Farid non ha mai visto il mare, non c’è mai entrato dentro.
Lo ha immaginato tante volte. Punteggiato di stelle come il mantello di un pascià. Azzurro come il muro azzurro della città morta.
Ha cercato le conchiglie fossili sepolte milioni di anni fa, quando il mare entrava nel deserto. Ha rincorso i pesci lucertola che nuotano sotto la sabbia. Ha visto il lago salato e quello amaro e i dromedari color argento avanzare come logore navi di pirati. Abita in una delle ultime oasi del Sahara.
I suoi antenati appartenevano a una tribú di beduini nomadi. Si fermavano negli uadi, i letti dei fiumi coperti di vegetazione, montavano le tende. Le capre pascolavano, le mogli cucinavano sulle pietre roventi. Non avevano mai lasciato il deserto. C’era una certa diffidenza verso la gente della costa, mercanti, corsari. Il deserto era la loro casa, aperta, illimitata. Il loro mare di sabbia. Macchiato dalle dune come il manto d’un giaguaro. Non possedevano nulla. Solo impronte di passi che la sabbia ricopriva. Il sole muoveva le ombre. Erano abituati a resistere alla sete, ad essiccarsi come datteri, senza morire. Un dromedario apriva loro la strada, una lunga ombra storta. Scomparivano nelle dune.
Siamo invisibili al mondo, ma non a Dio.
Si spostavano con questo pensiero nel cuore.
D’inverno il vento del nord che attraversava l’oceano di roccia stecchiva i barracani di lana sui corpi, la pelle si aggrappava alle ossa dissanguata come quella di capra sui tamburi. Antichi malefici cadevano dal cielo. Le faglie di sabbia erano lame, toccare il deserto significava ferirsi.
I vecchi venivano sepolti lí dove morivano. Lasciati al silenzio della sabbia. I beduini ripartivano, frange di stoffe bianco e indaco.
In primavera nuove dune nascevano, rosate e pallide. Vergini di sabbia.
Il ghibli infuocato si avvicinava insieme al gemito rauco di uno sciacallo. Piccoli riccioli di vento come spiriti in viaggio pizzicavano la sabbia qua e là. Poi raffiche radenti, affilate come scimitarre. Un esercito resuscitato. In un attimo il deserto si sollevava e divorava il cielo. E non c’era piú confine con l’aldilà. I beduini si piegavano sotto il peso della tempesta grigia, si proteggevano contro il corpo di animali caduti in ginocchio, come sotto la coltre di un’antica condanna.
Poi si erano fermati. Avevano costruito una muraglia di creta, e un pascolo chiuso. C’erano solchi di ruote sulla sabbia.
Ogni tanto una carovana passava da quelle parti. Erano sulla rotta dei mercanti che dall’Africa nera tagliavano il deserto verso il mare. Portavano avorio, resine, pietre preziose, uomini legati da vendere come schiavi nei porti della Cirenaica e della Tripolitania.
I mercanti si rifocillavano nell’oasi, mangiavano, bevevano. Era nata una città. Muri di argilla essiccata simili a corda intrecciata, tetti di palme. Le donne vivevano in alto, separate dagli uomini, attraversavano i tetti scalze. Camminavano fino al pozzo con anfore di terracotta sul capo. Mescolavano il couscous con le interiora di pecora, la farina bollita. Pregavano sulle tombe dei marabutti. Al tramonto danzavano sui tetti al suono del nay, muovendo i ventri come serpi assonnate. In basso gli uomini impastavano mattoni, facevano scambi, giocavano a dadi persiani fumando narghilè.
Ora quella città non c’è piú. Resta un disegno, un santuario mangiato dal vento di sabbia. Accanto è sorta la città nuova voluta dal Colonnello, fatta da architetti stranieri dell’est. Costruzioni di cemento, antenne.
Disseminate lungo la strada ci sono grandi effigi del rais, vestito da deserto, da musulmano, da ufficiale. Certe volte è imperioso e serio, certe volte sorride con le braccia aperte.
La gente è seduta su bidoni di benzina vuoti, bambini ossuti, vecchi che succhiano radici per rinfrescarsi la bocca. I cavi della luce camminano flosci da un edificio all’altro. Il ghibli rovente trascina sacchetti di plastica e immondizie lasciate dai turisti del deserto.
Non c’è lavoro. Solo bibite zuccherate e capre. Datteri da inscatolare per l’esportazione.
Molti giovani se ne vanno, raggiungono le zone petrolifere, i grandi blocchi neri. Le fiamme perenni del deserto.
Non è una vera città, è un agglomerato di vite.
Farid abita nella parte vecchia, in una di quelle case basse con le porte tutte intorno alla stessa corte, un giardino selvatico e un cancello sempre aperto. Va a scuola a piedi. Corre con le sue gambe magre che si spellano sempre come canne. Jamila, sua madre, gli incarta qualche bastoncino di sesamo per la merenda.
Al ritorno gioca insieme ai suoi amici con un carretto fatto di lamiera che trascina barattoli, oppure a pallone. Si rotola come un bacherozzo nella polvere rossa. Ruba banane piccole e grappoli di datteri neri. Si arrampica con una corda fino in alto, nel cuore di quelle piante piene d’ombra.
Ha un amuleto al collo. Tutti i bambini ce l’hanno. Un piccolo sacchetto di cuoio con qualche perlina, qualche ciuffo di bestia.
Gli sguardi cattivi guarderanno l’amuleto e tu sarai in salvo, gli ha spiegato sua madre.
Omar, suo padre, è un tecnico, installa le antenne delle tv. Aspetta il segnale. Sorride alle donne che non vogliono perdersi la puntata della telenovela egiziana e lo trattano come un salvatore di sogni. Jamila è gelosa di quelle stupide donne. Lei ha studiato canto. Ma il marito non vuole che si esibisca durante i matrimoni o le feste pubbliche o tanto meno per i turisti. Cosí Jamila canta solo per Farid, lui è il suo unico spettatore in quelle stanze di tende e tappeti, profumate di artemisia e erbe aromatiche, sotto quel tetto a uovo di calce.
Farid è innamorato di sua madre, delle sue braccia che fanno vento come foglie di palma, del suo alito quando canta uno di quei malouf pieni di amore e lacrime e il suo cuore si gonfia cosí tanto che deve tenerselo stretto con tutte e due le mani per non farlo cadere in terra, nella bacinella di ferro dell’acqua piovana piena di ruggine e sempre asciutta.
Sua madre è giovane, sembra una sorella. Ogni tanto giocano agli sposi, Farid le pettina i capelli, le aggiusta il velo.
La fronte di Jamila è un grande sasso rotondo, gli occhi sono orlati come quelli degli uccelli, le labbra sembrano due datteri dolci e maturi.
È un tramonto senza vento. Il cielo è color pesca.
Farid si siede contro il muro del suo giardino. Si guarda i piedi, le dita luride che spuntano dai sandali.
C’è una colatura di muschio giovane che s’infila in una crepa, Farid si avvicina con il naso a quell’odore fresco. Solo allora si accorge che un animale gli respira accanto. È cosí vicino a lui che non può muoversi, il cuore gli salta negli occhi.
Ha paura che sia uno uaddan, la pecora asino dalle grandi corna protagonista di tante leggende. Suo nonno gli ha detto che appare all’orizzonte tra le dune come un miraggio cattivo. Ormai sono molti anni che nessuno vede uno uaddan, però nonno Mussa giura che si nasconde ancora nello uadi nero di croste arenarie dove nessuna vita resiste ed è molto arrabbiato per tutte quelle jeep che rovinano il deserto, lo spostano con le loro ruote.
Ma l’animale non ha ciuffi bianchi, né corna lunari, e non digrigna i denti. Ha il manto color sabbia e corna cosí sottili che sembrano arbusti. Lo guarda, forse ha fame.
Farid capisce che è una gazzella. Una giovane gazzella. Non scappa. I suoi occhi, spalancati e cosí vicini, sono limpidi e calmi. Il manto è scosso da una vertigine. Forse trema anche lei. Ma anche lei è troppo curiosa di quell’incontro per indietreggiare. Farid lentamente le avvicina un ramo, la gazzella apre una bocca di denti piatti e bianchi, strappa qualche pistacchio fresco. Se ne va arretrando su se stessa, senza smettere di guardarlo. Poi di colpo si volta, salta il muretto di fango e corre sollevando sabbia, oltre l’orizzonte delle dune.
Il giorno dopo a scuola, Farid riempie pagine di gazzelle, le disegna storte, a matita, le colora spingendo il dito nelle tempere ad acqua.
La televisione manda in loop il film prodotto dal rais con Anthony Quinn che interpreta il leggendario Omar al-Mukhtar. Il guerrigliero beduino che ha combattuto come un leone contro gli invasori italiani. Farid è fiero, il cuore gli batte nelle ossa. Suo padre si chiama Omar, come l’eroe del deserto.
Gioca alla guerra con i suoi amici, cerbottane fatte di canne che sputano pistacchi, sassi rossi lasciati dalle tempeste.
Sei morto! Sei morto!
Litigano, perché nessuno ha voglia di buttarsi in terra e finire il gioco.
Farid sa che da qualche parte è scoppiata la guerra.
I suoi genitori bisbigliano fino a notte fonda e i suoi amici dicono che sono arrivate armi dal confine, le hanno viste scaricare dalle jeep di notte. Anche loro vorrebbero avere un kalašnikov, un razzo.
Sparano qualche bengala accanto al vecchio mendicante sordo.
Farid salta, si diverte come un pazzo.
Hisham, il piú giovane dei suoi zii, studente universitario a Bengasi, si è unito all’esercito dei ribelli.
Nonno Mussa che fa la guida ai turisti fino alla Montagna Maledetta e sa riconoscere le impronte dei serpenti, e decifrare i disegni rupestri, dice che Hisham è stupido, ha letto troppi libri.
Dice che il qa’id ha lastricato la Libia di asfalto e cemento, l’ha riempita di tuareg neri del Mali, ha inciso le parole di quel suo ridicolo libro verde su ogni muro, ha incontrato finanzieri e politici in giro per il mondo circondato da belle donne come un attore in vacanza. Però è un beduino come loro, un uomo del deserto. Ha difeso la loro razza perseguitata dalla storia, respinta ai margini delle oasi. Meglio lui che i Fratelli Musulmani.
Hisham ha detto meglio la libertà.
Omar sale sul tetto, sistema la parabola satellitare. Prendono un canale non criptato dal regime. Le città della costa sono in fiamme. Ora sanno che il profeta dell’Africa Unita spara sulla sua Jamahiriyya. Ormai è solo nel castello del potere. Quando vede Misurata distrutta, nonno Mussa tira giú dal muro la stampa del qa’id, l’arrotola e la butta sotto il letto.
È arrivato il telegramma. Hisham ha perso la vista. Una scheggia in faccia. Non leggerà piú i libri con i suoi occhi. Tutti piangono, tutti pregano. Hisham è all’ospedale di Bengasi. Almeno è vivo, non è nei sacchi verdi come il figlio di Fatima.
Per strada la gente graffia via dai muri le parole del rais, le coprono di scritte che inneggiano alla libertà e vignette satiriche sul grande topo ricoperto di medaglie false. La statua davanti alla medina è decapitata dalle pietre.
È notte, c’è solo una piccola luce nuda che non smette di vibrare come se avesse la tosse. Omar svuota un sacchetto del mercato sul tavolo, dentro ci sono soldi. I dinari dei risparmi di Omar, gli euro e i dollari che nonno Mussa ha guadagnato con i turisti del deserto. Omar conta i soldi, poi toglie una pietra e li nasconde nel muro. Parla con Jamila, chiude le mani intorno alle sue mani strette. Farid non dorme, guarda quel nodo di mani nel buio che tremano come una noce di cocco sotto la pioggia.
Omar dice che devono andarsene. Che avrebbero dovuto farlo da un pezzo. Nel deserto non c’è futuro. E adesso c’è la guerra. Ha paura per il bambino.
Farid pensa che suo padre si sbaglia ad aver paura per lui, lui è pronto per la guerra come zio Hisham. Ha provato con le mani sugli occhi, a vedere come si vive da ciechi. Si sbatte un po’, ma non importa.
Farid si siede contro il muro del suo giardino.
La gazzella arriva sempre senza rumore, fa un salto leggero, ed eccola. Con i suoi occhi bistrati, la pupilla di diamante, le sue orecchie piú chiare e folte dentro, le sue piccole corna di osso attorcigliato. Ormai sono amici. Farid non ne ha parlato con nessuno. Ma c’è sempre il sospetto di qualche intruso. Anche lui ha il terrore che possano catturarla. È giovane e sprovveduta, corre dei rischi. Si avvicina troppo, entra nella zona abitata. Si avventura con un po’ di nervosismo sotto il manto, i muscoli vibranti. Pronta a saltare via, a non restare. Devono riabituarsi ad avere fiducia. Appartengono allo stesso deserto, ma a razze diverse. Farid si schiaccia contro il muro, aspetta che la gazzella respiri dalle narici scure per respirare con lei. Muove il muso, vuole giocare. Una volta si siede sulle zampe posteriori, sembra sua madre al tramonto. La stessa posa regale.
È una mattina di primavera. Omar fa il suo lavoro sul tetto. Unisce i cavi elettrici, aspetta la scintilla. Il segnale che la telenovela è garantita. La corrente in questi giorni viene e va, a singhiozzo. Le donne non vogliono pensare alla guerra, vogliono piangere d’amore. Vogliono scoprire se l’uomo buono saprà che il figlio è il suo, e se l’uomo cattivo cadrà giú dalla scogliera con la macchina nera.
Farid ha visto Omar indietreggiare, cercare un appiglio nel vuoto, cadere, rialzarsi. Altri uomini sono saliti sui tetti, tute mimetiche e caschi gialli come operai, però sparano. Mirano in basso, sulla gente del mercato che scappa e urla. Sono le truppe lealiste, molti sono stranieri, murtaziqa, mercenari assoldati da altre guerre subsahariane. Mentre sparano urlano come nei film. Un miliziano seminudo si è accucciato per fare un bisogno. Forse ha bevuto troppo succo di tamarindo, o forse ha paura.Adesso spara cosí, con i pantaloni abbassati.
Omar è rimasto a guardarli. Ha provato a parlare, a fermarli. Gli hanno infilato un fucile in gola, o vieni con noi a combattere o sei già morto. Farid ha visto suo padre scivolare verso la grondaia. Non aveva una scarpa, si vedeva uno dei suoi calzini beige, quelli che Jamila rammendava la sera. Gli hanno messo una pistola tra le mani. Omar ha sparato in alto, verso il cielo, verso gli uccelli che non c’erano. Poi ha lasciato cadere la pistola. L’uomo senza pantaloni ha spinto il padre giú dal tetto.
Farid ha visto i pick-up con le mitragliatrici, i bazooka, le facce sporche e allucinate, le bandiere verdi intorno alle teste. Hanno ucciso anche le bestie per fargli paura.
La gazzella per fortuna quel giorno non c’era. Si avvicinava solo nel silenzio.
Jamila ha atteso la notte. Quella notte che non è mai cosí buia. Il plenilunio illuminava le colline di sabbia e i palmeti, i palazzi e le case d’argilla con le loro punte aguzze contro i malefici.
Ha nascosto Farid nella botola delle risorse, tra le foglie di tè e la carne secca appesa. Intorno c’erano i lampi degli incendi, gli spari. Odore di benzina bruciata nella sabbia.
Ha trascinato il corpo del marito nella corte. Lo ha lavato con l’acqua del pozzo.
Omar ha molti capelli, bagnati sembrano grappoli d’uva. Jamila gli pulisce le orecchie, gli afferra quei capelli: è una fortuna, amore mio, gli angeli faranno prima a prenderti, a sollevarti in cielo. È una vecchia credenza del deserto, i morti innocenti sono trascinati in cielo dai capelli.
Nei giardini accanto, altre donne pregano e piangono. Alcune famiglie sono state prese, usate come scudi umani.
All’alba il corpo di Omar non c’è piú.
Jamila bisbiglia attraverso i muri di creta. Parla con gli antenati, chiede loro un consiglio per il viaggio.
Farid è uscito dalla botola. Sente quello strano odore. Quello dell’unguento per i morti, guarda la terra smossa in giardino. L’altalena rotta che suo padre non ha fatto in tempo ad aggiustare.
Raccoglie le sue cose, un quaderno, il golf rosso per l’inverno.
Guarda la fotografia di suo nonno con il turbante bianco su un dromedario davanti all’oasi, gli occhiali da vista e i sandali con le strisce sui piedi magri. Scrive il corano sulle tavole, conosce le favole antiche, e le grandi battaglie, dei romani, dei turchi. Gli ha raccontato della Fortezza Rossa e dei pirati. È zoppo perché è saltato su una mina lasciata dalla guerra contro il Ciad. Ogni tanto lo porta con sé nel deserto. Farid ha visto i mangiatori di vermi, i disegni rupestri di elefanti e antilopi, di semplici mani stampate. Una volta si sono persi. Nonno Mussa ha detto che i veri beduini muoiono nel deserto, avvolti da un vortice di sabbia, che non si può sperare di meglio. Che Dio li aveva fatti perdere, per ricongiungerli al loro destino. Il deserto è come una bella donna, non si rivela mai, appare e scompare. Ha un volto che cambia forma e colore, vulcanico o bianco di sale. Un orizzonte invisibile, che danza e si sposta come le sue dune.
Farid ha visto Jamila rimuovere la pietra, prendere i soldi e legarseli con una benda intorno al corpo. Ha sentito il rumore dei suoi denti che tremavano.
Aveva preparato un piccolo bagaglio dentro una sacca Adidas.
Dalle grate di legno Farid ha cercato la gazzella. Voleva salutarla, sentire l’odore del suo respiro nel recinto di fango del giardino.
Si sono mossi all’alba. Jamila ha baciato la lastra di pietra davanti alla porta. Farid ha pensato al profumo di certi pomeriggi, quando sua madre si toglieva il velo e danzava scalza, in reggiseno. Il ventre piccolo, lucido di olio di argan, si muoveva come la terra. Una crosta scossa dalla vita. Era quello il centro della casa. La pietra della salvezza.
Jamila ha preso la chiave, l’ha strappata dalla porta, se l’è messa addosso. Corrono tra le case e i blocchi di fumo, scivolano come topi. La guerra è nell’isolato accanto, i proiettili traccianti bruciano il cielo. La chiave cade nella polvere. La madre non si china a raccoglierla.
– Non importa Farid, non c’è tempo.
– E come farà papà a tornare?
– Chiamerà un fabbro.
Jamila non gli ha detto che Omar è un angelo calato nel deserto.
Farid si guarda intorno. Che fine hanno fatto i suoi amici, la pista dell’autoscontro, sotto la tenda, il chiosco del ghiaccio e quello degli occhiali da sole?
La porta della città adesso sembra una fiera. Tutti hanno gli occhi degli animali. Sudano dai capelli, dal naso. Tutti urlano e cercano qualcosa. Oltre la porta c’è il deserto. Si incolonnano con gli altri, gente con materassi arrotolati sulla schiena, valigie che non riescono ad entrare nei pullman.
Molti cercano salvezza nei campi profughi oltre il confine. Jamila sa che quello è un tragitto pericoloso, i miliziani lealisti controllano chilometri di filo spinato, sparano sui fuggiaschi.
Loro andranno verso il mare. Su un camion carico di pacchi e negri stretti come schiavi, che quasi non si ferma a raccoglierli. Jamila urla, lo insegue. Salgono al volo: prima Farid, come una scimmia, poi lei.
Farid vede una jeep con le ruote in fiamme travolgere un vecchio. È la prima immagine del deserto.
Non riesce a tenere gli occhi aperti, sua madre gli ha messo il suo velo in faccia per difenderlo dalla sabbia. Le ruote del camion scendono e si arrampicano sulle dune.
Chilometri di silenzio, solo il rauco motore. È una scena di guerra, di ogni guerra. Umanità deportata come bestiame. Non ci si ferma a pisciare.
Tutti hanno gli occhi chiusi, le teste basse, bianche di sabbia.
L’orizzonte è vischioso. Il ghibli scuote la superficie sporca di residui. Carcasse di auto bruciate, immondizia che si agita.
Nonno Mussa gli ha detto che ogni cosa che si trova nel deserto appartiene al deserto e ha un senso perché potrà essere riutilizzata per un altro scopo, per un’altra vita.
Dalla sabbia affiorano stracci colorati. Una camicia, un paio di blue-jeans che sembrano vuoti, come panni stecchiti stesi per terra. Piú avanti una scarpa.
Poi le teste mangiate dal caldo, affossate nella sabbia. I capelli e le mandibole. Le mani come carrube essiccate.
Sul camion tutti urlano, poi tutti tacciono. Jamila si sporge e vomita. Farid ha il velo sugli occhi, vede quel cimitero scoperto attraverso quel pallido filtro.
Sono tutti negri. Morti già da qualche mese. Prima della guerra. I vestiti sono intatti, nessun proiettile li ha trapassati.
Tutti sanno di cosa si tratta, sono i profughi del Mali, del Ghana, del Niger, abbandonati nel deserto dai carovanieri dopo gli accordi europei del rais per bloccare i flussi migratori dei disperati.
Dio nel deserto è l’acqua e l’ombra.
C’è una bottiglia di plastica vuota accanto a una mano scarnata. L’ultimo gesto prima della morte.
Dov’è Dio in quel deserto?
Jamila ha sete. Sete. Cerca nella borsa, rovescia l’acqua in testa al figlio, gli strappa il velo dalla bocca. Lo disseta, lo stringe. Bevi Farid, bevi.
Sono rimasti loro due nel mondo.
La casa è un uovo di creta abbandonato alle spalle.
Poi gli arbusti, alcuni con qualche germoglio biancastro. Un cespuglio di alimo. L’aria è piú mite, il ghibli ruggisce svogliato come un felino stanco che si ritira.
È la zona predesertica. Filari di viti. Muri a secco, sgretolati. Casolari abbandonati come quelli che si trovano nella campagna toscana. È uno dei vecchi villaggi rurali dei coloni italiani. Un campo di ulivi storti. Archi aperti nel nulla.
La sabbia è entrata nel motore. Il camion si ferma. L’uomo che lo guida ha il volto coperto dei tuareg, occhi arrossati e anziani che urlano di scendere. Di colpo il boato di un’esplosione cosí vicina che taglia le grida, eppure il cielo è tranquillo. Uno stormo di uccelli messaggeri passa, compongono un disegno mobile. Il tuareg sta parlando al cellulare, sbraita in tamashek, Farid non capisce.
Il disco del sole è salito nel cielo. Sono due ore che aspettano. Farid e Jamila fanno un giro nella cittadella fantasma, cercano un po’ di ristoro. C’è una piazza, c’è il vecchio municipio. S’infilano nella chiesa. Il tetto è crollato al centro, l’abside è sfregiata. Il pavimento è terra con qualche mattone. Scivolano contro il muro, si dividono il pane. Jamila prega. Non è una moschea ma non importa. È ombra dove la gente si è inginocchiata e ha parlato con la voce del silenzio.
Un negro si è tolto le scarpe. Uno dei due piedi è gonfio come un montone spellato. Viene dalla savana, cammina da giorni. Ha paura della cancrena, si lamenta. Un somalo si avvicina. Arrossa il coltello con l’accendino per incidere il piede del negro. Poi lo avvolge in una foglia. Come i datteri prima di essere chiusi nelle scatole per i turisti.
Hanno ripreso a camminare.
Il rombo di un motore, poi una moto da sabbia compare all’orizzonte.
Un uomo grasso, con una bottiglia di pepsicola stampata sulla maglietta sotto la scritta ishrab pepsi.
Farid guarda quella maglietta che fa venire sete di un altro mondo.
L’uomo prende in consegna il gruppo vacanze. Sarà lui a guidarli fino al mare.
Tutti camminano dietro la moto che pare un trattore lunare. Il negro trascina il suo piede bendato di verde. Qualcuno abbandona un materasso, una pentola troppo pesante. Procedono in un silenzio totale. Prima parlavano, adesso no. Solo il gemito della donna incinta. Anche se lei sembra piú forte degli uomini. Nasconde il suo stato sotto gli strati neri, forse ha paura di essere scacciata indietro.
Una linea di scarafaggi attraversa le dune.
Lasciano il segno antico dei beduini erranti, una coda di orme che la sabbia spazzolerà. Sono tornati al loro destino. Orientarsi nel nulla.
Nonno Mussa non è voluto partire, è rimasto nell’orto con i piedi nella bacinella a guardare le aquile in perlustrazione a caccia di lucertoloni del deserto.
Jamila non è triste. Affonda, prende fiato davanti a un nuovo banco di sabbia. Farid adesso è sulle sue spalle, avvolto in un grembo di tela, come quando era piccolo.
Jamila è giovane, ha poco piú di vent’anni. È una giovane vedova con il suo bambino. Il deserto è la loro conchiglia.
Farid ha un amuleto al collo.
L’orizzonte cambia, si macchia di verzure arse. Un muro di carrubi. Una lunga discesa costeggiata di oleandri fioriti.
È un odore che Farid non ha mai sentito, selvatico e profondo.
È quello l’odore del mare, delle sue distese lucide, dei suoi abissi blu?
Tutti adesso corrono, la testa bassa tra pale spinose di fichi d’india. Farid scende dal dorso di Jamila, lascia la piccola cammella. Corre, rotola tra la sabbia e le tamerici. È la prima volta che lascia il deserto.
Una mano raccoglie i soldi sulla spiaggia. Un altro uomo con il turbante, ma vestito da città. Una giacca chiara, sudata sul collo, sulle spalle. L’uomo grasso urla. La bottiglia di pepsi-cola si agita sul suo ventre molle. Devono sbrigarsi, sono allo scoperto. Anche se la situazione è sotto controllo. I pretoriani lealisti hanno l’ordine di lasciar partire i barconi. Adesso il rais vuole che il Mediterraneo si riempia di miserabili per far tremare l’Europa. È l’arma migliore che ha. La carne marcia dei poveri. È dinamite. Fa scoppiare i centri d’accoglienza, le ipocrisie dei governanti.
Adesso sulla spiaggia tutti protestano.
Guardano sconfitti quel grande guscio arrugginito fermo sull’acqua. Sembra un pullman rovesciato, non un motoscafo.
Tutti urlano, scuotono la testa.
La barca è troppo cara, troppo vecchia. La barca fa schifo.
L’uomo vestito elegante dice cosa vi aspettavate, una crociera? Urla che per lui l’affare finisce lí. Che imbarcherà un altro carico di fuggiaschi meno stupidi di loro. Scrolla il braccio, dice che devono andarsene, fare largo, ritirarsi nei cespugli, nel deserto. Sputa per terra, dice che non ha tempo da perdere con i topi.
Butta i soldi sulla sabbia. Un ragazzo li raccoglie ma l’uomo non vuole piú saperne di loro, sale sulla jeep. Il ragazzo lo insegue, nel finestrino gli chiede per favore, per Allah. Ci sono molte donne, c’è anche sua moglie che è incinta. Chiede all’uomo se lui ha dei figli. L’uomo gli dà un colpo con lo sportello. Scende. Mette i soldi nel portafogli. Adesso nessuno fiata piú. Il trafficante di uomini cammina sulla sabbia con le sue scarpe lucide. Apre il bagagliaio della jeep, scaraventa sulla sabbia confezioni d’acqua nella plastica. Ho pensato anche alla vostra sete. Tutti lo ringraziano. Jamila raccoglie una bottiglia di quell’acqua bollente come tè, la infila nella sacca.
Farid guarda il mare. La prima volta in vita sua. Lo tocca con i piedi, lo raccoglie con le mani. Lo beve e lo sputa.
Pensa che è grande ma non come il deserto. Finisce dove comincia il cielo, dopo quella striscia azzurra, orizzontale.
Credeva di poterci camminare sopra come le navi dei pirati. Invece è bagnato e succhia da sotto. Le onde vanno avanti e indietro, come i panni stesi di sua madre, se lui scappa gli vengono appresso.
La donna incinta si solleva i vestiti per entrare nell’acqua, ma poi finisce per bagnarsi fino alla gola. Apre una bocca magra piena di denti troppo grandi, sembra un dromedario spaventato dal fuoco.
Tutti hanno cominciato a salire, a spingersi, ad arrampicarsi.
La barca è scesa fino al pelo dell’acqua.
Due ragazzi del Malawi, piú svegli degli altri, camminano con i piedi nudi come marinai, controllano l’interno dello scafo. Aprono le taniche tenute dagli elastici a poppa, ci appiccicano il naso. Vogliono verificare che siano davvero piene di gasolio. L’uomo grasso urla che sono dei malfidati figli di puttana ifriqiyyun, schiavi scappati dai ghetti delle oasi. Ha impostato il gps sulla rotta ed è sceso con un salto. Si è bagnato fino alla cinta. Dà un colpo allo scafo. Buona fortuna figli di puttana.
Farid guarda il mare, limpido e compatto come ceramica azzurra. Cerca i pesci, i loro dorsi, i primi pezzi della vita nuova. Jamila lo bacia, gioca con i suoi capelli. Quanto durerà il viaggio?
Poco, il tempo di una ninna nanna.
Jamila ha iniziato a cantare con la sua gola da usignolo, fischia, simula il soffio della zukra. La sua voce cala fino al mare. Poi dorme. La testa magra di una gazzella, di una sorella maggiore. Farid guarda indietro, trova una fessura attraverso i corpi. La costa non c’è piú. Solo mare che sale e scende. Si ricorda della sua casa, dell’altalena, delle maioliche con i disegni color ruggine e smeraldo intorno al pozzo. Pensa alla gazzella. Andava e veniva, come le pareva. Sempre al tramonto. Ormai mangiava dalla sua mano. Lui strappava i datteri, i pistacchi, e glieli serviva sul palmo aperto come su un piatto. Pensa al rumore, poi all’odore della sua bocca. Aveva delle macule all’interno, sulla lingua. Odorava di uadi, di acqua appena passata. Il miglior muso della terra, a parte quello di sua madre. Quel giorno l’aveva stretta a sé. Non sapeva che non l’avrebbe rivista. Il suo manto color cipria bruciata s’illuminava al calar del sole. Il pelo odorava di tappeto. Lo stesso odore che Farid sentiva nel deserto, quando montavano la tenda con nonno Mussa e dormivano sul tappeto delle preghiere.
Non gli importa di lasciare il passato. È un bambino, è troppo piccolo per avere il senso reale del tempo. È tutto insieme, nella stessa mano, ciò che conosce e ciò che lo aspetta.
Prima è eccitato, poi è spaventato, poi è stanco e non è piú niente. Ha vomitato, adesso non ha piú nulla da buttare fuori. Il sole li segue come una lingua affamata, goccia in testa caldo asfissiante, sudore.
Il mare è monotono, non ha nessuna novità. Guardarlo è uno sbaglio, è come guardare un animale senza testa, con tante groppe che si agitano. Carne blu che schiuma da una bocca sommersa. Farid cerca quella testa che non s’affaccia, arriva alla superficie poi scompare.
Si chiede qual è la faccia del mare.
Uno dei ragazzi somali ha sparato alle onde poco fa, per provare uno dei razzi luminosi. Non funzionano, sono marci come la barca. Il ragazzo ha bevuto troppo con i suoi amici, si sono bruciati lo stomaco e il cervello. Adesso stanno facendo a pugni.
Tutti sono pallidi, grigi come corde. Tutti hanno vomitato. Il vomito corre in terra sul legno macero appresso al rullio del mare.
Jamila dice al figlio che deve fissare un punto fermo all’orizzonte per salvarsi dal male del mare.
Farid cerca in fondo nella tasca del cielo dove il sole scioglie l’orizzonte.
In faccia gli arriva il fumo nero del gasolio. Sua madre lo tiene stretto. Lui cerca quel contatto, quell’odore. Ma Jamila ormai è impregnata di gasolio. È quello l’odore del viaggio, della speranza.
Farid ha male agli occhi, alle gambe. Il mare adesso è di traverso, la barca pende tutta da una parte. Non possono spostarsi, quello è il posto assegnato. Un buco tra i corpi. Una bambina si lamenta, due uomini urlano in un dialetto che Farid non conosce. Si soffoca, il sole fa le croste sulla bocca. Sua madre raziona l’acqua. Gli dà sorsi sempre piú piccoli che non bastano nemmeno a pulire la lingua. Fanno i loro bisogni in un secchio comune che poi viene svuotato in mare. Le bestie? Qualcosa oltre. Le bestie non hanno cosí paura di morire. Il mare è un mondo a sé. Un mondo nel mondo. Con le sue leggi, la sua forza. Si allarga, si solleva. La barca sembra la corazza di uno scarabeo morto. Quelli che Farid trovava nella sabbia fina, stecchiti dal ghibli. Farid ha il sole dentro la testa. Non se ne va neanche quando chiude gli occhi. Pensa alle foglie dei capperi selvatici. Quelle che sua madre masticava e gli metteva sulla fronte per guarirlo. Pensa al venditore ambulante che sbuccia fichi d’india con quel gesto veloce, magico. Jamila gli sbriciola in bocca un bastoncino di sesamo, ma la gola è un muro di sabbia.
Il mare è una montagna che sale. Farid ha paura di quelle dune d’acqua. Il motore fatica come un cammello morente.
Di notte fa freddo, la temperatura scende con l’acqua, il mare diventa carta nera. Esala un fumo che resta e bagna addosso. Farid trema. La madre lo ha avvolto nel suo velo umido, scivoloso come una buccia. Farid ha freddo lí sotto. Il vento è cattivo e frusta. Farid si stringe alle ossa di sua madre, cerca il caldo del seno. Anche lei trema, sembra uno di quei cesti con i serpenti dentro che si agitano. Da un pezzo non lo faceva piú avvicinare al suo seno, sei grande ormai. Adesso lo spinge lí, dove un po’ di caldo del giorno è rimasto come nelle pietre. In fin dei conti è una fortuna stare cosí stretti, è una fortuna il vento e il mare. Farid dorme. Pensa alle grosse foglie di palma sotto cui si rifugiava quando attaccava a piovere. Un giorno ha sentito Aghib, il vecchio che cuce le scarpe berbere per i turisti sotto il sole, dire che tutto quello che succede da loro è colpa del petrolio, che se non ci fosse stato il mare nero sotto il deserto nessun dittatore avrebbe avuto voglia di dettare legge e nessuno straniero di venirli a difendere lanciando missili cruise. Il vecchio Aghib gli ha puntato contro quel dito duro bucacchiato dall’ago: il petrolio è la merda del diavolo, non ti fidare di quello che sembra una fortuna. Perché è peggio di una trappola per scimmie. E sempre quello che per i ricchi è una fortuna, per i poveri è una disgrazia.
Farid ha continuato a fidarsi della gazzella, del suo muso che arrivava fino alla porta di casa per mangiare gli avanzi.
È tutto buio e la luna se n’è andata. Il ragazzo che mette il gasolio nel motore si fa luce con l’accendino di plastica, traballa e impreca perché la fiamma si spegne con l’umido del mare. Le braccia della madre sono meno forti, sprofondano insieme alla barca, cedono come ruote nel deserto.
Farid aspetta l’alba. Aspetta l’Italia. Lí le donne camminano con il capo scoperto e la televisione ha infiniti canali. Scenderanno nelle luci, qualcuno li fotograferà. Gli daranno dei giocattoli, gli daranno la coca-cola e la pizza.
Rashid, il padre di nonno Mussa, ha già fatto quel viaggio, all’inizio del secolo quando gli italiani bruciarono i villaggi, scacciarono i beduini dalle oasi e li misero nei recinti, stretti come capre. Rashid era un ragazzo allegro, suonava la tabla e raccoglieva la resina dagli alberi della gomma, i suoi fratelli morirono nella deportazione, lui fu imbarcato e mandato al confino in certe isole chiamate Tremiti. Nessuno ebbe piú notizie. Nessuno ha mai saputo della sua morte o della sua nuova vita.
Farid guarda il mare.
Nonno Mussa gli ha parlato del viaggio di suo padre.
Si era alzata una tempesta di sabbia, un vento di polvere grigia spazzava la costa, quasi che il deserto si ribellasse a quell’esodo crudele. I beduini salirono sulle navi con le loro tuniche sporche e i volti ossuti dopo mesi di fame, gli occhi addolorati e fissi di un gregge spinto nel vuoto.
Una volta Mussa adulto era arrivato fin lí con una Toyota di archeologi del deserto. Erano un gruppo di ragazzi di Bologna, avevano dormito insieme nei vecchi accampamenti tuareg, visitato le necropoli dei Garamanti e i bianchi labirinti di Ghadames.
Dal golfo della Sirte, Mussa aveva guardato il mare che si era ingoiato suo padre. Aveva pensato di imbarcarsi, di andarlo a cercare in Italia. Di presentarsi davanti a lui, alto ed elegante com’era, con i suoi occhiali di osso inglese, la sua jallabiya bianca. Sognava di raccogliere il vecchio padre Rashid sulle sue braccia e di riportarlo indietro su un dromedario, nel suo deserto.
La ruggine della nostalgia graffiava tra i denti come sabbia.
Ma tutto quell’azzurro lo spaventò. Sentí come una mano che dal collo lo tirava indietro. L’antico terrore del mare.
Però fece in tempo a vedere un gruppo di turiste seminude sulla spiaggia che mangiavano more da un cesto di foglie intrecciate e bevevano succo di lime.
Tornò indietro con quel racconto che negli anni si fece sempre piú ardito, le donne erano sempre piú nude e invitanti, come vergini del paradiso.
Farid guarda il mare e pensa al paradiso.
Suo nonno gli ha detto che lassú le donne sono piú belle, il cibo è piú buono e tutti i colori sono piú accesi, perché Allah è il pittore dell’alba.
Farid pensa alla fotografia di suo padre Omar, quella appesa nella sala da pranzo, ritoccata dal fotografo con i pennelli. Le labbra piú rosse, le ciglia disegnate, lo sguardo piú fondo.
Non somiglia per niente al leggendario Omar al-Mukhtar. Non ha idee politiche. È timido e debole di nervi.
Farid guarda il mare.
Le lacrime gli escono dagli occhi, camminano lente tra la peluria del viso sbiancata dal sale.