II. Eroi cristiani: santi, cavalieri, eroine

Questo libro parla di eroi e di santi ma su quest’ultima definizione conviene intenderci. Santo è oggi un termine equivoco, e anche nel passato il significato della parola non è sempre stato lo stesso.

Gli antichi romani definivano santi uomini e cose: i santuari e le porte della città, i magistrati e i veggenti, ma anche una persona eminente per virtù. L’imperatore era per definizione «santissimo». Le epigrafi ci testimoniano con molti esempi che santa è anche la memoria delle virtù famigliari: santo è dunque l’antenato.

Nei testi della Bibbia tradotta in latino è chiamato santo tutto ciò che è connesso a Dio: il tempio, le offerte e la vittima del sacrificio, la terra dove brucia il Roveto Ardente di Mosè, il popolo eletto. Dice il Signore (Lv 11, 44): «Siate santi perché Io, il Dio vostro, sono santo».

Santi nel Vangelo sono anche gli apostoli, ma solo Cristo è il Santo e da questo modello insuperabile ed esemplare ha inizio la definizione di santità che la Chiesa medievale attribuiva ai martiri, quei fedeli che testimoniavano con la vita la verità del Cristo e della nuova fede.

Ma già Clemente di Alessandria giudicava che una vita devota a Dio e obbediente ai suoi comandamenti fosse pari per dignità santa a quella dei martiri, e a cominciare dal V secolo le comunità dei fedeli celebravano – poco dopo la morte – come nuovi santi i loro virtuosi e potenti vescovi che avevano protetto le città, quali Ambrogio a Milano e Martino a Tours: la loro intensa dedizione alla causa del Cristo e del suo popolo li parificava ai martiri vittime delle persecuzioni pagane. Molti di questi martiri e dei santi tali per riconoscimento del popolo dei fedeli posseggono – come abbiamo visto – caratteristiche proprie dell’eroe antico: coraggio, un corpo in sé glorioso e singolari poteri che persistono talvolta oltre la morte e, soprattutto, percezione della vita come una lunga battaglia. Al pari degli eroi, essi nutrono un vivo sentimento di alleanza e protezione verso il loro popolo, operano prodigi, civilizzano terre e combattono contro il male, rappresentato spesso, per la gente cristiana come per gli antichi, da mostri e draghi oltre che da guerre e calamità naturali spaventose (tempeste, epidemie devastanti, carestie...).

I santi, veri guerrieri, spesso danno battaglia e si accaniscono anche contro mali invisibili e interiori, come la sofferenza del rimorso o la tentazione. I serpenti sibilano nella mente di Antonio nel deserto e i draghi dei santi cavalieri abitano soprattutto nel loro cuore («il drago è dappertutto», dice Merlino).

Nasce così una mitologia complessa che conserva molti elementi arcaici, come la generosità per gli umani più deboli, la presenza di un clima prodigioso, il segreto di una forza sovrannaturale ma soggetta alla morte, un superpotere che si combina con i nuovi valori cristiani come l’umiltà, la mitezza, la solidarietà con i poveri e persino il pentimento.

In molti santi canonizzati dai pontefici dopo il Mille, secondo nuove e uniformi regole, possiamo ritrovare queste virtù che tuttavia passano in secondo piano e impallidiscono a confronto della virtù che non può mancare: l’obbedienza alla Chiesa di Roma, che il riconoscimento papale sottolinea e impone sopra ogni altra.

Per rintracciare i segni dell’eroe antico disegnando una linea continua ho guardato quindi più attentamente ai santi dei primi secoli, acclamati dal loro popolo immediatamente dopo la morte (i «santi subito»), santi dominanti un territorio, un regno o una città, veri eroi o «atleti di Cristo» (così vengono chiamati in alcune celebri Vite): feriti, resistono; richiesti, intervengono a favore dei popoli; messi alla prova, l’affrontano arrivando a scegliere la morte. Sì, perché i santi – come gli eroi e al pari degli uomini comuni, ma diversamente dagli dèi – muoiono.

La morte, sempre terribilmente uguale in se stessa, è percepita e rappresentata dai primi cristiani in modo differente da come la vedevano sia gli antichi sia coloro che vivranno nei secoli medievali. A una morte immaginata come un lungo sonno e per questo accettata serenamente, si sostituirà gradualmente una visione più drammatica del trapasso, dove nell’immaginario la separazione lacerante dell’anima dal corpo sarà sempre più legata al momento temibile del Giudizio e a fantasie terribili e dolorose.

Ma torniamo ai primi santi, quei martiri e quegli asceti, eremiti, vescovi e monaci che consideravano la fine della vita non una separazione definitiva dal mondo dei vivi ma una «seconda vita»: la loro morte stabilisce una nuova relazione con chi rimane, quasi un’alleanza con i viventi che militano ancora nel mondo per la fede.

Agostino, nella sua carica di vescovo di Ippona, si era preoccupato della relazione che i vivi dovevano intrattenere con i morti (De cura pro mortuis gerenda), ma nella realtà le usanze della consuetudine pagana – pur trasformandosi lentamente – resistevano all’interno del popolo dei cristiani. I costumi precedenti venivano in gran parte tollerati: gli oggetti cari in vita al defunto deposti nelle tombe cristiane dei primi secoli testimoniano che spesso la conversione alla nuova fede non aveva imposto l’abbandono dell’antica pietas pagana. Agli occhi della Chiesa erano tuttavia pratiche che non potevano aiutare in alcun modo i defunti, cancellando o mitigando il peso dei loro peccati e quindi le pene da patire nell’aldilà. Questo era il compito che la Chiesa affidava alla preghiera e soprattutto alla celebrazione del sacrificio eucaristico (che rimanevano di sua competenza).

Ma i santi erano morti speciali e in certo modo opposti agli altri defunti, dei quali la comunità si prendeva cura con il ricordo e i riti intesi ad abbreviare le pene imposte dal Giudizio. Al contrario, anche dopo la loro scomparsa da questo mondo, i santi sono sempre pronti con i loro superpoteri a proteggere la comunità dei fedeli e alleviare le loro pene e difficoltà. Santa Genoveffa per secoli allontana gli eserciti dei nemici e le epidemie da Parigi, la sua amata città; e così pure agiscono Nicola di Bari, che dal suo sepolcro guarisce i ciechi e gli storpi che vi si recano in preghiera, e Luigi di Francia, che dalla tomba regale estende il suo potere a beneficio e protezione dei sudditi del suo regno.

Attraverso il culto dei santi e la commovente continua richiesta, da parte dei viventi, del loro aiuto per affrontare le difficoltà della dura esistenza, il confine fra la città dei vivi e quella dei morti, fra il passato e la vita presente, si attenua e quasi si cancella, in una prospettiva di condivisione della condizione umana e di compassione reciproca.

Nell’Occidente cristiano ritroviamo molti tratti dell’eroe del mito antico, oltre che nel santo, anche nel protagonista di romanzi e leggende: il cavaliere.

Artù, il re cavaliere e sovrano di splendidi cavalieri, nelle varie versioni del racconto impersona molti caratteri: è un re cristiano che combatte i Sassoni, un prodigioso guerriero free lance, poi un re prescelto, irresistibilmente vittorioso e acclamato dal popolo grazie alla magica spada Excalibur strappata alla roccia, ma anche un uomo fragile, innamorato e tradito. Soprattutto, Artù è un eroe civilizzatore in cui rivivono motivi dell’antico mito indoeuropeo.

Nei secoli il personaggio Artù ha attraversato in vari contesti, dalla Historia Brittonum del IX secolo fino all’incantevole cartoon di Walt Disney, l’immaginario collettivo e poetico, suggerendo e rispondendo volta a volta a differenti desideri, ideali e bisogni profondi.

L’immaginario, patrimonio culturale di un popolo, si distingue ma non si oppone all’esperienza del reale vissuto e riunisce un insieme di rappresentazioni che provengono anche dall’esperienza storica. Pur facendo parte del campo della rappresentazione, l’immaginario non è la semplice trasposizione di immagini nella mente, ma la loro potente «traduzione» creatrice e poetica. «In questo spazio – scrive Le Goff – nascono e si alimentano i miti e le civiltà trasformano il reale in visioni appassionate della mente», animate in modo misterioso e spontaneo dalla cultura e dalla mentalità di un popolo. In questo senso l’immaginario è profondamente storico, ma non solo storico e per questo capace di ambientare i nostri sogni.

L’eroe si muove nell’immaginario, fra storia e mito, e poiché le culture non si sviluppano separatamente ma comunicano fra loro anche in modo sotterraneo (non sempre evidente nelle ricerche degli storici), i segni dell’eroe riaffiorano in tempi diversi, con connotati simili e soprattutto funzioni analoghe.

In questa prospettiva, non dissimile dal santo guerriero dei primi secoli cristiani si disegna il cavaliere dei romanzi come Artù.

Delle gesta di Artù, tramandate oralmente per secoli, narra anche la Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, dove Artù diventa un re di sangue misto – discendente dal romano Bruto, giunto secoli prima in Britannia – grande conquistatore di terre (fino ai Pirenei!) e uccisore di giganti, draghi e mostri.

La figura e le gesta si ampliano e complicano nella «matière de Bretagne», lo spazio letterario più ricco e importante della cultura medievale: Artù attira e raccoglie alla sua corte altri personaggi come Galvano, Perceval e Lancillotto, amante della regina Ginevra; agisce con i suoi cavalieri al centro di fatti e luoghi meravigliosi; dà vita all’utopia della Tavola Rotonda, al sogno del castello di Camelot e alla ricerca del Graal.

Excalibur, la pesante spada che solo Artù è in grado di reggere, è essa stessa – proprio come Gioiosa di Carlomagno e Durlindana di Orlando – un personaggio che scompare quando il suo re muore, sepolta nelle acque del lago in attesa di un altro eroe capace di farla sua.

L’aspetto straordinario della leggenda arturiana è la sua capacità di assumere sempre nuovi sensi, attraversando tempi e culture diverse: Artù è prima re sacro, poi re guerriero, infine diventa il re «cortese» di Camelot, all’interno di un mito che accompagna e legittima la sua stessa storia (Camelot rappresenterà, millenni dopo, il «nome del sogno» negli anni dei Kennedy).

Il mito e i suoi significati vivono attraverso i tempi: La morte di Artù è cantata nel XV secolo da Thomas Malory; la musica di Il re Artù di Henry Purcell dimostra la sua presenza nel Seicento; la letteratura romantica ottocentesca si impadronisce delle avventure del re celtico e porta in primo piano il lato fragile, cupo e sentimentale dell’eroe adultero, incestuoso e tradito a sua volta dalla moglie Ginevra e da Lancillotto.

Infine la decima Musa fa rivivere ancora una volta le vicende arturiane e ci consegna con Bresson e Rohmer l’incanto di nuove emozioni, timori antichi e aspettative profonde che sbaglieremmo a credere perdute.

La qualità eroica delle sante cristiane si distingue per qualche aspetto da quella dei santi. Restringendo l’osservazione ai primi secoli cristiani non c’è dubbio che la santità femminile, più rara di quella virile, sia sovente più debole e pallida, rispecchiando, del resto, la reale condizione delle donne nella società del tempo. Nei racconti e nelle prediche, viene in luce delle donne sante soprattutto la gioventù e la fresca bellezza, sacrificata nel martirio e nell’ascesi: la tenerezza e la compassione si sostituiscono allora all’ammirazione rivolta al coraggio degli eroi della fede.

Questo non toglie che alcune sante – penso a Maddalena, Genoveffa, Radegonda e Perpetua – manifestino nella realtà una potenza e una determinazione tenace ed eroica pari a quella dei santi.

Aspetto, questo, che insieme al coraggio (virtù «virile» per definizione), ritorna in un’eroina più vicina a noi nel tempo, Caterina da Siena, che riprende nella sua vita la purezza limpida delle sante più antiche. Caterina è una santa nata dalla devozione appassionata e spontanea del popolo credente, canonizzata dalla Chiesa ottant’anni dopo la sua morte.

Nata in una famiglia numerosa e modesta a Siena, nell’attuale contrada dell’Oca, in quell’anno funesto che fu il 1347 – quando appaiono in Europa i primi orrendi segni della peste che farà milioni di vittime –, Caterina fino all’adolescenza vive nel chiuso della casa di famiglia, dove il suo comportamento caparbio e silenzioso preoccupa i genitori: mangia pochissimo, si dedica a dure pratiche ascetiche, si isola dalla vita familiare. A quindici anni si unisce al gruppo delle Mantellate, donne laiche e benestanti che sotto la guida dei domenicani, pur continuando a vivere in famiglia, praticavano un regime di vita religiosa e povera e prestavano quotidiana assistenza agli indigenti della città. Caterina adotta le loro regole con estremo fervore e senza nessuna prudenza: è giovanissima e bella e la sua dedizione totale alle opere di misericordia rivolta ai diseredati di ogni tipo desta sospetti e maldicenze fra le compagne. Vive una duplice vita: nel chiuso delle mura domestiche gioisce delle visioni divine talvolta violente e sempre inebrianti per la presenza vivida di un Cristo uomo sofferente e amoroso; fuori, percorre le strade della città e cura instancabilmente i derelitti e i malati, con quell’amore «che è uno e medesimo». «In quanta eccelentia sta l’anima in me e io in lei [...] come il pesce sta nel mare e il mare nel pesce così io sto nell’anima, mare pacifico» (Dialogo, par. 111). 

Altre donne di quei secoli – Margherita da Cortona, Umiliana de’ Cerchi, Angela da Foligno, tutte laiche come Caterina – avevano preannunciato l’espressione di una spiritualità tutta nuova: come lei avevano voluto e vissuto durissime penitenze e digiuni, praticato soccorso materiale e affettivo verso i poveri e gli ammalati, goduto visioni traboccanti felicità, rapimento e annullamento di sé nel divino.

Come Francesco d’Assisi, Caterina conosce Dio anche attraverso i lebbrosi e la povertà: nel Duecento l’esperienza religiosa oramai lontana dalla solennità e dalla solitudine contemplativa del monastero altomedievale era divenuta convivenza attiva e condivisione delle miserie e difficoltà del popolo della città, mentre il colloquio appassionato con il Cristo restava riservato a un tempo e a uno spazio personali e intimi. Scrive Claudio Leonardi: «Dopo Caterina lo spirituale dovrà sempre più rifugiarsi nel privato, apparire come un fatto che occorre velare perché straordinario e anche pericoloso per l’esperienza storica della Chiesa».

Quando nel 1370 Urbano lascia Roma per stabilirsi ad Avignone, Caterina ha una visione che riassume e innalza il messaggio delle precedenti: Cristo le apre il petto e sostituisce il cuore della donna con il suo. È il segno di una trasformazione mistica che trasmette a Caterina un’energia unica: guidata dal suo Dio interiore, la giovane donna esce dalla sua città natale e affronta il mondo e i potenti della terra con un linguaggio, una sapienza e un coraggio che lei stessa riconosce come «cose nuove». In questi dieci anni, gli ultimi della sua breve vita, avviene qualcosa di prodigioso: Caterina è riconosciuta come profeta e guida del popolo cristiano in un passaggio difficile, al pari di Mosè che aveva traghettato la sua gente attraverso il Mar Rosso. Fino allora il suo compito era stato «convertire i cuori», ma nell’ultimo decennio della vita Caterina vuole convertire e riformare la stessa Chiesa di Avignone, sottomessa non solo al potere dei re francesi ma segnata anche dalla «temporalità» e dalla lontananza dal Vangelo. Il pensiero di Caterina è lucido e veloce, il suo stile singolare anzi unico, ma come tante altre donne del suo tempo la giovane non sa scrivere e detta ad alcuni fedeli litterati della sua comunità le lettere indirizzate ai potenti e agli amici, scritti pieni di grida, ammonimenti e preghiere.

Nel 1374 i domenicani le assegnano come confessore e segretario personale Raimondo da Capua, forse anche con l’intento di controllarla. Fatalmente Raimondo subisce il suo fascino, diventa presto un suo devoto, la segue con fedeltà assoluta tanto che è Caterina a raccomandargli di esser più libero e staccarsi da tutti, anche da lei («anche da me»).

Caterina dunque scrive, predica, consiglia, viaggia in Italia, va fino ad Avignone e contribuisce a far nascere nel pontefice Gregorio XI la decisione di tornare a Roma. Ma due anni dopo, nel 1378, con l’avvento di un antipapa, l’unità della Chiesa si frantuma e Caterina assiste impotente e disperata alla rovina. 

Muore a Roma il 27 aprile del 1380. Nelle lettere di Caterina, dalla prima all’ultima, avvertiamo una corrente impetuosa di affettività, un senso straordinario della corporeità e di quella «dolcezza del cuore» che arriva talvolta a sconvolgerla. Quando il sangue del condannato, da lei convertito all’amore divino e alla pace, durante l’esecuzione capitale le macchia la veste e le invade i sensi e l’anima, scrive: «Riposto che fu, l’anima mia riposò in pace in tanto odore di sangue [...] che mi era venuto addosso di lui. Non voglio dire di più» (Lettera 273).

Una figura dunque complessa ed eloquente, quella di Caterina, lontana per certi aspetti dalle tacite eroine dolcemente umili dei primi secoli cristiani, ma simile a loro nella sua forza diretta e misteriosa, non tutta rintracciabile nella sua storia.

Come quello delle sante antiche, il corpo di Caterina diviene oggetto dopo la morte del furore amoroso dei fedeli che richiedono ancora una volta il suo potere benefico, rivolgendosi al corpo sepolto a Roma, alla testa e al dito della mano destra portati a Siena, al piede sinistro conservato a Venezia.

Ancor più a lungo di Caterina aspettò la santità canonica un’altra donna, Giovanna d’Arco, «fatta santa» cinque secoli dopo la sua morte.

Pur essendo un personaggio storico, è indiscutibile che Giovanna appartenga al mito: mai una santa cristiana indossò con tanto successo la corazza del guerriero ed entrò così vestita prima nell’immaginario di un medioevo al tramonto e poi, dopo una lunga eclisse, in quello della modernità, santa vitale anche se scomoda e travolta dalla retorica, attraverso l’ideologia nazionalista degli ultimi due secoli.

Nel suo tempo una voce di donna si alza a indicare in lei qualcosa di essenzialmente miracoloso, quasi estraneo al gioco politico e alle vicende della guerra. È la voce di Christine de Pizan, poetessa e scrittrice, che esulta: «Io Christine per la prima volta torno a sorridere dopo che per lungo tempo ho vissuto come in una gabbia e nel dolore come tutti nel regno; ma la stagione è cambiata e la Fortuna ritorna nella vita della Francia».

Il miracolo – aggiunge Christine – è tutto femminile.

Nel personaggio di Giovanna troviamo molti ingredienti tipici dell’eroe antico: la nascita in una modesta famiglia di contadini lorenesi forse nasconde un segreto – l’origine di bastarda della regina – e le sue gesta di liberatrice della Francia, in qualche modo incongrue per la sua età, sono rare nel suo sesso e perciò inspiegabili e prodigiose...

Le sue vittorie sugli inglesi sono un vero miracolo, pari a quelle di san Giorgio sugli infedeli, la sua difesa della verginità una prova, anzi una vera battaglia, degna di un’antica martire, la sua morte per molti un mistero, nascosto dalle fiamme del rogo.

Leggende formatesi nonostante l’evidente storicità degli avvenimenti le assegnano una seconda vita dopo il supplizio di Rouen nel maggio del 1431, dove sarebbe stata sostituita da una povera sconosciuta: Giovanna, salvata in forza del suo illustre lignaggio, avrebbe continuato a vivere un’esistenza tranquilla e anonima accanto a un nobile sposo, in un castello non lontano da Domrémy, suo luogo natale.

Dopo la breve intensa fiammata di gloria (o sarebbe meglio parlare di celebrità?), che si spense in pochi decenni, il mito di Giovanna ritorna alla grande nell’Ottocento. E intorno a lei si formano altre leggende, contrastanti fra loro, com’è normale nei vari racconti degli eroi.

Nell’immaginario della sinistra francese sarà Jeanne Darc, la contadina e «figlia del popolo», vittima della Chiesa e della superstizione «medievale», liberatrice non del regno ma dell’intera nazione; nel mito cattolico, la Pulzella è invece «la grande Cristiana», testimone del favore divino per la Francia, a sua volta indicata come «figlia primogenita della Chiesa».

Persino al di là dell’Atlantico la Pulzella di Orléans diventa leggenda e fin dalla guerra d’Indipendenza americana è ammirata per aver combattuto contro l’Inghilterra. Mark Twain, di solito tutt’altro che tenero con tutto ciò che sa di «medievale», ha per Giovanna parole commosse: la Pulzella è per lui il simbolo della purezza e del coraggio, colei che ci restituisce la voglia di lottare.

Il cinema americano e quello europeo le dedicano una quarantina di film – molti di più che a qualsiasi eroe antico e moderno –, dimostrando la polisemia della sua leggenda: nel capolavoro La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer, del 1928, Giovanna è vista come martire e spiritualissima eroina; negli anni Trenta diventa persino strumento della propaganda del Terzo Reich, che la presenta come una superdonna che combatte l’odiata Inghilterra; Victor Fleming e Roberto Rossellini scelgono il bellissimo volto di Ingrid Bergman per dare evidenza fisica e morale al personaggio della Pulzella. Più tardi Robert Bresson punta sul processo che condanna Giovanna e sottolinea le sue capacità intellettuali e la sua superiorità morale sugli avversari, mentre Jacques Rivette ricostruisce con cura il contesto storico e mette in luce la femminilità seducente e il fascino della mitica ragazza francese. A Giovanna, alla vigilia della seconda guerra mondiale, Cecil B. DeMille dedica un colossal purtroppo perduto: ma sappiamo che in quel film il regista rappresentava l’eroina soprattutto come una combattente con la spada sguainata, implacabile verso i nemici.

Nelle diverse versioni, dunque, Giovanna continua a presentarsi come una immagine mitica forte e vitale nell’inconscio collettivo anche fuori dalla Francia. Ma per la Chiesa, santa, Giovanna, lo diverrà soltanto nel 1920, cinque secoli dopo la sua morte.

Nota bibliografica

In primo luogo segnalo le fonti e alcuni strumenti generali necessari per approfondire l’idea di santità e le sue forme nei secoli medievali: Dictionary of Christian Biography, a cura di W. Smith e H. Wace, John Murray, London 1877-87; Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, Letouzey et Ané, Paris 1907; Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, Letouzey et Ané, Paris 1912; The Acts of Christian Martyrs, a cura di H. Musurillo, Clarendon Press, Oxford 1972 e D.H. Farmer, Dictionary of Saints, Oxford University Press, Oxford 2003 (prima ed. 1978). Molto interessante la raccolta di saggi Models of Holiness in Medieval Sermons, Atti dell’International Symposium di Kalamazoo, 4-7 maggio 1995, a cura di B.C.M. Kienzle, Fédération internationale des Instituts d’études médiévales, Louvain-la-Neuve 1996.

Possiamo leggere in traduzione italiana la celebre Legenda Aurea di Jacopo da Varazze nell’edizione a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995.

L’opera di P. Riché ed E. Patlagean, Hagiographie, cultures et sociétés (IVe-XIIe siècles), Etudes augustiniennes, Paris 1981, e Les saints et les stars. Le texte hagiographique dans la culture populaire, a cura di J.-C. Schmitt, Beauchesne, Paris 1983 sono ottimi strumenti per approfondire il concetto di «fonte agiografica». Fondamentale lo studio di P. Brown, Il culto dei santi. Origine e diffusione di una nuova religiosità, Einaudi, Torino 1983; utilissimo per la storia comparativa del tema eroe/santo quello di A. Brelich, I Greci e gli dei, Liguori, Napoli 1985. Indispensabili i saggi di C. Leonardi, Agiografia, in Lo spazio letterario del Medioevo, vol. I, La produzione del testo, tomo II, Salerno, Roma 1999; di S. Boesch Gajano, Santità, in Dizionario dell’Occidente medievale, a cura di J. Le Goff e J.-C. Schmitt, vol. II, Einaudi, Torino 2003; e di A. Vauchez, La santità nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 2011 (ristampa).

Sulla morte nell’immaginario di quei secoli si vedano: A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1957; Ph. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 1980; M. Vovelle, La morte e l’Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 20092; J.-C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, Laterza, Roma-Bari 1995; J. Le Goff, Aldilà, in Dizionario dell’Occidente medievale cit., vol. I; M. Lauwers, Morte, ivi, vol. II, e uno studio che è già un classico, J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 2005.

Per il mito di Artù rimando a M. Heljkant, «E re non è altro a dire che scudo e lancia e elmo»: il concetto di regalità nella Tavola Rotonda, in La regalità, a cura di C. Donà e F. Zambon, Carocci, Roma 2002, e alle opere di J. Le Goff, L’immaginario medievale, Laterza, Roma-Bari 20118, e Eroi & meraviglie del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2005.

Sul medioevo «santo e/o cavalleresco» nel cinema segnalo il brillante studio di M. Sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney, Castelvecchi, Roma 1993. Una prospettiva originale è quella di Wu Ming 4, L’eroe imperfetto, Bompiani, Milano 2010.

Sulle sante/eroine: Procès de condamnation de Jeanne d’Arc, a cura di P. Tisset e Y. Lanhers, Société de l’Histoire de France, Paris 1960-71; Caterina da Siena, Lettere, a cura di U. Meattini, Edizioni Paoline, Roma 1993; Id., Il Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della divina dottrina, a cura di G. Cavallini, Edizioni Cateriniane, Roma 1980 (rist. anast.); interessante l’antologia a cura di M. Colombo, Vestitevi di sangue. Lettere ai fedeli, Archinto, Milano 1991. Importanti gli studi di P. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo, Il Saggiatore, Milano 1986; Medieval Religious Women, a cura di A.J. Nicholas e L. Shank, Cistercian Publications, Kalamazoo 1992; Creative Women in Medieval and Early Modern Italy, a cura di E.A. Matter e J. Coakley, Pennsylvania University Press, Philadelphia 1995; M.G. Muzzarelli, Un’italiana alla corte di Francia: Christine de Pizan, intellettuale e donna, Il Mulino, Bologna 2007; C. Leonardi, Caterina la mistica, in Medioevo al femminile, a cura di F. Bertini et. al., Laterza, Roma-Bari 20105.

Originale l’analisi che M.G. Muzzarelli fa dello scritto di Christine de Pizan dedicato a Giovanna d’Arco in Donne e scrittura dal XII al XVI secolo, a cura di Mt. Fumagalli Beonio Brocchieri, Lubrina, Bergamo 2009.