Mare al mattino

Farid è rannicchiato addosso a sua madre sul barcone. Non si lamenta piú, è disidratato. Le gambe sono piene di formiche, quelle che si arrampicavano sulle sue braccia, e lui rideva, adesso sono dentro. Camminano. Sono quelle le zampe della storia?

Jamila sente il peso del figlio che se ne va. Prima gli diceva dormi, ora cerca di tenerlo sveglio. Gli racconta una storia, quella di un bambino che diventerà grande. È una bugia come tutte le storie.

L’acqua è finita da un pezzo.

Le labbra del bambino sono creste rotte come il legno della barca. Jamila fissa quell’asola scura, deserta. Si china, fa scivolare un po’ della sua saliva tra le labbra del figlio. Il mare ormai è una miniera chiusa sulle loro teste, la casa del diavolo. Gli abissi sono saliti in superficie. È stata disperata, atterrita. Ora aspetta soltanto il destino. L’ultima faccia della storia. La scruta, la cerca, la carne scavata dagli schizzi di sale, in un luogo dove non c’è piú orizzonte. C’è solo mare. Il mare della salvezza che adesso è un cerchio di fuoco bagnato. Un cuore nero.

Ha messo via i soldi per quel viaggio, i dinari di Omar, gli euro e i dollari di nonno Mussa, carta stropicciata e sudata. Li ha consegnati insieme agli altri per quella barca che nessuno guida. Solo un occhio di plastica e taniche di gasolio che ormai sono quasi tutte vuote. Nessuno conosce il mare, in pochi resteranno a galla. Sono creature di sabbia.

Il ragazzo somalo delira, ha una malattia della pelle, pustole sanguinanti che non smette di grattarsi. È in preda alla febbre, si agita, sembra abitato da qualche spirito cattivo. Si è denudato, ed è brutto vedere un ragazzo nudo che cerca di scavalcare gli altri corpi. Gli altri sono stanchi di lui, vogliono buttarlo fuori. Strillano che i somali sono tutti pirati.

Il somalo sputa nel mare, urla che la sua malattia è colpa del mare, del fango bianco che galleggia sulle acque di Mogadiscio, colpa dei bidoni di scorie lasciati nel fondo dalle navi del mondo ricco. Adesso agita le braccia come se avesse un machete. Era il suo lavoro, tirare giú gli alberi, seppellirli e bruciarli nella sabbia per fare il carbone. Ride, dice che tutto morirà, che gli animali non hanno piú alberi e pascolo. Colpa del carbone. Nessuno pensa al futuro, tutti pensano a sopravvivere oggi. E non importa se uccidi il tuo paese. I poveri non possono pensare al futuro. Ride, dice che hanno cosí fretta di venderlo il carbone dei loro alberi che lo mettono nei sacchi che ancora non si è spento dentro, e certe volte le navi prendono fuoco. Ulula, si gratta, si rotola come carbone rovente. Solleva la pistola lanciarazzi, spara l’ultimo razzo. Stavolta sale nel cielo, incredibilmente alto, una traiettoria perfetta, un arco di gocce luminose.

Tutti guardano quel fuoco d’artificio. Tutti ringraziano quella manifestazione divina. Tutti si svegliano dalla premorte. Inneggiano al somalo incendiario. Qualcuno li vedrà. Una nave di militari vestiti di bianco verrà a salvarli, gli porgeranno mani con i guanti, piatti di leccornie, creme miracolose per l’herpes.

Restano a guardare il mare nel buio come calamari intorno a una luce.

Farid è sempre piú leggero. Sembra un bambino di bambú, di legno bucato. Le gambe sono due canne che pencolano, in fondo i piedi sporchi. Jamila gli ha tolto i sandali, gli ha detto muovi le dita. È uno degli ultimi gesti che il bambino ha fatto, ha cercato di muovere quei piedini, di tenere in vita quei diti. Adesso il suo respiro odora di carbone, è un rantolo roco che proviene dal fondo. E sembra esalare da un corpo molto piú grande e piú vecchio. Forse il bambino è cresciuto durante il viaggio.

Jamila gli carezza la fronte e i capelli stecchiti dal mare, lo stringe. Farid ha gli occhi socchiusi. Jamila guarda quelle fessure bianche che si muovono dentro e la cercano. Adesso è tranquillo, come quando sta per addormentarsi e fa l’ultima lotta del giorno mentre le palpebre cadono.

È sempre stato un bambino tranquillo. Un piccolo uomo.

Jamila ricorda quando le chiedeva il permesso di fare pipí nel giardino, ormai era troppo tardi per raggiungere il bagno. Apriva le gambe e si prendeva il suo affarino, lei gli diceva di spostarsi un po’ piú in là, ma lui aveva paura del buio, di uscire dal cerchio di luce della lampadina.

Anche Omar ogni tanto pisciava in giardino. Jamila lo rimproverava, il caldo avrebbe portato il cattivo odore dentro casa. Omar rideva con i suoi denti bianchi che bucavano il buio. Spruzzavano vicini, il padre e il figlio, il grande e il piccolo. Facevano quel gesto da uomini che li univa. A volte incrociavano i loro getti, altre volte confrontavano le due buche bagnate nella sabbia.

Jamila non sa perché sta pensando a quella cosa cosí stupida.

Avrebbe tanti ricordi piú importanti. Invece pensa a quei due zampilli di piscio nel suo giardino, a lei che urla andate piú lontano! Piú lontano! I miei fiori finiranno per puzzare e seccarsi!

Jamila è un insetto che si spegne. Il suo cuore è una lanterna che resiste. Per quanto ancora? Per illuminare la notte di Farid.

Un giorno gli ha legato al collo un sacchetto piccolo di pelle morbida come velluto, ha scacciato i fantasmi, ci ha soffiato dentro tutti i sogni migliori.

Quando ha visto il mare le è sembrato grande e bagnato, ma niente di piú. Una terra facile, senza armi. Una benedizione. Non sapeva che fosse senza fine, che gridasse da tutte le parti. Sono giorni e notti che la sua faccia nera e muta sale e scende con le onde. Le mani sono raggrinzite come radici allo scoperto. Stringe il figlio, il piccolo dattero.

Farid a casa giocava con i pezzi delle antenne, i cavi avanzati al padre.

Jamila lo manderà a scuola in Italia. Ha degli amici al nord, cercherà di raggiungerli. Anche loro sono arrivati via mare, però con una barca piú piccola e piú veloce. Adesso stanno bene, hanno una lavanderia nella zona dei parrucchieri cinesi. All’inizio è stato terribile, dormivano nel parco, scappavano di continuo. Loro saranno trattati meglio. Non sono semplici clandestini, sono profughi, fuggono da una guerra. Avranno un permesso di soggiorno temporaneo. Chiederanno asilo. Lei potrà cercarsi un lavoro, imparare l’italiano ai corsi serali. Un giorno forse tornerà nella sua casa. Si siederà e guarderà la sua vita. Farid sarà un ragazzo quel giorno, il sedere sporgente e le spalle strette come suo padre. Lo stesso sorriso di pesco. Sarà bravo con l’elettricità, come lui. Le stesse dita lunghe come cacciaviti.

La gazzella è sul mare. Non si sa come ma è lí. Ferma sulle lame blu delle onde, appoggiata regalmente come su una duna. Si volta a guardare Farid, le sue corna lucenti e anellate sono immobili.

È un piccolo animale coraggioso e altero, ha gambe sottili, muscoli scattanti e una striscia nera sul dorso che vibra quando il pericolo si avvicina. È il piú meraviglioso ornamento del deserto. Ha un udito che buca il silenzio, occhi magici, cornee trasparenti e le sue famose pupille brillanti che vedono le aquile in cielo, i licaoni nascosti nei cespugli. Durante la siccità estiva quando tutti gli animali lasciano le regioni desertiche e le steppe bruciate, la gazzella rimane fedele ai suoi luoghi, e spesso la sua carne sfama i grandi carnivori che altrimenti morirebbero. Corre in maniera un po’ buffa, quasi non tocca la sabbia. Lascia una scia di orme piccole e tonde come monete. È molto veloce, deve esserlo per sopravvivere. Ogni tanto si ferma a guardare indietro, come fanno i bambini, e questa curiosità può esserle letale. Azzannata alla gola, la gazzella non si dibatte, si lascia trascinare e uccidere. I poeti arabi hanno cantato per lei, hanno posto il suo sguardo innocente al culmine della bellezza del mondo.

Mentre muore, Farid sta pensando alla gazzella, ai suoi occhi che si avvicinavano cosí tanto ai suoi, alla sua bocca di denti piatti che mangiava dalla sua mano nel giardino dei pistacchi.

Mentre Farid muore, Jamila continua a stringerlo, a cantare. Non vuole che gli altri se ne accorgano, ormai sono cattivi. Ha visto i corpi buttati in mare. Ha superato la vita ed è ancora lí. Sa che tutto sommato è stato meglio cosí, che il suo cuore abbia retto. Il terrore ormai era solo quello, morire prima del bambino, lasciarselo cadere dalle braccia. Fargli sentire la grande solitudine del mare. Il cuore nero.

Una volta ha visto nel deserto un piccolo fennec con la madre morta accanto, solo, circondato dal richiamo dei predatori notturni che si avvicinavano pacifici con i loro corpi striscianti.

Guarda il portafortuna attaccato al collo del figlio, non si muove piú sulla sua gola che si è allungata come quella degli animali uccisi.

Nessuno approderà da quella barca. È l’ultimo goccio di gasolio e la rotta è persa. Una nave passerà lontana senza fermarsi.

Mani annaspano in superficie. Polmoni scoppiano senza rumore. Corpi calano verso il fondo, basculano come scimmie su perdute liane. Creature di sabbia gonfie di mare, sbrindellate dalla fame dei pesci.

Il ristorante in riva al mare è vuoto.

Solo un brigadiere che mangia un solo piatto di pasta ’ncasciata sotto il pergolato, legge un quotidiano.

Il proprietario del ristorante è uscito sulla spiaggia, il grembiale bianco, la maglietta con il nome. Guarda il mare con le mani sui fianchi.

Vito cammina sulla spiaggia.

C’è il corpo di una medusa accanto a un cellophane nero di catrame.

Il mare quest’anno è un muro di meduse.

Non è per quello che i turisti non verranno.

Vito cammina sulla spiaggia.

Li ha visti quei barconi carichi e puzzolenti come barattoli di sgombro. I ragazzi del Nord Africa, i reduci dalle guerre, dai campi profughi, e gli imbucati. Ha visto gli occhi allucinati, il passaggio dei bambini sopravvissuti, le crisi di ipotermia. Le coperte d’argento. Ha visto la paura del mare e la paura della terra.

Ha visto la forza di quei disperati, io voglio lavorare, voglio lavorare. Voglio andare in Francia, in Europa del nord a lavorare.

Ha visto la determinazione e la purezza. La bellezza degli occhi, il candore dei denti.

Ha visto il degrado, il porcile.

Le schiene dei ragazzi contro un muro, i militari che gli toglievano i lacci delle scarpe e le cinture.

Ha visto la gara degli aiuti, i panni trovati per i bambini, le collette dei poveri davvero incazzati, perché Gesú Cristo chiede sempre a loro.

Ha visto la saturazione, la paura delle epidemie. La gente protestare, bloccare i moli, gli approdi. E poi ricominciare, buttarsi nel mare in piena notte per tirare su quei disperati che nemmeno sanno nuotare.

E non sai davvero chi salvi, magari un avanzo di galera. Uno che ti ruberà il cellulare, che guiderà contromano ubriaco, che stuprerà una ragazza, un’infermiera che torna a casa dal turno di notte.

Ne ha sentiti di discorsi cosí Vito, affastellati, rozzi. La rabbia dei poveri contro gli altri poveri.

Salvare il tuo assassino, forse è questa la carità. Ma qui nessuno è un santo. E il mondo non dovrebbe avere bisogno di martiri, solo di una ripartizione migliore.

Angelina è alla finestra. Aspetta il figlio che non torna. Non importa. Sa che un giorno non tornerà piú. Che quella è la vita.

Forse non è stata una brava madre. È stata una lucertola con la coda tagliata. Vito è stato la coda nuova.

Ma come fai a sperare?

Il televisore è spento. È un televisore vecchio, che funziona male, soffre il vento, la pioggia. Dovrebbero cambiare televisore, cambiare antenna. Ma tanto quella è una casa di mare.

Angelina sta aspettando che la guerra finisca. Che l’attore dai mille volti venga catturato e processato.

Ha visto i bombardamenti della Nato. Il solito non colpiremo obiettivi civili. Hanno tirato giú anche la fabbrica che riforniva le bombole d’ossigeno all’ospedale.

Ha visto gli inganni, la piazza Verde piena di ribelli, finta, ricostruita dalle tv come un set.

Ha visto i guerriglieri con le bandane, i bambini con il mitra. Ha allungato un braccio verso il televisore come per fermarli.

La loro città distrutta, i muri crivellati, i buchi delle esplosioni. Le palme canute di detriti.

Sua madre Santa ha detto ci stanno sparando addosso.

Noi siamo tripolini, non siamo né qui né lí, siamo fermi in mare come quei ragazzi senza approdo.

Hanno visto i ribelli, gente comune. Ragazze senza il velo che parlano alla radio, giovani universitari con le mitragliatrici e le ciabatte da spiaggia.

Hanno visto la vecchia bandiera senussita.

Hanno visto i mercenari bambini, piccoli lealisti arruolati per pochi dinari, uccisi in ginocchio, sparati alla nuca come animali della savana.

Hanno visto la giornalista del telegiornale con il velo e la pistola.

Hanno visto gli sminatori a mani nude in pantaloncini corti, sudati come contadini.

Che fine faranno tutte queste armi, dopo?

Si è svegliata di notte con quel pensiero.

Passeranno a un’altra guerra. I gas nervino e i gas mostarda. L’arsenale del rais, le casse di legno cariche di mitra, di mine, di razzi, e sopra quella scritta surreale: per il ministero dell’Agricoltura.

Campi seminati a mine. È questo il raccolto.

Ogni notte un nuovo barcone, letame umano, fuoriusciti per fame, per guerra.

È una giornata di fine estate, di capperi fioriti e incanto. Tre giorni di burrasca e poi la tregua. La spiaggia è una discarica di legni, di avanzi di barche mai arrivate. Un museo di guerra sulla sabbia di graniglia. Vito fruga, recupera qualche pezzo.

Fa avanti e indietro dalla spiaggia, trascina tavole storte, frammenti di tappeti.

Si ferma a raccogliere un piccolo sacchetto di cuoio, sembra uno di quelli dove si custodiscono i gioielli. Vito fatica ad aprirlo, la cordicella è annodata con tanti giri stretti. Infila un dito, non c’è niente, una specie di lana bagnata e qualche perlina. Lo butta nello zaino insieme al resto.

Sull’isola c’è il cimitero degli ignoti. Un uomo buono ha raccolto i corpi restituiti dal mare, s’è strofinato la mentuccia sotto il naso per non sentire l’odore. Ha messo croci che qualcuno ha tolto, ma non importa, il Dio dei poveri è uno solo. E ogni giorno affoga con loro. Poi fa crescere l’aglio selvatico e il papavero delle spiagge tra i tumuli. Vito c’ha camminato in mezzo. È un luogo spoglio, battuto dal vento e senza dolore. Il mare pulisce tutto. Nessuna madre viene lí a piangere, non ci sono fiori. Solo piccoli pensieri di estranei, turisti che si avvicinano e lasciano un biglietto, un giocattolo. Vito si è seduto, ha immaginato il campo sottostante di ossa come lo scheletro di una barca rovesciata.

Ha pensato alle tartarughe. Vengono sulla spiaggia a depositare le uova. L’isola è un rifugio di covature marine. Tra poco le uova si apriranno. Vito ha visto quello spettacolo. Le piccole tartarughe che inseguono la marea, corrono verso il mare per salvarsi dalla morte.

A casa piú tardi inchioda gli avanzi su un telaio. La pagina di un diario scritto in arabo, la manica di una camicia, il braccio di una bambola.

È lavoro senza un significato tangibile. Dettato da quella disperazione senza credito che lo affligge.

Trascorrerà cosí gli ultimi giorni di vacanza. Nella rimessa.

Deve decidersi su cosa fare della sua vita, se sprecarla o farla fruttare in qualche modo.

Sua madre gli ha detto devi trovare un luogo dentro di te, intorno a te. Un luogo che ti corrisponda almeno in parte.

Vito non sopporta quando lei fa cosí. Quando guarda il mare e non parla, sprofonda i pugni nelle tasche del cardigan.

Lui semplicemente non è in grado di prendere nessuna decisione, c’ha pensato ma ha scosso la testa. Forse resterà un allocco. Forse non è cosí intelligente. In ogni caso è lento, ha bisogno di tempo.

Vito trascina, incolla. Pezzi di quelle fughe interrotte.

Non sa perché lo fa. Cerca un luogo. Vuole fermare qualcosa. Vite mai arrivate a destinazione.

Pensa agli occhi di sua madre posati sul mare che continuano a inseguire il filo perso del gomitolo che si avvolge intorno alla sua gola. Da quando è tornata da Tripoli ha cercato solo gioia. S’è messa a cucinare, crostate di fichi, pasta al forno, a sistemare ciuffi di ginestre nei vasi. Vuole lasciargli dei ricordi. La sensazione di una casa alle spalle dove tornare ad occhi chiusi, solo per respirare.

Angelina entra, gli chiede perché non è venuto per pranzo. Guarda l’immenso pannello di avanzi marini, legni inchiodati, jeans incollati.

Guarda quell’esplosione ferma.

– Ti sei messo a fare l’artista?

Vito scuote le spalle, ha le mani nere, la colla nei capelli. Si appoggia al muro, vicino alle casse di bottiglie vecchie, si strofina gli occhi con i polsi, dà un calcio alla polvere.

Non lascia avvicinare sua madre, la tiene a distanza nell’ombra. Parla a se stesso.

– Ho fermato un naufragio.

Vito ha raccolto la memoria. Di una tanica blu, di una scarpa.

Qualcuno ne avrà bisogno un giorno. Un giorno, un negro italiano avrà voglia di guardare indietro il mare dei suoi antenati e di trovare qualcosa. La traccia del passaggio. Come un ponte sospeso.

Angelina non può voltarsi a guardare suo figlio, davvero si vergogna. Sarebbe come spiarlo mentre fa l’amore.

Si avvicina al grande pannello azzurro.

Tocca quelle povere cose incrostate, reliquie marine. Lavate dal sale. Quel naufragio scolpito nel suo capanno degli attrezzi. Fa impressione, è come un sito archeologico intatto. Un mondo salvato.

Angelina guarda il mare di suo figlio. Quello che ha scelto della spiaggia, della storia. Uno spazio interiore nella risacca del mondo.

Guarda il sacchetto di cuoio inchiodato al centro.

Sa che è un portafortuna. Che le madri del Sahara li preparano di notte sotto la veglia delle stelle, li mettono al collo dei bambini per scacciare gli occhi cattivi della morte.

Accosta la testa, strofina il naso come un animale. Sente il rumore del mare, cosí simile a quello del sangue.