa di comprendere fino in fondo.
«Tu devi trovare la madre dentro te stessa. Tutti noi dobbiamo. Anche se abbiamo già una madre, dobbiamo comunque trovare questa parte dentro di noi.» Mi tese il braccio. «Dammi la mano.»
Sollevai la mano sinistra e la misi tra le sue. Lei la prese e mi premette il palmo sul petto, sopra il cuore. «Non è necessario che posi la mano sul cuore di Maria per trovare forza, consolazione, salvezza e tutte le cose che servono nella vita. Puoi metterla proprio qui, sul tuo cuore. Il tuo cuore.»
Mosse un passo verso di me, mantenendo la pressione sulla mia mano. «Tutte le volte che tuo padre ti trattava male, Nostra Signora era la voce dentro di te che diceva: “No, non posso piegarmi a questo. Sono Lily Melissa Owens, e non posso piegarmi”. Che tu sentissi o meno questa voce, lei è sempre stata lì, dentro di te.»
Posai l’altra mano sopra la sua, e lei mise la mano libera sopra la mia, così che ci fu una pila di mani alternate, una bianca e una nera, appoggiate sul mio petto.
«Quando non sei sicura di te stessa, quando ti senti frenata dal dubbio e dalla quotidianità, è lei che ti dice: “Alzati subito e vivi la vita appieno, come merita una ragazza come te”. Lei è il potere che c’è in te, capisci?»
Le sue mani rimasero dov’erano, ma diminuì la pressione. «E qualsiasi cosa contribuisca ad allargarti il cuore, anche questo è Maria, non solo il potere ma anche l’amore che porti dentro. E quando ci arrivi, Lily, quello è l’unico grande scopo nella vita dell’uomo. Non solo amare, ma persistere nell’amare.»
Fece una pausa. Le api ronzavano nell’aria. August tolse le mani dalla pila sul mio petto, ma io le lasciai lì.
«Questa Maria di cui parlo sta nel tuo cuore tutto il giorno, e ti dice: “Lily, tu sei la mia casa per sempre. Non avere paura, mai. Io ti basterò. Noi sapremo bastare a noi stesse”.»
Chiusi gli occhi, e nella frescura della mattina, là, in mezzo alle api, capii per un istante di cosa stesse parlando.
Quando li riaprii, August era scomparsa. Mi voltai indietro, verso la casa, e la vidi attraversare il giardino, il vestito bianco una macchia di luce.
Qualcuno bussò alle due del pomeriggio. Seduta in sala, stavo scrivendo sul nuovo quaderno che Zach mi aveva lasciato alla porta. Buttavo giù tutto quello che mi era accaduto dal Giorno di Maria. Le idee si susseguivano tanto rapide che non riuscivo a tenere il passo, ed era a questo che stavo pensando. Non feci caso ai colpi alla porta. In seguito avrei ricordato che non sembrava un modo normale di bussare, ma piuttosto un prendere a pugni la porta.
Continuai a scrivere, in attesa che August aprisse. Ero sicura che fosse il tizio di Goose Creek che portava la nuova ape regina.
Altri colpi. June era uscita con Neil, mentre Rosaleen, nella casa del miele, stava lavando una nuova partita di barattoli, un lavoro che sarebbe toccato a me, ma lei si era offerta di farlo al mio posto, visto il mio bisogno di scrivere. Non sapevo dove fosse August, forse nella casa del miele ad aiutare Rosaleen.
Ripensandoci, mi chiedo: come ho fatto a non capire subito chi fosse arrivato?
La terza volta che ripresero i colpi, andai ad aprire.
T. Ray mi fissava, rasato di fresco, camicia bianca a maniche corte con ciuffi di pelo che gli uscivano dallo scollo. Sorrideva, ma il suo non era un sorriso tenero e affettuoso, mi affretto a precisare, piuttosto il largo ghigno di un uomo che ha dato la caccia a un coniglio per tutto il giorno e ora ha trovato la sua preda nascosta in un tronco cavo e senza via d’uscita. «Bene, bene, bene» disse. «Guarda chi si vede.»
Fui schiacciata all’istante dal terrore che mi trascinasse al suo camion in quel momento stesso per partire in quarta verso la fattoria delle pesche, dove di me non si sarebbe mai più saputo nulla. Arretrai nel corridoio, e con una gentilezza forzata che mi sorprese, e che parve disorientarlo, dissi: «Non vuoi entrare?».
Che altro potevo fare? Cercai di dirigermi in sala a passo tranquillo.
I suoi scarponi rimbombavano dietro di me. «D’accordo, per la miseria» disse, rivolto alla mia nuca. «Se vuoi fingere che questa sia una visita di cortesia, accomodati, ma non è una visita di cortesia, chiaro? Ho passato metà dell’estate a cercarti, e ora ti porto via, che tu venga con le buone o che ti metta a urlare e scalciare. Per me è indifferente.»
Indicai una poltrona a dondolo. «Siedi, se vuoi.»
Cercavo di apparire serena, ma in realtà ero sull’orlo del panico. Dove era finita August? Avevo il respiro corto, affannato, l’ansimare di un cane.
Si lasciò cadere sul dondolo e si spinse avanti e indietro con quel sorriso ti-ho-beccato stampato in faccia. «Dunque sei rimasta qui per tutto il tempo, insieme alle negre. Gesù Cristo.»
Senza rendermene conto, ero indietreggiata fino alla statua di Nostra Signora. Rimasi immobile mentre lui la squadrava. «Che diavolo è quella?»
«Una statua della Madonna. Sai, la madre di Gesù.» La mia voce aveva un tono leggero. In realtà mi stavo tormentando il cervello in cerca di qualcosa da fare.
«Be’, si direbbe recuperata dalla spazzatura» commentò.
«Come hai fatto a trovarmi?»
Scivolò sul bordo del sedile di vimini, e frugò in tasca in cerca del coltello a serramanico, quello che usava per pulirsi le unghie. «Sei stata tu a portarmici.» Tronfio, contento come una pasqua di rivelarmi la cosa.
«Io, no di certo.»
Estrasse la lama, premette la punta contro il bracciolo della poltrona a dondolo e scavò via piccole schegge di legno, mentre spiegava con tutta calma. «Certo che mi ci hai portato tu. Ieri è arrivata la bolletta del telefono, e indovina cosa ho trovato? Una chiamata a carico del destinatario proveniente da un ufficio legale di Tiburon, di un certo signor Clayton Forrest. Grosso errore, Lily, una telefonata a carico del destinatario.»
«Sei andato dal signor Clayton e lui ti ha detto dove ero?»
«No, ma una sua segretaria, una vecchia, è stata più che contenta di darmi l’informazione. Mi ha assicurato che ti avrei trovato qui.»
Quella cretina della signorina Lacy.
«Dov’è Rosaleen?» chiese.
«Se ne è andata da un pezzo» mentii. Poteva anche rapire me per trascinarmi a Sylvan, ma non era proprio il caso che trovasse Rosaleen. Questo, almeno, glielo potevo risparmiare.
Non fece commenti. Tutto soddisfatto di scalfire il bracciolo della poltrona, neanche avesse undici anni e fosse intento a incidere le iniziali sull’albero. Forse era addirittura sollevato di non dover sprecare tempo con lei. Mi chiesi come saremmo sopravvissuti a Sylvan. Senza Rosaleen. All’improvviso smise di dondolarsi, e quel suo sorriso rivoltante gli scomparve dalle labbra mentre fissava sotto la mia spalla a occhi socchiusi. Abbassai lo sguardo per capire cosa aveva attratto la sua attenzione e mi resi conto che era la spilla con la balena appuntata alla camicetta.
Venne verso di me, ma si fermò di colpo a cinque o sei passi, come se la spilla possedesse una sorta di potere vudù. «Dove l’hai presa, quella?» chiese.
D’istinto la mia mano salì a sfiorare il piccolo sfiato di cristallo di rocca. «Me l’ha data August, la donna che abita qui.»
«Non mentire.»
«Non sto mentendo. Me l’ha data lei. Dice che apparteneva alla…» Avevo paura di dirlo. Lui non sapeva nulla di August e mia madre.
Il labbro superiore gli si era sbiancato, come sempre accadeva quando era profondamente turbato. «Ho regalato quella spilla a tua madre quando ha compiuto ventidue anni. Dimmi all’istante com’è finita nelle mani di questa August.»
«Sei stato tu a regalarla alla mamma? Tu?»
«Rispondimi, per la miseria!»
«È qui che è venuta mia madre quando ci ha lasciato. August mi ha raccontato che portava questa spilla il giorno del suo arrivo.»
Tornò verso la poltrona a dondolo, visibilmente scosso, e si sedette. «Maledizione» commentò, così a bassa voce che lo udii a malapena.
«August accudiva la mamma quando era piccola, in Virginia» cercai di spiegare.
Fissava nel vuoto, nel nulla. Fuori della finestra, nell’estate della Carolina, il sole picchiava sul tetto del camion, accendeva lo steccato quasi completamente nascosto dal gelsomino. Il camion era tutto schizzato di fango, come se mio padre avesse battuto ogni palude per scovarmi.
«Avrei dovuto immaginarlo.» Scosse la testa, e parlò come se io non fossi stata presente. «Ho cercato ovunque, in tutti i posti che mi venivano in mente, e lei era qui. Gesù Cristo, proprio qui.»
L’idea pareva sgomentarlo. Scosse la testa e si guardò intorno, come se pensasse: “Scommetto che si è seduta su questa sedia. Scommetto che ha calpestato questo tappeto”. Gli tremava lievemente il mento, e per la prima volta mi colpì il fatto che doveva averla amata moltissimo, e che doveva aver sofferto a morte quando lei l’aveva piantato.
Prima di arrivare lì, la mia vita non era stata altro che un vuoto nel posto in cui avrebbe dovuto essere mia madre, e quel vuoto mi aveva reso diversa, pervasa da una costante nostalgia, ma neppure una volta avevo riflettuto su quello che aveva perduto lui e quanto ciò potesse averlo cambiato.
Ripensai alle parole di August. A volte la gente comincia in un certo modo, e poi viene completamente trasformata dalla vita. Senza dubbio all’inizio era molto innamorato di tua madre, anzi la adorava, credo.
Non avevo mai pensato che T. Ray potesse voler bene a qualcuno oltre a Snout, la sua adorata cagnetta, ma guardandolo in quel momento compresi che aveva molto amato Deborah Fontanel, e il suo abbandono lo aveva sprofondato nell’amarezza.
Piantò il coltello nel legno e si alzò in piedi. Guardai il manico dritto per aria, poi T. Ray che si aggirava per la stanza toccando varie cose: il pianoforte, la rastrelliera per i capelli, un numero di “Look” posato sul tavolino con la ribalta.
«Si direbbe che sei qui da sola» osservò.
La sentivo arrivare, la fine di tutto.
Venne dritto verso di me e mi prese per il braccio. Mi divincolai, e allora mi colpì il viso con la mano. T. Ray mi aveva percosso tante volte, schiaffi secchi e dolorosi sulla guancia, quelli che ti fanno trattenere il fiato, che ti colgono di sorpresa, ma questo era tutto diverso, non era uno schiaffo. Questa volta mi aveva picchiato con tutta la sua forza. Mentre mi colpiva, gli era sfuggito un gemito per lo sforzo, aveva strabuzzato gli occhi. Sulla sua mano l’odore della fattoria, l’odore delle pesche.
Caddi all’indietro, sopra Nostra Signora, che crollò a terra un secondo prima di me. Sul principio non avvertii dolore, ma quando mi misi a sedere, raccogliendo i piedi sotto di me, una fitta mi trafisse dall’orecchio al mento, facendomi cadere di nuovo a terra. Alzai lo sguardo su di lui, con le mani strette al petto, chiedendomi se mi avrebbe trascinato al camion per i piedi.
Stava gridando. «Come hai osato andartene? Hai bisogno di una lezione, ecco cosa ti serve!»
Riempii i polmoni d’aria, cercando di calmarmi. La Madonna Nera, a terra accanto a me, emanava un forte profumo di miele. Ricordai come glielo avevamo spalmato addosso, in ogni piccola crepa e piega, finché ne era stata tutta impregnata. Rimasi lì, timorosa di muovermi, consapevole del suo coltello piantato nel bracciolo della sedia, in quella stessa stanza. Mi allungò una pedata sul polpaccio, neanche fossi una lattina per strada che lui prendeva a calci perché se l’era trovata davanti.
Si drizzò davanti a me. «Deborah» lo sentii mormorare «non mi lascerai un’altra volta.» Nei suoi occhi un’espressione alterata, spaventata. Mi chiesi se avevo sentito bene.
Notai le mie mani ancora chiuse sul petto. Le premetti con forza sulla carne.
«Alzati!» gridò. «Ti porto a casa.»
Mi sollevò per il braccio. Una volta in piedi, mi liberai con uno strattone per fuggire verso la porta. Ma lui mi raggiunse, mi afferrò per i capelli. Voltandomi, vidi che aveva il coltello in mano. Me lo agitò davanti al viso.
«Tu torni con me!» gridò. «Non avresti mai dovuto piantarmi.»
Mi venne il sospetto che non stesse più parlando a me, ma a Deborah. Come se la sua mente fosse tornata indietro di dieci anni.
«T. Ray» dissi «sono io… Lily.»
Non mi udì. Stringeva una mia ciocca di capelli e non la mollava. «Deborah» mormorò. «Maledetta puttana.»
Sembrava pazzo di dolore, schiacciato dalla pena portata dentro di sé per tutto quel tempo, che adesso aveva liberato. Mi chiesi fino a dove si sarebbe spinto nel tentativo di riportare indietro Deborah. Per quel che ne sapevo, avrebbe anche potuto tentare di ucciderla.
Io sono la tua casa per sempre. Io ti basterò. Noi sapremo bastare a noi stesse.
Lo guardai negli occhi. Apparivano spenti, confusi. «Papà» dissi.
Sembrò sorpreso, poi mi fissò, respirando rumorosamente. Mollò i capelli e lasciò cadere a terra il coltello.
Retrocessi di qualche passo, malferma sulle gambe. La stanza risuonava del mio affannato ansimare. Non volevo che si accorgesse che cercavo il coltello con lo sguardo, ma non riuscii a evitarlo. Non mi staccava gli occhi di dosso.
Per un momento nessuno dei due si mosse. Non riuscivo a interpretare la sua espressione. Un tremito mi scuoteva il corpo, ma sentivo di dover continuare a parlare. «Mi… mi dispiace di essermene andata in quel modo» dissi, indietreggiando adagio.
Aveva la pelle cadente sopra le palpebre. Si volse verso la finestra, come a contemplare la strada che l’aveva condotto lì.
Sentii scricchiolare le assi del pavimento del portico, e, subito dopo, August e Rosaleen comparvero alla porta. Senza farmi notare da mio padre, segnalai loro di allontanarsi. Dovevo occuparmi io di lui, essere presente quando fosse tornato in sé. Sembrava così innocuo, in quel momento.
Per un attimo ebbi l’impressione che mi avrebbero ignorato e sarebbero entrate, ma poi August strinse il braccio di Rosaleen e la condusse via.
Quando T. Ray si voltò verso di me, non vidi altro che uno sconfinato dolore nei suoi occhi. Guardò la spilla sulla mia camicetta. «Sei tutta uguale a lei» disse, e capii che non avrebbe aggiunto altro.
Mi chinai a raccogliere il coltello, e, dopo aver richiuso la lama, glielo porsi. «Va tutto bene» lo rassicurai.
Ma non era così. Avevo visto la porta scura che teneva nascosta dentro di sé, quel posto terribile che si sarebbe affrettato a sigillare per non farvi più ritorno, se poteva evitarlo. D’un tratto parve imbarazzato. Lo vidi arricciare le labbra, cercando di recuperare l’orgoglio, la rabbia, tutta la furia che l’avevano spinto fino a lì. Le sue mani non facevano che entrare e uscire dalle tasche.
«Andiamo a casa» disse.
Senza rispondergli mi avvicinai a Nostra Signora, distesa a terra, e la rimisi in piedi. Sapevo che August e Rosaleen erano fuori della porta, e mi pareva quasi di udirne il respiro. Sfiorandomi la guancia, mi accorsi che si stava gonfiando dove mi aveva colpito.
«Io resto qui. Non vengo.» Le parole rimasero sospese, dure e luminose come perle foggiate nel mio ventre per settimane.
«Che hai detto?»
«Non vengo.»
«Pensi che me ne vada lasciandoti qui? Neppure la conosco questa dannata gente.» Sembrava sforzarsi di imprimere violenza nelle sue parole. Quando aveva lasciato cadere il coltello, tutta la rabbia era venuta meno.
«Ma io la conosco. August Boatwright è una brava persona.»
«Cosa ti fa pensare che ti voglia qui?»
«Lily può stare qui per tutto il tempo che desidera» disse August, entrando nella sala con Rosaleen al suo fianco. Andai a pararmi accanto a loro. Fuori, udii la macchina di Queenie imboccare il vialetto: impossibile non riconoscerla, con quella marmitta. Evidentemente, August aveva avvertito le Figlie.
«Lily mi aveva detto che eri scappata» disse T. Ray rivolto a Rosaleen.
«Be’, ora sono tornata.»
«Non mi frega un cazzo dove stai o dove finirai tu, ma Lily viene via con me.»
Anche mentre lo diceva, capivo che in realtà non mi voleva, non voleva che tornassi alla fattoria, a ricordargli lei. Un’altra parte di lui – quella buona, se mai esisteva – forse pensava che io sarei stata meglio dove ero.
Ma a quel punto era una questione d’orgoglio. Come faceva a tornare indietro?
Si aprì la porta, e Queenie, Violet, Lunelle e Mabelee entrarono con passo incerto, stravolte, come avessero messo i vestiti alla rovescia. Queenie mi osservò la guancia. «Tutto a posto?» chiese, senza fiato.
«Sì, tutto a posto» la rassicurò August. «Questo è il signor Owens, il padre di Lily. È venuto a trovarla.»
«Non ha risposto nessuno a casa di Zuccherino e di Cressie» disse Queenie. Tutte e quattro si allinearono al nostro fianco, stringendo la borsetta contro il corpo come se potessero usarla per picchiare a sangue qualcuno.
Mi chiesi che effetto gli facevamo. Un gruppo di donne: Mabelee, un metro e cinquanta scarsi; Lunelle, con i capelli dritti sulla testa che scongiuravano di essere pettinati; Violet, che continuava a borbottare “Maria Vergine”; Queenie, la dura, mani sui fianchi e labbra serrate, ogni centimetro del suo corpo che diceva: “Ti sfido a prendere questa ragazza e vedrai”.
T. Ray inspirò rumorosamente dal naso e guardò il soffitto. La sua determinazione stava andando in pezzi: se ne vedevano volare via le schegge.
Anche August se ne accorse. Fece un passo avanti. A volte dimenticavo quanto era alta. «Signor Owens, farebbe un piacere a Lily e a tutte noi se la lasciasse qui. È diventata la mia apprendista apicoltrice, impara in fretta, e ci aiuta in tutti i lavori pesanti. Le vogliamo molto bene, e ci prenderemo cura di lei, glielo assicuro. La manderemo a scuola qui, seguendola con attenzione.»
Avevo sentito August ripetere più volte: “Se vuoi ottenere qualcosa da qualcuno, dagli sempre il modo di porgertela”. T. Ray aveva bisogno di un modo per salvare la faccia affidandomi ad August, e lei glielo stava offrendo.
Il mio cuore batteva forte. Lo osservai. Lui si voltò un attimo verso di me, poi lasciò cadere la mano lungo il fianco.
«Che liberazione!» esclamò, dirigendosi verso l’uscita. Dovemmo aprire un varco nel nostro piccolo muro di donne per farlo passare.
Spalancò con forza la porta, facendola urtare contro il muro esterno. Noi ci scambiammo qualche occhiata senza dire parola. Come avessimo risucchiato tutta l’aria dalla stanza e la trattenessimo nei polmoni, in dubbio se lasciarla uscire.
Lo sentii avviare il motore, e prima che la ragione mi fermasse, partii di corsa dietro di lui.
Rosaleen mi richiamò, ma non c’era tempo per spiegare.
Il camion, in retromarcia nel vialetto, sollevava zolle di terra. Agitai le braccia. «Ferma! Aspetta!»
Frenò, poi mi fulminò con lo sguardo attraverso il parabrezza. Dietro di me, August, Rosaleen e le Figlie si erano precipitate nel portico. Mi avvicinai alla portiera mentre lui sporgeva la testa dal finestrino.
«Devo proprio chiedertelo» dissi.
«Cosa?»
«Hai detto che il giorno in cui è morta mia madre, io ho raccolto la pistola ed è partito un colpo.» Lo fissai negli occhi. «Ho bisogno di saperlo. Sono stata io?»
I colori, in giardino, cambiavano con il movimento delle nuvole, da giallo a verde chiaro. Si passò la mano sul viso, gli occhi fissi in grembo, poi mi guardò.
Quando parlò, ogni traccia di durezza era scomparsa dalla sua voce. «Potrei dirti che sono stato io, come vorresti sentire. Potrei dirti che è stata lei stessa, ma sarebbe comunque una bugia. Sei stata tu, Lily. Involontariamente, certo, ma sei stata tu.»
Indugiò un attimo ancora, poi ingranò la retromarcia per uscire lentamente dal vialetto, lasciando dietro di sé una scia di olio bruciato. Le api erano ovunque: volteggiavano sulle ortensie e il mirto ai bordi del prato, sul gelsomino al margine del bosco, sulla melissa accanto allo steccato. Forse mi aveva detto la verità, ma non si poteva mai esserne sicuri al cento per cento quando si trattava di T. Ray.
Se ne andò adagio, non di gran carriera come mi aspettavo. Rimasi a guardarlo finché non lo persi di vista, e allora mi voltai verso August, Rosaleen e le Figlie raccolte nel portico. Questo è il momento che ricordo con maggiore chiarezza: io nel vialetto a fissarle, ferme, in attesa. Tutte quelle donne, quell’affetto, quella loro disponibilità.
Guardai un’ultima volta la strada. Ricordo di aver pensato che forse mio padre mi voleva bene, nel suo modo contorto. In fondo aveva rinunciato a me, no?
Continuo a ripetermi che quando si allontanò, quel giorno, non pensava: “Che liberazione”, ma: “Lily, stai meglio qui nella casa di queste donne di colore: con me non saresti mai sbocciata come sboccerai con loro”.
So che è un’idea assurda, ma io credo nella bontà dell’immaginazione. A volte immagino che mi arrivi un pacco da lui, intorno a Natale, e non la solita solfa maglione-calzini-pigiama ma qualcosa di veramente pensato, come un braccialetto con i ciondoli d’oro a quattordici carati, accompagnato da un cartoncino che dice: “Con affetto, T. Ray”. Userà la parola “affetto”, e il mondo non smetterà di girare, anzi continuerà il proprio corso, come pure il fiume, le api, tutto quanto. Non è il caso di guardare con disprezzo le cose assurde. Pensate a me: non ho fatto che buttarmi in un’assurdità dopo l’altra, ed eccomi qui, nella casa rosa: ogni mattino l’inizio di una giornata di meraviglia.
In autunno, la Carolina del Sud cambia tutti i suoi colori, passando al rosso rubino e a strane tonalità di arancio. Li guardo adesso dalla mia camera al primo piano, quella lasciata da June quando si è sposata, il mese scorso. Mai al mondo avrei sognato una stanza del genere. August mi ha comprato un nuovo letto e una toeletta bianca, modello Rustico Francese scelto dal catalogo di Sears and Roebuck. Violet e Queenie mi hanno regalato un tappeto a fiori che nel loro ripostiglio avrebbe finito per rovinarsi, e Mabelee ha cucito le tende a pois bianchi e azzurri con i pompon lungo il bordo. Cressie ha fatto all’uncinetto quattro polpi con otto tentacoli di varie sfumature da posare sul letto. Un polpo sarebbe stato più che sufficiente, ma è il solo manufatto che Cressie sa fare, e quindi ne produce a getto continuo.
Lunelle ha creato per me il cappello più bello che mai sia uscito dalle sue mani, compreso quello del matrimonio di June. Alto, sale per aria e continua a salire: mi ricorda una piccola tiara papale, anche se ha addirittura più cerchi del copricapo del Papa. Io me l’aspettavo azzurro, e invece no, l’ha fatto marrone e oro. Immagino che dovrebbe rappresentare un’arnia vecchio stile. Lo porto solo per le riunioni delle Figlie di Maria, perché altrove fermerebbe il traffico per miglia.
Clayton viene ogni settimana per aggiornarci sull’evoluzione del caso mio e di Rosaleen a Sylvan. Sostiene che non si può pestare un detenuto e sperare di passarla liscia. Secondo lui, lasceranno cadere tutte le accuse contro me e Rosaleen per la Festa del Ringraziamento.
A volte, Clayton arriva con la figlia Becca, un anno più giovane di me. Me la vedo sempre come nella foto dello studio, che gli prende la mano e salta su un’onda. Gli oggetti di mia madre li tengo su un ripiano speciale in camera mia: Becca può guardarli, ma senza toccare nulla. Un giorno le permetterò di prenderli, come è normale tra amiche. La sensazione che si tratti di oggetti sacri sta venendo meno. Tra non molto porgerò a Becca la spazzola di mia madre, dicendole: “To’, vuoi darti una bella spazzolata?” o: “Vuoi provarti questa spilla con la balena?”.
Becca e io cerchiamo di individuare Zach alla mensa e sediamo al suo tavolo ogni volta che si presenta l’occasione. Abbiamo la reputazione di “innamorate dei negri”, così ci definiscono, e quando gli ignorantoni fanno palle di carta e le lanciano contro Zach nel corridoio, facilmente veniamo colpite in testa anche Becca e io. Zach sostiene che dovremmo camminare dal lato opposto del corridoio, e noi gli rispondiamo: «Chi se ne frega di qualche foglio di quaderno appallottolato».
Nella foto che tengo accanto al letto, mia madre mi sorride sempre. Credo di avere perdonato tutte e due, lei e me, anche se talvolta, la notte, i sogni mi riportano una gran tristezza, e allora devo svegliarmi per concedere di nuovo a entrambe il perdono.
Seduta in camera, scrivo tutto. Il mio cuore non smette mai di parlare. Sono io la guardiana del muro, adesso. Lo alimento con preghiere e pietre nuove, e non mi sorprenderebbe se il muro del pianto di May sopravvivesse a tutte noi. Sarà ancora in piedi alla fine del tempo, quando tutti gli edifici saranno crollati.
Ogni giorno faccio visita alla Madonna Nera, che mi osserva con il suo volto saggio, più vecchio di chi è vecchio, e bellissimo nella sua bruttezza. Ho l’impressione che le crepe nel suo corpo si facciano ogni giorno più profonde, che la sua pelle di legno invecchi davanti ai miei occhi. Non mi stanco mai di guardare quel suo braccio solido proteso, il pugno come una lampadina pronta a esplodere. È un nerbo d’amore, questa Maria.
Nei momenti più imprevedibili sento la sua Assunzione al cielo come se avvenisse dentro di me. All’improvviso si solleva, e quando lo fa, non va su, in cielo, ma sempre più in profondità dentro di me. Secondo August, va a riempire i vuoti che la vita ha lasciato in noi.
Questo è l’autunno delle meraviglie, eppure ogni giorno, ogni singolo giorno, torno a quell’afoso pomeriggio d’agosto quando T. Ray se ne è andato. Torno a quel momento in cui, nel vialetto, con sassolini e zolle di terra sotto i piedi, mi volto a guardare verso il portico. Ed eccole là, tutte quante. Tutte queste madri. Ho più madri io che qualsiasi ragazza in circolazione. Sono le lune che brillano su di me.