Nel 1283 gli abitanti di Padova assistettero a un evento straordinario: la scoperta delle reliquie del fondatore della loro città, l’eroe troiano Antenore. In quell’anno, durante la costruzione di un ospizio, fu trovato un sarcofago contenente resti umani, una spada e due vasi pieni di monete; l’umanista Lovato Lovati, consultato su questo strano ritrovamento, e sulla base di una profezia attribuita nientemeno che a Merlino, identificò il corpo con quello di Antenore e il suo parere fu volentieri accolto dai magistrati padovani. Si raccontava, infatti, che nella notte in cui Troia fu presa il vecchio Antenore, uno dei maggiorenti della sua città, fosse stato risparmiato; più tardi egli raggiunse l’Italia insieme a un gruppo di Troiani fuggiaschi, sottomise i Veneti e fondò Padova.
Dopo il rinvenimento del corpo, al presunto Antenore furono tributati pubblici onori e gli fu eretta un’arca sepolcrale, ma il sonno eterno dell’eroe venne nuovamente disturbato alcuni decenni dopo, nel 1334, quando Alberto della Scala, signore di Verona, fece aprire la tomba e ne trasse fuori la spada.
Pochi anni prima della scoperta di quest’insolita reliquia eroica, nel 1263, il corpo di sant’Antonio, canonizzato subito dopo la morte, era stato solennemente trasferito nella basilica eretta in suo onore, dove ancora riposa. Così, nel giro di pochi anni, Padova poté gloriarsi del possesso di ben due corpi speciali, sebbene, certo, uno infinitamente più venerato dell’altro: quello del santo protettore e quello dell’eroe fondatore.
Corpi speciali, corpi sacri. Questo libro discute un fenomeno del pensiero religioso, vale a dire l’idea che il sacro possa essere percepito attraverso la piena umanità di esseri esemplari, i quali, passando per l’esperienza più crudele e terribile, la morte, acquisiscono poteri che li proiettano oltre la morte stessa.
Alle origini di questo percorso sta una figura specifica della religione greca, l’eroe. La parola compare per la prima volta nel quarto verso dell’Iliade: héroes erano i guerrieri che combatterono sotto Troia, grandi uomini di un’epoca finita per sempre, molto superiori agli uomini di ora per forza e nobiltà, figure sovrumane che, come diceva Aristotele, «hanno un’anima più nobile». Esiodo li collocava nel tempo delle origini, dopo le età dell’oro, dell’argento e del bronzo: la generazione degli eroi scomparve dopo aver compiuto splendide imprese, e ora (dice il poeta in Opere e giorni) agli uomini non resta che la mediocre e terribile età in cui sono costretti a vivere senza gloria o grandezza, in mezzo a fatiche e dolori.
Esiodo sbagliava. In realtà, gli eroi non sono scomparsi né hanno mai cessato di popolare la nostra civiltà. Certo, non sono più gli eroi della Grecia, i quali, oltre a plasmare tutta la letteratura degli antichi, possedevano una loro esistenza al di fuori delle parole dei poeti: erano anche figure del culto distribuite sul territorio e accompagnavano le attività umane con la loro invisibile azione. Nessuno nell’antichità dubitò mai che gli eroi fossero stati, un tempo, persone realmente esistite, e del resto culti eroici si prestarono anche a personaggi pienamente storici: atleti, guerrieri, fondatori di città, re, profeti, guaritori. A volte gli onori eroici furono attribuiti persino a viventi illustri, per così dire «in odore di eroicità»: il primo fu, secondo la tradizione, lo spartano Lisandro, il vincitore della guerra contro Atene, alla fine del V secolo a.C.
Il viaggiatore Pausania, visitando la Grecia verso la fine del II secolo d.C., descrive varie centinaia di tombe eroiche disseminate nelle città e nelle campagne. Molte di esse erano recintate da boschetti consacrati e ornate con monumenti e colonne. Una strana quiete, densa di religiosa pace, circondava quelle che sorgevano in spazi isolati, dove si percepiva quasi materialmente la silenziosa presenza dell’eroe: a luoghi del genere bisognava accostarsi con reverenza, per evitare di offendere l’essere sacro che riposava lì e destare la sua ira. «Gli eroi sono considerati pericolosi e per questo, passando accanto alla tomba di un eroe, si tace» (Fozio, Lessico, s.v. kreittones).
Il sepolcro di Protesilao, il primo guerriero caduto della guerra di Troia, sorgeva in faccia alla Troade, a Eleunte, nel Chersoneso tracio, e fu particolarmente onorato dagli abitanti della regione per molti secoli; i Persiani lo profanarono quando Serse invase la Grecia nel 480 a.C., ma il sacrario fu immediatamente restaurato e rimase un luogo santissimo, dove ancora nel III secolo d.C. si celebravano riti. Era ombreggiato da alberi i cui rami crescevano rigogliosi sino al momento in cui dalle loro cime si poteva scorgere Troia; allora disseccavano e cadevano, per poi riprendere nuovamente a crescere.
L’eroe Alcmeone era sepolto a Psofis, in una vallata solitaria; la sua pace eterna era custodita da alti cipressi che crescevano attorno alla tomba e che gli abitanti del luogo chiamavano «le sorelle». Si favoleggiava anche che, ai bordi dell’Oceano, sopra il sepolcro di Gerione, l’eroe dai tre corpi che secondo il mito fu ucciso da Eracle, fossero stati piantati due alberi dalla cui corteccia stillavano gocce di sangue.
Alberi sacri, magiche fioriture; ma le leggende di piante animate cresciute attorno alle tombe di eroi si proiettano ben oltre l’epoca antica e proseguono nelle tradizioni medievali che parlano di meravigliose fioriture nei pressi delle tombe dei santi. La vegetazione lussureggiante rende concreta la presenza di un’anima benedetta, come segnale della possente sacralità che emana da quel luogo. Presso il sepolcro del beato Severo, in Gallia, ogni anno i gigli avvizziti riprendevano miracolosamente a fiorire, quasi preannuncio della rinascita dei corpi, o come segno che l’anima del santo – per usare le parole di Gregorio di Tours, che racconta il miracolo – «fiorisce in paradiso, come una palma».
Durante l’epoca tarda, quando la religione tradizionale andava declinando, il culto degli eroi rimase ovunque radicatissimo. Questi esseri sacri racchiusi nei loro sepolcri stavano in mezzo alla gente, immateriali, certo, ma contigui agli uomini, ed erano inclusi organicamente nel sistema religioso delle città antiche, come i santi, di cui le chiese e le cappelle durante i secoli del medioevo custodivano le reliquie, popolavano con la loro protettiva presenza la civitas Christiana.
Pausania parla dei culti eroici, ma non menziona mai luoghi di culto cristiani. Tuttavia, questi due mondi erano meno impermeabili di quanto a prima vista si potrebbe credere. Mentre i fedeli della nuova religione si recavano a pregare sulle reliquie dei loro martiri nascoste nelle catacombe, donando fiori e preghiere sui loro sepolcri, altri uomini, loro contemporanei, in numero molto maggiore, continuavano a raccogliersi pubblicamente nei giorni stabiliti per versare offerte sulle tombe degli eroi e delle eroine che, letteralmente, costellavano le città antiche, in particolare nell’Oriente del Mediterraneo.
Il sacrificio eroico, atto fondamentale del loro culto, avveniva in forme diverse rispetto al sacrificio divino: agli dèi si offrivano vittime scannate su un altare e bruciate, mentre in genere i sacrifici agli eroi si celebravano in fosse o sopra altari bassi (eschàrai) ed erano di tutt’altra natura. Sangue di vittime, miele, vino, latte, colavano nelle fosse sacrificali per nutrire gli esseri che sottoterra seguitavano a vivere, e con i quali i viventi volevano continuare a rimanere in contatto.
Quando, nell’arco di poco più di un secolo, tra il IV e il V, la religione pagana collassò sommersa dal Cristianesimo trionfante, e i templi e le tombe eroiche furono distrutti, all’eroe tradizionale si sostituì una nuova figura di venerazione collettiva, a modo suo ugualmente eroica: quella del santo, l’eroe cristiano per eccellenza, portatore di valori molto diversi ma per alcuni aspetti erede dell’antico modo di percepire la presenza divina nel mondo.
Il culto dei santi si affermò assai presto nel Cristianesimo. I primi furono i martiri che avevano gloriosamente offerto la vita in nome di Cristo. Quando poi il Cristianesimo vinse la sua battaglia e da religione perseguitata diventò potere dominante, a popolare la legione dei santi si aggiunsero altre figure consacrate, anch’esse eroiche: i monaci e gli asceti, che non avevano più bisogno dell’estremo sacrificio per testimoniare la virtù cristiana, ma l’affermavano esemplarmente nella vita giorno dopo giorno.
La venerazione dei martiri assunse uno sviluppo impressionante nel IV secolo. Tombe di martiri venivano aperte, i corpi riesumati, smembrati e distribuiti tra le comunità dei fedeli perché ognuna potesse godere della santa presenza nella realtà della carne. «Ogni goccia del sangue dei martiri – scriveva Gregorio di Nazianzo – e i più minuscoli segni della loro passione hanno lo stesso valore dei loro corpi tutti interi». La dispersione dei corpi sacri continuò accanitamente anche nelle epoche seguenti: per esempio, nel VII secolo l’imperatrice Costantina, moglie dell’imperatore Maurizio, chiese a Gregorio Magno (ottenendo un garbato rifiuto) per la chiesa consacrata a san Paolo nel palazzo imperiale di Costantinopoli «la sua testa o qualche altra parte del suo corpo».
Attorno al culto dei santi si generò un vero e proprio boom edilizio, con la costruzione di santuari e basiliche in ogni angolo dell’impero diventato cristiano, nei luoghi dove i santi erano stati martirizzati o dove riposavano i loro resti. Le chiese dei martiri divennero centro di un incessante pellegrinaggio; nel 384 la pellegrina Egeria (o Eteria), arrivando a Edessa in Siria dalla lontana Spagna, scriveva: «appena giunti, ci siamo immediatamente precipitati alla chiesa del santo apostolo Tommaso. Come d’abitudine abbiamo pregato e fatto ciò che siamo soliti fare nei luoghi santi [...] la chiesa sorge lì, immensa, bellissima, tutta nuova». E poi, grande novità, in quei luoghi i santi incominciano a compiere miracoli.
L’apertura delle tombe e le traslazioni di reliquie in luoghi di culto erano accompagnate dalla passione infiammata dei credenti. Quando, per esempio, il corpo del profeta Samuele fu portato da Gerusalemme a Costantinopoli, lungo il percorso si raccolsero folle esultanti di pellegrini provenienti da ogni luogo; in mezzo ad analoghe manifestazioni di fede popolare, nel 356 le reliquie di san Timoteo furono trasferite a Costantinopoli, e l’anno successivo quelle di sant’Andrea e san Luca.
Se un Pausania cristiano avesse visitato la Grecia e l’Oriente alla fine del IV secolo avrebbe visto in rovina i monumenti e le statue della civiltà antica, le tombe eroiche e i templi distrutti, ma al loro posto avrebbe potuto descrivere lo splendore dei santuari cristiani, dove riposavano gli eroi della fede, ancora pienamente viventi nella loro capacità di compiere miracoli e parlare ai pellegrini.
Un caso di questo genere fu il santuario di Tecla a Meriamlik, in Asia Minore, dove la santa compiva miracoli apparendo in sogno ai malati e i pellegrini si accalcavano per ottenere guarigioni, esattamente come poco più di un secolo prima le masse si affollavano a cercare sogni guaritori nei santuari incubatori di Asclepio. Cosa anche più interessante è che Tecla compiva miracoli nel luogo dove sino ad allora sorgeva il famoso santuario incubatorio dell’eroe Sarpedone (o più esattamente di Apollo Sarpedonio).
I pellegrini di Meriamlik tornavano a casa portando con sé borracce di terracotta riempite con l’olio delle lampade che ardevano nel tempio; su molti di questi gadgets erano impresse scene dei prodigi della santa, come quella che si legge nei romanzeschi Atti di Paolo e Tecla in cui la vergine siede lieta e incolume tra i leoni a cui era stata gettata in pasto. Basilio vescovo di Seleucia, che verso la metà del V secolo scrisse una biografia romanzata di Tecla e dei suoi miracoli, lascia una descrizione pittoresca dell’eccitazione dei pellegrini:
Era l’ultimo giorno della festa della martire [...] due uomini cenavano insieme con altre persone e ciascuno di loro raccontava ciò che l’aveva colpito maggiormente: chi lo splendore e l’intensità della festa, chi la grande folla di popolo, chi l’imponente adunanza dei vescovi, chi l’eloquenza dei predicatori, chi lo slancio nel cantare i salmi, chi la perseveranza nella veglia notturna, chi l’ordine e la bellezza delle cerimonie, chi il fervore delle persone in preghiera, chi la terribile pressione della folla e il calore soffocante, chi le spinte e la calca durante la celebrazione dei santi misteri, con i nuovi arrivati: uscivano, rientravano, nuovamente ripartivano, gridando, discutendo, e persino venendo alle mani perché ciascuno voleva essere il primo a partecipare all’eucaristia. (Vita di Tecla, miracolo 18)
Gli intellettuali pagani guardavano con sbigottimento misto a disgusto lo spettacolo tripudiante di questi barbari dello spirito che aprivano tombe e portavano in processione scheletri – come anche oggi uno spirito laico potrebbe sentirsi disorientato dall’ardore gaudioso con cui la Chiesa cattolica apre il sepolcro di papa Wojtyla o di padre Pio e ne esibisce i resti mortali durante il processo di beatificazione.
Eunapio di Sardi, alla fine del IV secolo, scriveva che i cristiani «raccolgono le ossa e i teschi di criminali giustiziati per molti delitti [...] ne fanno una sorta di divinità e pensano di diventare migliori raggruppandosi davanti alle loro tombe. Li chiamano martiri e ministri, e li considerano messaggeri davanti agli dèi per presentare loro le preghiere degli uomini». Anche l’imperatore Giuliano, con meno fanatismo ma pari disgusto, criticava le processioni cristiane che portavano i cadaveri e le ossa di gente morta in mezzo alla città, contaminando ogni cosa con il pretesto di santificare.
E gli eroi, pure essi corpi sacri e circondati di venerazione? Il problema della presenza di queste arcaiche forme di religiosità era abbastanza imbarazzante per gli intellettuali pagani. Alcuni spiriti scettici (come Luciano) si facevano beffe dei racconti tradizionali su dèi ed eroi; altri li trasformavano in simboli e allegorie; altri ancora tendevano a renderli figure esemplari e a inserirli in un modello religioso più elevato. Plutarco, nutrito di spiritualità platonica, spiegava la natura sacra dell’eroe tentando di depurare il sacro dalla contaminazione del corpo:
Guardiamoci bene, dunque, dall’inviare direttamente in cielo i corpi degli uomini buoni, ma convinciamoci fermamente che le loro anime e le loro virtù, conformemente alle leggi di natura e alla divina giustizia, si elevano e da uomini diventano eroi, da eroi demoni e da demoni (una volta che sono completamente purificate come attraverso un rito iniziatico e rese sacre attraverso l’eliminazione di tutto ciò che è mortale e sensibile) salgono tra gli dèi, non per decreto di una città ma secondo verità e in conformità di una logica naturale. Lì raggiungono il loro compimento e la più alta felicità. (Vita di Romolo, 28)
Per un pagano colto la morte era il momento in cui l’anima abbandona la sua tomba di carne e finalmente riacquista la purezza dello spirito levandosi in spazi più alti; per lui era difficile accettare l’idea cristiana che la morte è ciò che riscatta dalla morte stessa.
Di sicuro un eroe e un santo sono fenomeni ben differenti, parlando dallo stretto punto di vista della storia religiosa, anche perché nella sua lotta per la santità e la continenza il santo esprime valori morali che si collocano all’opposto rispetto a quelli praticati dall’eroe greco, che non è un bell’esempio di contemptus mundi. Ma a ben vedere le due figure offrono più tratti comuni di quanto si possa sospettare, e non di rado i confini delle loro funzioni tendono a sfumare. Il santo possiede una tempra eroica; potremo parallelamente vedere l’eroe come una sorta di santo pagano? In taluni casi, specialmente in autori della tarda antichità, verrebbe da pensarlo. Nella Vita di Apollonio di Tiana Filostrato scrive la biografia romanzata di questo famoso taumaturgo negli stessi termini che un agiografo cristiano presterebbe ai suoi santi: Apollonio vagava per il mondo, predicava, scacciava demoni, ripristinava la «vera» fede restaurando culti caduti in oblio, raddrizzava torti, guariva e alla fine scomparve entrando nella misteriosa eternità degli spiriti eletti.
Il problema del rapporto tra culto eroico e culto dei santi, naturalmente, è stato molto discusso. Secondo Peter Brown, il culto degli eroi aiuta poco a spiegare quello dei santi ed è un dato di fatto che il culto dei santi nasce indipendentemente, se non in contrapposizione, con quello degli eroi. Si tratterebbe di fenomeni tra loro indipendenti, non solo perché l’essenza dell’eroe pagano diverge da quella del santo cristiano, ma anche perché gli eroi non sono intercessori, come i santi, il cui potere proviene da Dio; inoltre lo specifico legame tra morte e resurrezione di un corpo che si disgrega ma rinascerà, così caratteristico del culto cristiano, manca completamente a quello degli eroi.
Questo è certamente vero dal punto di vista teologico, anche se si potrebbe osservare che non di rado anche gli eroi operavano come mediatori, quando gli oracoli li indicavano come tramite per far cessare disastri. In generale, processioni e sacrifici espiatori agli eroi erano il mezzo tradizionale per fronteggiare calamità di ogni genere (come del resto le processioni ai santi lo furono durante tutta la storia del Cristianesimo). La differenza tra culto eroico e culto dei santi si assottiglia alquanto se consideriamo i due fenomeni dal punto di vista della mentalità collettiva e di quella che si suole definire, non senza una certa sufficienza, «religione popolare» e che è costituita da un sostrato d’idee, pratiche e culti tanto radicati nella mentalità collettiva e in modelli antichissimi di sentimento del sacro da scavalcare le forme storiche delle religioni.
I punti di contatto tra la figura dell’eroe e quella del santo sono un dato oggettivo che non si può negare; chiusi nelle loro tombe circondate dalla pubblica devozione, gli uni e gli altri sono morti eccezionali, il cui destino si divarica nettamente da quello dei morti comuni poiché qualcosa della loro straordinaria natura permane anche dopo la loro dipartita dal mondo.
L’eroe (comunque lo si voglia chiamare) sembra essere una necessità della psicologia collettiva: ogni terra ha bisogno di eroi – sebbene su questo Brecht non fosse d’accordo: «maledetta la terra che ha bisogno di eroi» – e li sceglie sulla base delle proprie coordinate culturali; il modello eroico, trasmesso per via culturale, influisce sulla formazione della personalità individuale, ovvero, per riprendere un’idea di Heidegger, si potrebbe dire che ogni esistenza è determinata dalla scelta del proprio eroe. Ma c’è altro. Un eroe e un santo sono modelli fondamentali per la società entro cui operano; per rimanere nella memoria collettiva, hanno bisogno di un contenitore di racconti. Hanno bisogno, più precisamente, di un mito, o per meglio dire, i racconti che ne trasmettono la memoria alle generazioni successive sono edifici costruiti con gli stessi mattoni mitici, perché debbono fissare nell’inconscio collettivo, amplificandoli, i valori di cui le loro vicende sono fondative.
Tra eroe greco e santo cristiano esiste un certo grado di continuità storica, nella prosecuzione degli stessi rituali che rispondono a un arcaico sentire religioso delle masse. È vero che un santo è un intercessore e un eroe generalmente no, ma nell’atto concreto del culto, la differenza sembra sbiadire. Agli occhi della gente comune entrambi questi corpi sacri emanano poteri che, dai loro sepolcri, s’irradiano silenziosi e possenti, e quando a un santo si chiede di guarire, o scacciare la carestia, o favorire la crescita delle messi, gli si chiede di compiere lo stesso lavoro che un tempo era stato affidato agli eroi. Certamente un santo opera miracoli in nome di Cristo, ma è a lui, e non al Creatore, che si richiede il prodigio, e lo si chiede al suo corpo che sta lì, tangibile, e a lui si rendono grazie e si offrono doni.
È un dato positivo nella storia delle religioni, e in quella del folklore, che molti elementi dell’antico culto eroico si siano travasati in quello dei santi. Sono forme di credenze conservate tenacemente attraverso i secoli, che il Cristianesimo finì per inglobare, o quanto meno tollerare, nel proprio sistema di culto. Come ebbe a scrivere a suo tempo il padre Hyppolite Delehaye, certo non sospettabile di laicismo, davanti a questo fenomeno si potrebbe giungere a dire che nella lotta tra Cristianesimo e idolatria il vinto non fu quello che normalmente si crede, e il culto dei santi è ciò che fornisce più argomenti in favore di questo paradosso.
Paul Veyne, parlando del trionfo del Cristianesimo durante il IV secolo, arriva a definirlo un vero e proprio «capolavoro storico», che portò una minoranza esigua della popolazione dell’impero, probabilmente non superiore al cinque o dieci per cento del totale, a demolire un sistema di culto antico quanto la storia.
Tra le spiegazioni, non forse la prima, ma certo tra le più forti, vi fu la capacità del Cristianesimo d’inglobare forme di culto che avrebbero potuto, o forse dovuto, essere abbattute così come venivano demolite le statue degli dèi e rasi al suolo i loro santuari: si può ben dire che gli eroi, esseri sacri sparsi nel mondo, che avevano il compito di rendere meno inavvicinabile la barriera tra l’umano e il divino, furono messi a tacere, ma prontamente sostituiti con altri che ne occuparono il posto nel cuore del popolo.
Quando la Chiesa iniziò, con le buone o le cattive, a cristianizzare le masse che sin dalle origini dell’agricoltura erano abituate a pensare in termini di magia, di prodigi e di ciclo delle vegetazioni, ammise nel suo sistema, o almeno tollerò, credenze arcaiche e con esse incluse prerogative e usanze che un tempo erano state di dèi, eroi e demoni pagani.
In vari casi si può individuare la continuità fisica tra eroe (o dio) pagano e santo cristiano, particolarmente nei casi in cui il luogo di culto dei primi venne risacralizzato divenendo il santuario dei secondi, come per esempio accadde nel 351, quando il cesare Gallo, nipote dell’imperatore Costanzo, fece trasportare il corpo di san Babila nel sobborgo di Dafne, vicino ad Antiochia, dove sorgeva un oracolo pagano che venne soppresso.
Tali trasformazioni sono quasi la norma laddove i culti pagani possedevano un rilievo terapeutico; in questi luoghi, i santi taumaturghi cristiani, dopo aver scacciato i loro predecessori, s’insediarono tranquillamente al loro posto come guaritori.
Lungo una baia nei pressi di Alessandria d’Egitto, alla fine dell’antichità, sorgeva un santuario molto venerato, dove giacevano le reliquie dei santi Ciro e Giovanni. Scomparso il tempio, restò il nome: il luogo fu detto Abukir, da Abbas Kyr, «il monaco Ciro».
La particolarità di questo santuario era costituita dal fatto che vi si praticava l’antichissimo rituale dell’incubazione, certamente di origine pregreca, durante il quale i fedeli venivano a dormire nel tempio per vedere in sogno i due pietosi santi e ottenere da loro una prodigiosa guarigione a mali che la medicina non era capace di curare.
Attorno a miracoli di questo tipo, in epoca pagana, esisteva un genere letterario specifico, l’aretalogia, che celebrava le virtù della divinità venerata nel tempio. A diffonderlo erano i sacerdoti locali, che affidavano alla scrittura il ricordo dei prodigi compiuti dall’eroe o dal dio: un esempio interessante è costituito dal resoconto dei miracoli compiuti da Asclepio, la divinità guaritrice di Epidauro. Questa città fu per tutta l’antichità, sino alla chiusura del santuario verso la fine del IV secolo, il centro del suo culto: una «Lourdes pagana» nella quale convergevano folle d’infelici in cerca di miracoli. Numerosi ex voto, trovati negli scavi, dimostrano che guarigioni avvenivano effettivamente e di varie decine di esse resta anche la cronaca – intitolata Le guarigioni di Apollo e Asclepio – che fu incisa su alcune steli davanti al santuario. Due di esse sono state recuperate, nel luogo stesso in cui Pausania le aveva viste. Sono piccole storie di piccola gente, che crede fermamente in Asclepio, va a dormire nel suo tempio, e la mattina dopo «si allontana guarita»:
Eufane di Epidauro, bambino, soffriva di calcoli. Venne a dormire nel tempio e sognò che il dio gli diceva: Che mi darai se ti guarirò? Dieci dadi! Rispose il piccolo. Il dio sorrise e promise di guarirlo. Il giorno dopo si allontanò guarito [...] Ambrosia di Atene, malata a un occhio. Passando per il santuario si faceva beffe degli ex voto. Cose impossibili: zoppi e ciechi risanati solo per avere visto un sogno! Messasi a dormire, sognò che il dio le diceva: Ti guarirò, ma dato che sei incredula dovrai dedicare nel tempio una porcellina d’argento, come pena della tua stoltezza. Poi le versò nell’occhio una medicina. Il giorno dopo si allontanò guarita [...] Ermodico di Lampsaco, paralitico. Andò a dormire nel tempio e il dio lo guarì, poi gli ordinò di prendere la pietra più grande che poteva e portarla davanti al tempio. Ed egli la portò ed ancora oggi il macigno sta davanti al tempio. (Cronache di Epidauro, racconti 8, 4, 15)
Ad Abukir le guarigioni non avvenivano per grazia di Asclepio, ma dei pietosi santi Ciro e Giovanni; a descrivere questi prodigi fu un testimone di grande prestigio, il vescovo Sofronio, che nel VII secolo era patriarca di Gerusalemme, e in questa veste consegnò le chiavi della Città Santa al vittorioso Omar.
Ciro e Giovanni furono decapitati durante la persecuzione di Diocleziano; poco più di un secolo più tardi, sotto il regno di Teodosio II, il patriarca Cirillo (il mandante del linciaggio di Ipazia) fece traslare solennemente i loro corpi, sepolti ad Alessandria, nel villaggio di Menouthis dove sarebbe poi sorto il loro santuario. Quel luogo prendeva nome da un demone egiziano, che era lì venerato in forma di donna e compiva miracoli, profetizzando e guarendo infermi; all’arrivo della processione con i corpi dei martiri il demone si volatilizzò istantaneamente e il luogo in cui sorgeva il santuario venne distrutto e riconsacrato come tempio dei santi guaritori, che risanavano sì, ma in nome di Dio e non del demonio. Come scrive Sofronio, i sacerdoti di Menouthis si convertirono istantaneamente, e il santuario in cui il demone appariva in sogno fu sepolto sotto un gran tumulo di sabbia.
I santi di Abukir erano pietosi, ma non troppo mansueti. A volte si adiravano ed erano capaci di dispetti e punizioni. Guarivano i fedeli, ma castigavano gli increduli; costringevano i malati a riconoscere la fragilità del loro corpo, ma infine prodigavano la loro pietosa consolazione.
L’uso tutto pagano dell’incubazione, strettamente legata al culto eroico, si travasò direttamente nelle pratiche cristiane del culto dei santi: furono loro, cacciati gli idoli, a prendersi cura della salute dei fedeli apparendo in sogno.
Gli esempi dell’incubazione cristiana si allargano innumerevoli nei secoli del medioevo. A Noyon, in Francia, i miracoli fiorivano sul sepolcro di sant’Eligio che appariva in sogno ai fedeli; a Tours, il luogo delle salvifiche apparizioni era la tomba di san Martino. Si racconta anche che Carlo Martello, febbricitante, vide in sogno san Massimino, la cui tomba era venerata a Treviri, che lo invitò ad andare a dormire sul suo sepolcro; lì il santo gli comparve nuovamente in sogno, la notte successiva, e lo risanò. Nel mondo bizantino compivano miracoli incubatori, oltre a Tecla, Ciro e Giovanni, di cui abbiamo già detto, san Michele arcangelo a Costantinopoli, e soprattutto Cosma e Damiano, i santi medici per eccellenza, in vari luoghi della Cristianità. Un altro era Teraponte, vescovo di Cipro, dove era venerato come santo guaritore. Quando Cipro fu conquistata dai Saraceni, gli abitanti in fuga portarono con sé le reliquie del santo che, traslato in una chiesa di Costantinopoli, continuò imperturbabilmente a comparire in sogno ai pellegrini e a risanarli (come si legge in un anonimo Encomio del santo martire Teraponte, che contiene la descrizione di alcuni suoi miracoli incubatori).
Esiste anche una continuità psicologica nella personalità di questi esseri straordinari.
Sia l’eroe del mito greco che il santo della fede cristiana sono modelli cui l’umanità comune è chiamata a ispirarsi. Entrambi continuano a permanere nella memoria di un popolo, stanno al centro di un mito: con questo non intendo dire che al mito degli eroi corrisponde l’agiografia dei santi, anche se per certi aspetti questo può essere vero. Piuttosto, è mitico lo spirito con cui queste figure vivono nella memoria collettiva. Le vite medievali dei santi utilizzano temi e situazioni del tutto simili a quelle del mito eroico; le leggende di eroi e santoni pagani affondano le radici nello stesso terreno comune da cui gli agiografi ricavarono la materia per scrivere le loro «leggende agiografiche» (come vengono discretamente chiamate) che venivano lette e diffuse pubblicamente in occasione delle feste del martirologio.
Il veicolo di questa continuità è il racconto, e più precisamente il racconto affidato all’oralità. Gli agiografi cristiani appaiono eredi dei rapsodi greci: come il ricordo delle gesta eroiche era affidato alla voce dei cantori che recitavano davanti alla comunità riunita degli ascoltatori nelle città e nei villaggi, trasmettendo con i loro versi la memoria identitaria di un popolo affidato alle gesta gloriose di antichi uomini, così i sacerdoti e i presbiteri del Cristianesimo primitivo nelle occasioni solenni pronunciavano l’elogio del santo nell’anniversario della sua morte, e ne raccontavano le vite e i miracoli romanzati, parlando al popolo convenuto per la commemorazione del suo passaggio in cielo. Circolavano Atti e Passioni apocrife dei martiri, resoconti di miracoli e prodigi, in gran parte storie fittizie. La passio del martire, quando viene letta pubblicamente (come frequentemente avveniva) esattamente come nel caso dei cantori degli antichi eroi introduce nel tempo dell’ascoltatore il mondo sacro del Vangelo e quello dei primi eroi cristiani, cosicché – per usare le parole di Peter Brown – «la lettura delle gesta dei santi apriva una breccia ulteriore nel muro di carta che separava il passato dal presente».
Santi ed eroi rappresentano un tempo originario, in cui fu fondata una realtà che si proietta sino al presente, e furono compiute imprese che da allora l’umanità comune si sforza di ripetere. Essi sono, per così dire, entrambi «eroi culturali», perché civilizzano il mondo in cui vivono, fondando città oppure monasteri, uccidendo mostri o scacciando demoni, vagando per la terra e rendendosi famosi con le loro gesta; dopo il loro passaggio, si crea per sempre una nuova realtà, fondativa del presente. Eracle, Cadmo e Perseo uccidono draghi, come san Giorgio, o come Antonio che nel deserto abbatte la forza del Maligno. Simili personaggi purificano il mondo e rendono la terra più degna di essere abitata, eliminando i simboli del male.
In questa sfida, eroi e santi sono eccessivi, a volte crudeli, sempre inflessibili, non solo perché possiedono poteri e qualità superumane, ma anche perché nella loro natura si manifestano elementi di squilibrio e rottura. Spesso sono violenti, tormentati, spingono i loro comportamenti oltre i limiti dell’umano, tutti presi dal loro ardore di sfida.
Visioni, profezie, guarigioni prodigiose, belve ammansite, demoni sconfitti, elementi novellistici e romanzeschi, sono ingredienti quasi immancabili nelle agiografie scritte a edificazione delle masse, dove intervengono a spezzare la trama biografica, alla quale si sovrappongono e si frammischiano. L’eroe greco viaggia, supera prove, uccide mostri, fonda città; ma anche il santo è spesso un nomade, oppure un essere che vive in luoghi isolati e selvaggi, un uomo che mette in fuga il vero e unico mostro, il Demonio, oppure il demonio interiore che ha dentro di sé e che si oppone alla sua salvezza.
Egli è un modello, un vero eroe; niente può essergli vietato, poiché dietro di lui opera invincibile lo spirito di Dio. L’eroe greco, in paragone, è più isolato: si misura con le sue sole forze, anche se generalmente viene pure soccorso dalla protezione divina, che l’aiuta sì, ma non pervade veramente la sua natura. Perseo tagliò la testa della Gorgone dopo averla raggiunta ai confini del mondo, ma a guidare la sua mano era stata Atena. Eracle vagò per la terra, come un Wanderer, rendendola più civile. Come Giona (e più tardi san Brandano) scese anch’egli nel ventre della balena; questo avvenne quando un serpente marino, devastata la Troade, arrivò per divorare Esione, figlia dell’empio re Laomedonte, esposta ai suoi denti come punizione. Eracle si fece trovare sulla spiaggia e osò entrare nella gola del mostro. Stette lì tre giorni spaccando e devastando tutto dentro il ventre dell’animale, sinché lo uccise. Poi risalì e uscì dalla sua bocca: si diceva che quando tornò alla luce, come resuscitato, avesse perso tutti i capelli.
La follia è pure un tipico tema eroico: spesso gli eroi greci impazziscono, spinti dalla loro natura eccessiva oppure dagli dèi che ne prendono possesso. La follia fa parte di quella che Angelo Brelich chiamava «violenza eroica», la quale a sua volta è insita nella natura straordinaria dell’eroe. Folle fu il principe degli eroi, Eracle, che in un accesso di delirio furioso uccise i suoi figli, e come lui altri eroi ed eroine: Cassandra profetizzava in stato di trance; Agave folle fece a pezzi suo figlio Penteo; Oreste fu perseguitato dalle Erinni della madre; Aiace impazzì in una notte e si suicidò per il dolore. Dietro questa follia ci sono gli dèi punitori: è una follia sacra, e talvolta (come nel caso di Oreste) una via di redenzione. Nella follia si percepisce una parte del divino, come nella danza estatica delle Menadi attorno al loro Dioniso.
La nozione che la follia sia l’espressione dello spirito di Dio si trova ben presente nel Cristianesimo primitivo: basterebbe ricordare la testimonianza di Paolo sulle comunità cristiane primitive, in cui la presenza del soffio divino si manifestava in tanti modi: nel dono delle lingue, nell’estasi, nella letizia visionaria dei fedeli che percepivano accanto a loro lo spirito di Cristo e se ne facevano invadere.
Folli furono alcuni santi, che in questo delirio lasciano percepire la forza del soffio divino. L’agiografia dei primi secoli bizantini in particolare racconta la vita di alcuni di questi «santi folli», come Simeone Salos («il matto») o Andrea, al quale una figura celestiale comparve in una visione, dicendogli: «diventa folle per causa mia e di molte belle cose ti farò partecipe nel Regno dei Cieli». Questi monaci pazzi giravano seminudi per le città, si mescolavano a prostitute e gentaglia, derisi dai bambini, loro stessi quasi gaglioffi e marioli, avevano comportamenti bizzarri eppure convertivano e compivano miracoli. La tradizione del «folle di Dio» si perpetua in particolare nel Cristianesimo ortodosso, specialmente quello slavo.
I cristiani dei primi secoli erano convinti che i templi degli dèi pagani e le tombe dei loro eroi non fossero luoghi vuoti, ma contenessero presenze reali e funeste, i demoni, la vera fonte del contagio, le creature attraverso cui s’era diffuso nel mondo il male che i seguaci di Cristo avevano il compito di combattere e sradicare.
In questo i cristiani potevano trovare alimento in alcuni aspetti tipici dell’eroe greco. Un eroe non è «buono» nel senso etico del termine, tanto meno in prospettiva cristiana. Egli non porge l’altra guancia, ma è una creatura premorale, a volte torbida: Edipo ne è un perfetto esempio, lui che uccise il padre e sposò la madre, ma anche Oreste fu matricida e Medea massacrò il fratello e poi i suoi stessi figli. Agli eroi si potrebbero adattare le parole che uno dei primi critici della religione tradizionale, Senofane di Colofone, applicò agli dèi del suo popolo: tutto ciò che per gli uomini è onta e disonore, uccidere, commettere violenza e adulterio, essi empiamente l’attribuiscono agli dèi.
Se questo vale per gli eroi maggiori, tanto più si applica a figure locali, come il cosiddetto «eroe di Temesa», prototipo del lupo mannaro, un oscuro demone implacato che in una cittadina affacciata sullo Ionio esigeva sacrifici umani di fanciulle, sinché un altro eroe, Eutimo di Locri, che era un famoso pugilatore, lo affrontò e lo costrinse a fuggire in mare (era, dice Pausania, nero come la notte; come i demoni messi in fuga dagli esorcismi dei santi che saranno dipinti dai pittori medievali); oppure all’«eroe Oreste» di cui parla Aristofane, che si credeva assalisse i viandanti nella notte; oppure agli eroi ai quali (come dice Ippocrate nel trattato Sulla malattia sacra) la voce popolare attribuiva lo scatenamento della follia, quando prendevano possesso dei corpi.
Questa doppia natura è un dato caratteristico della concezione religiosa greca per la quale i due estremi del sacro, l’impuro e il santo, finiscono per toccarsi e confondersi, e sono difatti espressi in un’unica, ambivalente parola, l’aggettivo che nella sua forma neutra suona àghion. Àghion è (probabilmente) connesso con àgos, impurità, e si applica a ciò che è pericoloso toccare, quasi come una sorta di tabù; la parola che nel greco tardo viene applicata alla figura sacra del Cristianesimo, il «santo», è appunto àghios.
Si tratta di un’idea profonda del pensiero religioso, e non soltanto greco; secondo questo modo di pensare (come diceva Jean-Pierre Vernant) la purezza si misura dalla quantità e dal rigore dei divieti che proteggono il luogo, o l’oggetto sacro, al punto che puro e impuro finiscono per confondersi. Puro è ciò con cui non si può entrare in contatto, e allo stesso modo da ciò che è impuro bisogna stare lontani. Puro e impuro sono entrambi una barriera da non sorpassare, un luogo oltre il quale si spalanca il mistero.
La morte è la cosa più impura, ma ciò che la rappresenta concretamente, non nel suo venire, bensì nel suo permanere, vale a dire un corpo disfatto o cremato, può diventare sacro e sacralizzare a sua volta il luogo in cui sta.
La distanza siderale tra la divinità e il fragile mondo è in qualche modo attenuata da queste presenze, che avvicinano il mistero del divino alla coscienza dell’umanità comune. Laddove c’è il sepolcro di un santo emergono forme di devozione popolare, ma anche di pensiero religioso, che esprimono modi di sentire religioso talvolta straordinariamente arcaico.
Che dire, per esempio, di san Guinefort, di cui parlano alcuni predicatori francesi, la cui tomba sorgeva nei pressi di un villaggio chiamato Noville, nella diocesi di Lione? La leggenda diceva che un tempo un enorme serpente si era insinuato nella stanza dove dormiva il figlio neonato del feudatario di quel luogo. Il fedele levriero del feudatario, che custodiva la culla, lo affrontò e lo uccise dopo una terribile lotta. Il signore del castello, accorso, vide che la cuna era imbrattata del sangue del serpente e pensò che il cane avesse attaccato suo figlio. Allora, senza riflettere oltre, sguainò la spada e lo uccise. Subito dopo capì quanto era realmente accaduto e dolendosi di avere ucciso il fedele cane, che aveva eroicamente salvato suo figlio, lo seppellì davanti al castello, sotto un enorme mucchio di pietre, piantandovi attorno degli alberi per onorare il nobile animale. Questa era la leggenda che si raccontava, connessa peraltro a un rituale popolare di origine pagana: i contadini del luogo, infatti, andavano a pregare su quella tomba, venerando il cane come un santo (da cui il nome di Saint Cynefore o Guinefort). Erano soprattutto le donne ad andare in pellegrinaggio sulla tomba, portando offerte: piantavano chiodi negli alberi che vi crescevano, appendevano ai rami le fasce dei bambini, facevano passare i neonati nudi tra i tronchi di quelle piante perché il santo canino li proteggesse e li rinforzasse. I predicatori dell’epoca si accanivano contro questo culto, ben consapevoli della sua natura pagana, ma nondimeno esso continuava a essere praticato.
Guinefort non è il solo santo canino di cui si abbia memoria: nell’iconografia sia occidentale che orientale compaiono altri santi cinocefali, come san Cristoforo. È possibile che nella tradizione cristiana i santi canini abbiano un’origine biblica; nel libro di Tobia, il protagonista è accompagnato da un cane, che si rivelerà poi essere l’angelo Gabriele e che nella tradizione medievale viene santificato in questa forma.
Una tomba canina consacrata è retaggio di schemi di pensiero molto arcaici; un sepolcro di questo genere si scorgeva sull’Ellesponto, in un luogo detto appunto Cinossema, «Tomba del cane». Lì, si diceva, era sepolta l’infelice Ecuba, la regina di Troia, che dopo la conquista della città, mentre era portata schiava sulla nave di Ulisse, angosciata per la morte di tutti i suoi figli, si era gettata in mare e cadendo era diventata cagna. Il corpo canino era stato trasportato dalle onde in quel luogo e ivi sepolto, e come ad altri eroi ed eroine sul suo tumulo si versavano offerte.
L’impasto, molto complesso e vario, di credenze e rituali che circondano i culti degli eroi forma un sistema che sfuggì a ogni controllo da parte di una teologia costituita o di una gerarchia religiosa. Come il vescovo Cirillo scacciò la demonessa Menouthis, insediando al suo posto i pii martiri guaritori, così il complesso dell’immaginario collettivo – alto e basso, letterario e orale, fatto di racconti, forme iconografiche, opere poetiche, tradizioni folkloriche che scavalcano il tempo e hanno la mimetica capacità di mutare forma rimanendo nel fondo le stesse – scacciò all’inizio del medioevo gli eroi pagani ma collocò al loro posto i santi, ormai anch’essi diventati personaggi mitici.
Dal punto di vista storico, il culto degli eroi si sviluppò come fenomeno politico. Ogni polis aveva bisogno dei suoi eroi. Popolare il territorio di presenze sacre e inglobare al proprio interno le figure esemplari del mito significava appropriarsi del passato e consolidare le fondamenta della vita civile in un culto condiviso, sentendo che la vita di ogni giorno si svolge in un solco che senza interruzioni riconduce alle proprie radici, e che il passato ritorna sul presente, protettivo e rassicurante.
L’idea che esseri sacri accompagnino l’operare degli uomini è molto antica, nella storia delle credenze religiose, anzi tanto arcaica che si può dire faccia parte di un universale dello spirito religioso. I primi antropologi (come Frazer) erano così affascinati da questo concetto, nello stesso tempo ancestrale e onnipresente, da ritenerlo estraneo alla cultura religiosa più evoluta. Al contrario, si tratta di una necessità psicologica che fa parte del Dna del pensiero religioso; essa si fonda, più che su una teologia definita, sul sentimento che gli avi, che inaugurarono alle origini dei tempi un modo d’essere civile, sono ancora lì, viventi. Che il loro corpo non è un’entità finita per sempre, ma custodisce, proprio per il fatto di essere corpo conservato in un territorio amico, qualche aspetto della vita, anzi una forma di più-vita, al punto che la fragile esistenza della società umana viene rinforzata dalla loro tutela. Ciò che colpisce nell’osservare il culto degli eroi greci è appunto la vicinanza nella materia, più che nello spirito; ed è sorprendente constatare come il corpo eroico, o la sua versione cristiana che è il corpo santo, sacralizzi i luoghi attorno a sé e come le forme reali della religione popolare – il flusso naturale, e si direbbe universale, del sentire religioso – si manifestino in modi sostanzialmente simili.
La potenza misteriosa del sacro ha bisogno di rendersi percepibile qui e ora attraverso le energie che emanano dalle reliquie, attraverso la volontà, e a volte il fanatismo, di credere che ciò che è morto è ancora vivo e operante in quello che ancora resta di un essere straordinario.
Sulle origini del culto dei santi sono ancora utili i libri del padre bollandista H. Delehaye, Les légendes hagiographiques, Société des Bollandistes, Bruxelles 1905; Les origines du culte des martyrs, Société des Bollandistes, Bruxelles 1912; Les passions des martyrs et les genres littéraires, Société des Bollandistes, Bruxelles 1921. Inoltre, P. Brown, Il culto dei santi. Origine e diffusione di una nuova religiosità, Einaudi, Torino 1983; S. Barnay, Les Saints. Des êtres de chair et de ciel, Gallimard, Paris 2004.
Sul rapporto tra santi ed eroi, tra l’altro: A.D. Nock, The Cult of Heroes, in Id., Essays on Religion and the Ancient World, Clarendon Press, Oxford 1972, vol. II, pp. 575-602. Il libro di riferimento sugli eroi greci è A. Brelich, Gli eroi greci: un problema storico-religioso, Adelphi, Milano 2010 (ed. or. 1958); il punto di partenza sul culto dei morti e degli eroi rimane comunque E. Rohde, Psiche, Laterza, Roma-Bari 2006 (ed. or. 1914-1916). Inoltre, L.R. Farnell, Greek Hero Cults and Ideas of Immortality, Clarendon Press, Oxford 1921; P.F. Foucart, Le culte des héros chez les Grecs, Imprimerie Nationale, Paris 1918; C.M. Antonaccio, An Archaeology of Ancestors: Tomb and Hero Cult in Early Greece, Rowman & Littlefield, Lanham (MD) 1995; per le pratiche sacrificali connesse alla venerazione degli eroi G. Ekroth, The Sacrificial Rituals of Greek Hero-Cults, in «Kernos», Supplément 12, Liège 2002. Sulle eroine J. Larson, Greek Heroine Cults, University of Wisconsin Press, Madison 1995; D. Lyons, Gender and Immortality: Heroines in Ancient Greek Myth and Cult, Princeton University Press, Princeton 1997.
Egeria (o Eteria) d’Aquitania compì i suoi pellegrinaggi per i luoghi santi della Cristianità verso la fine del IV secolo; il suo resoconto (Peregrinatio Aetheriae o Itinerarium Aegeriae) era conservato in un manoscritto cassinense, ritrovato verso la fine del XIX secolo; ne esistono varie traduzioni italiane, tra cui Egeria, Diario di viaggio, Edizioni Paoline, Milano 2006; Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, Città Nuova, Roma 2008.
Le vicende romanzate di santa Tecla furono narrate nel corso del II secolo da un presbitero cristiano: si trattava di un palese falso, smascherato dagli stessi cristiani (come assicura Tertulliano, De baptismo adversus Quintillam, 17, 5) e costruito sui modelli del coevo romanzo profano. Gli Acta Pauli et Theclae (che ebbero comunque immensa diffusione) sono inclusi tra gli Atti apocrifi. Più tardi il vescovo Basilio di Seleucia scrisse in greco due libri sulla Vita e miracoli di santa Tecla (edizione moderna a cura di G. Dagron, Vie et miracles de sainte Thècle, Société des Bollandistes, Bruxelles 1978).
Sulla cristianizzazione del tardo impero P. Veyne, Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394), Garzanti, Milano 2008.
Sui miracoli incubatori cristiani R. Deubner, De incubatione, B.G. Teubner, Leipzig 1900; sull’incubazione di Asclepio (ivi compresi i Miracoli di Apollo e Asclepio) si può utilizzare l’ampia raccolta complessiva di L. ed E. Edelstein, Asclepius, 2 voll., Arno Press, New York 1975, e inoltre M. Girone, Iamata. Guarigioni miracolose di Asclepio in testi epigrafici, Levante, Bari 1998. I miracoli incubatori dei santi Ciro e Giovanni, narrati dal patriarca Sofronio, sono pubblicati da N. Fernández Marcos, Los Thaumata de Sofronio. Contribución al estudio de la Incubatio Cristiana, Instituto Antonio de Nebrija, Madrid 1975.
Per i miti eroici Il mito greco, a cura di G. Guidorizzi, vol. II, Gli eroi, Mondadori, Milano 2012.
Sui santi folli vedi I santi folli di Bisanzio, a cura di P. Cesaretti, Mondadori, Milano 1990.
Sull’eroe di Temesa (la cui storia è narrata principalmente da Pausania, VI, 6, 7-10) cfr. M. Visintin, La vergine e l’eroe, Edipuglia, Bari 1992.
Sulla nozione di sacro e impuro, cfr. J.-P. Vernant, Il puro e l’impuro, in Id., Mito e società nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1981, pp. 115-134; anche R. Parker, Miasma. Pollution and Purification in Early Greek Religion, Clarendon Press, Oxford 1983.
Sul levriero Guinefort vedi J.-C. Schmitt, Il santo levriero. Guinefort guaritore di bambini, Einaudi, Torino 1982.
1 Qui e nelle note bibliografiche dei capitoli successivi, dei volumi in italiano più volte ristampati sono indicate le edizioni più recenti.