V. L’eroina: Elena dagli occhi belli

Dentro la grande sala del palazzo di Priamo, dove vive con il grande amore della sua vita, Elena, dice Omero, «lavorava una grande tela, doppia, colore di porpora, e sopra vi tesseva le imprese che Troiani domatori di cavalli e Achei dalle corazze di bronzo compirono soffrendo per lei nella guerra di Ares». Una specie di autobiografia ricamata, in cui ogni punto tessuto sulla tela va a comporre un mosaico di sangue e di gloria.

Questi eroi, Elena li conosce bene; tutti l’hanno desiderata almeno una volta, molti hanno cercato anche di sposarla. Elena tesse la guerra di Troia sulla grande tela, ma lei stessa sta al centro della tela infinitamente più grande che gli dèi hanno tessuto per l’intera umanità: una trama di vite spezzate e di atti eroici destinati a rimanere nella memoria per tutti i tempi a venire.

Tra le pareti del palazzo, che la isolano dalla sanguinosa realtà della guerra, attende che il suo uomo torni dal campo di battaglia, scrivendo il libro senza parole dei ricordi, ricamati un giorno dopo l’altro in silenzio. Lì mette la parte libera della sua anima, il resto è destino. Non è stata lei a volerlo, non è stata lei a scegliere di essere così bella e neppure di lasciare il marito per seguire quell’amante orientale dagli occhi scuri, che la fecero fremere, la prima volta che si posarono su di lei nella grande sala del palazzo di Menelao. Gli esseri umani non possono veramente decidere ciò che gli dèi o il fato hanno stabilito, a loro tocca solo accettarlo, e capire quale legge li governa. «Questo gli dèi hanno decretato per gli uomini infelici: vivere nell’amarezza. Essi non conoscono pene»: è la morale omerica.

Perciò a suo modo Elena è una creatura tormentata, e certo non felice. Conosce bene le contraddizioni della sua natura e delle sue scelte. Improvvisamente però, mentre sta perfezionando una figura sopra la tela, una voce le sussurra all’orecchio: «Vieni, vieni a vedere che cosa sta accadendo: i combattenti si sono fermati in mezzo alla pianura e ora, appoggiati agli scudi, con le lance piantate a terra, stanno aspettando che Menelao e Paride, i tuoi due mariti, combattano in duello per te. Uno morirà, l’altro sarà il tuo sposo per sempre».

A parlare così è Iride, la messaggera divina, certo mandata da Afrodite, la sua protettrice e per alcuni versi il suo alter ego (nel culto, più tardi, in alcuni luoghi l’eroina era invocata addirittura come Elena-Afrodite); nel cuore Elena sente improvvisamente crescere – come dice Omero – la nostalgia del primo marito, che l’aveva avuta mentre era ancora una ragazza innocente nella reggia di Sparta e non una pubblica adultera in terra straniera. Come tutti coloro che sono vicini agli dèi, anche Elena ha visioni ed è guidata da immagini e voci, talvolta subdole e tentatrici; ma a differenza di un monaco nel deserto sa che non deve respingerle. Così si veste con il peplo più bello e sottile, e scortata dalle ancelle arriva sulle mura.

Gli eserciti sono effettivamente fermi in attesa del duello; sugli spalti di Troia, curiosi, sono radunati i vecchi della città, senza più forze ormai, solo capaci di chiacchierare: c’è Priamo coi suoi amici dai nomi inconfondibilmente greci, non asiatici – Antenore, Pantoo, Clizio, Ichetaone e persino Oukalegon, un vecchietto dal nome buffo («Chiacchiera-al-vento»), che la solenne poesia dell’Eneide trasformerà in un pater familias padrone di un alto palazzo di marmo, come un patrizio romano, e persino il suo nome assumerà in latino una cadenza esotica e pomposa («proximus ardet Ucalegonta»). Si scaldano al sole come i vecchi di Jacques Brel e chiacchierano con esili voci di anziani, «come le cicale», dice Omero; il gruppo di vegliardi curiosi ammira la donna che si è mostrata come un’apparizione e tra loro passa un mormorio galante: «Com’è bella! Per una donna così è persino giusto che gli uomini si battano in battaglia».

Cortesemente Priamo fa sedere Elena accanto a sé, e pronuncia il giudizio su cui poi sempre si ritornerà: «Per me, non sei tu la colpevole, colpevoli sono gli dèi che ti hanno usato come strumento per scatenare questa guerra». Tutto quello che è avvenuto, è avvenuto perché Elena era predestinata. A questo l’ha consegnata la sua meravigliosa bellezza, poiché i doni degli dèi non sono mai innocui. Davanti al gruppo dei vecchi, Elena arriva persino a maledirsi e a rimpiangere il momento in cui ha deciso di seguire Paride lasciando tutto, amiche, famiglia, figlia, onore: «e io mi consumo piangendo per questo».

Una penitente? Ma a Elena appunto non era stato dato di scegliere; è un pegno di guerra, di valori che le sono estranei, come «onore», «vendetta», «potere», «gloria». Quanti, morendo nella polvere della pianura, avranno urlato il suo nome per maledirla, mentre la loro anima, tra gli schizzi di sangue e di sudore dei guerrieri mescolati nella battaglia, «fugge dal corpo, infelice, lamentando la giovinezza e il vigore»? Elena è legata da catene infrangibili al suo amante: lo si potrebbe definire – per usare le parole di Saffo – un dolceamaro tormento da cui non può liberarsi, almeno sinché il destino del suo amante si compia, secondo il disegno di Zeus e degli altri dèi.

Lo si vede subito, del resto. Nella singolar tenzone, Paride viene rapidamente sconfitto, ma Afrodite protegge il suo beneamato: avvolto in una nuvola, lo porta nel talamo e corre da Elena per invitarla a consolare lo sposo. Ha assunto l’aspetto di una vecchia ancella: «Vieni, Paride ti attende nel suo letto, stilla bellezza, diresti che non viene da una battaglia, ma da una danza». Un’Afrodite-mezzana, che pure travestita non può sfuggire all’occhio di Elena, esercitato ormai a riconoscerla in ogni manifestazione. È una vecchia serva, sì: ma il suo collo senza una ruga, profumato, rivela che qualcosa di divino sta davanti a lei. Il diavolo, pare, lo si riconosce dalle zampe; Afrodite dal fatto che non può rinunciare a un tratto di bellezza neppure quando la dea prende l’aspetto di una vecchia cadente.

Un fremito di desiderio percorre il cuore di Elena – nessuno può opporsi ad Afrodite –, però la sua volontà cerca di resistere: «Dea, perché mi spingi a far questo? Non voglio andare». E diventa persino blasfema: «Vacci tu, nel suo letto, e diventa pure la sua serva, se vuoi». Ma Afrodite non la molla: «Pazza, obbedisci, o io sono capace di farti odiare da tutti, tanto quanto sino ad oggi ti ho protetta». E così la più bella di tutte le donne la segue docilmente, entra nella stanza dove Paride, bello come un dio, la attende. Elena lo rimbrotta per la sua codardia, lo accusa di viltà, lo umilia rinfacciandogli il valore del precedente sposo, ma non può fare a meno di cedere; e Paride, che sa di essere protetto da una dea, non se la prende, ma sa trovare le parole più dolci: «Mai ti ho desiderato tanto, neppure in quella prima notte, quando ti rapii da Sparta e feci l’amore con te sull’isola di Cranae».

Conclude discretamente Omero: «Con queste parole si avviò verso il letto, e la sua donna lo seguì». In pieno giorno, il momento degli amanti furtivi, e non di notte, il tempo dell’amore coniugale, o di quello dei guerrieri come Achille o Agamennone che hanno versato sangue tutta la giornata, e poi si coricano alla sera con le loro schiave, godendosi il gusto della conquista: «che questa notte ognuno di noi dorma accanto a una sposa troiana», vagheggia persino il decrepito Nestore, pregustando il saccheggio di Troia.

Non manca un tocco d’ironia: mentre il corpo del bellissimo Paride si unisce a quello della più bella tra le donne, sopra un letto d’avorio tra i profumi di una stanza elegante, Menelao, il marito gabbato e beffato anche in duello, si aggira sudato e sporco di polvere nella pianura «come un animale selvaggio», dice Omero, cercando l’odiato nemico, l’adultero maledetto che gli è nuovamente sfuggito. Forse capiamo da questo perché infine Elena, malgrado i suoi rimbrotti, abbia preferito Paride, così diverso dai guerrieri urlanti che si affrontano nella pianura. Omero lo descrive, all’inizio di questo terzo canto dell’Iliade che è tutto un contrappunto tra la dolcezza dell’amore e la maledizione della guerra, mentre si aggira tra l’esercito troiano armato di un arco – non di una lancia o di una spada come un soldato che si rispetti – e rivestito non da una corazza di bronzo, ma da una pelle di leopardo, «bello come un dio», attirandosi i rimproveri del suo gagliardo fratello Ettore. Arco e pelliccia di animale non sono le armi dell’oplita, del maschio adulto: sono quelle dell’efebo che compie sui monti la sua prova iniziatica. È come se Paride nel mondo dei guerrieri non volesse entrare mai. Così diverso da tutti gli altri, com’è diversa Elena, e forse per questo solo con Paride può trovare un vero colloquio.

Lasciamo però Elena e Paride al loro mattino d’amore, e Menelao alla sua rabbia di marito tradito. Questo momento della vita di Elena esprime già, nel primo episodio della letteratura greca in cui si parla di questa donna, le ambiguità, le contraddizioni e in fondo il significato della sua storia di eroina.

Bella, così bella da confondere l’anima, e portare con sé, sigillati nel suo destino, la follia e la sventura: questa era Elena per i Greci, colei per cui fu distrutta una città e tanti uomini trascinati nella polvere. Eschilo, rappresentante della severa morale arcaica, pensava che questa donna avesse un destino iscritto nel suo nome: Ele-naus, «La-rovina-navi», e la vedeva come uno scandalo storico, la «donna dai molti mariti», per cui Zeus aveva inviato le Erinni a punire chi aveva violato il letto di un ospite e le leggi della famiglia.

Elena è tanto bella da essere vicina agli dèi – e ad Afrodite, che rappresenta il desiderio universale – al punto da poter parlare con loro; ma è anche scissa tra il dovere famigliare e il desiderio erotico. Perciò questa eroina rappresentava per le ragazze greche un modello e anche un ammonimento: sii bella, desiderabile, e che Afrodite si volga amica verso di te; ma attenta, devi pur sapere che attorno a questo amore si condensa il pericolo e la rovina. Come tutti gli eroi greci, Elena non può essere né completamente buona né completamente perversa.

A Sparta, Elena aveva due templi. Il più famoso sorgeva a Terapne, a poche miglia dalla città. Il santuario era stato costruito in onore di Menelao, che si diceva fosse sepolto lì, ma accanto a lui riposava anche Elena, l’infedele, che si era infine riconciliata col marito: Pausania lo vide ancora integro nel II secolo d.C. e il sito è stato esplorato da una missione archeologica inglese agli inizi del Novecento. Lì sono state trovate statutette e altri oggetti votivi, con dediche a Elena-dea.

In quel tempio le ragazze spartane andavano a fare offerte alla loro antenata, e una volta all’anno, di primavera, si conduceva in suo onore una processione, gli Helenéia, durante la quale le donne raggiungevano il santuario sopra carri inghirlandati con germogli e rami di piante intrecciati in forma di vari animali per chiedere che Elena favorisse la loro fecondità. Sotto il suo patronato erano posti i riti iniziatici femminili, nei quali le ragazze si sfidavano in una gara di corsa. Il secondo santuario di Elena, a Sparta, sorgeva presso un boschetto di platani (perciò era detto platanistas) vicino a un luogo chiamato dròmos (corsa), dove gli efebi si esercitavano. Alcune informazioni sul complesso di riti spartani legati a Elena vengono da Teocrito, nel III secolo a.C., che immagina un gruppo di ragazze mentre intonano un canto nuziale per Elena e Menelao nella notte delle loro nozze: «noi siamo tutte sue coetanee, e correvamo nello stesso luogo presso l’Eurota, dopo esserci unte d’olio come gli uomini, quattro volte sessanta ragazze, la gioventù femminile [...] come la notte veneranda mostra il bel volto dell’alba, come l’inverno cede il posto alla smagliante primavera, così l’aurea Elena appariva tra noi [...] intrecceremo una corona di loto che cresce rasente la terra e l’appenderemo al platano ombroso [...] e sulla corteccia incideremo in lingua dorica perché il passante lo legga: ‘adorami, io sono l’albero di Elena’ [...] dormite spirando amore l’uno contro il petto dell’altra e non dimenticate di risvegliarvi all’aurora».

Tra le grazie che le Spartane andavano a chiedere a Elena vi era il bene maggiore che un essere umano possa chiedere agli dèi, quanto meno agli dèi greci, cioè la bellezza. Elena nel suo tempio di Terapne ascoltava le pellegrine e talvolta compiva prodigi.

Erodoto racconta un famoso miracolo che Elena compì proprio in quel luogo. Una bambina, figlia di una delle famiglie più eminenti di Sparta, aveva avuto la disgrazia di nascere con un aspetto deforme e i suoi genitori se ne dolevano molto; perciò la nutrice, una semplice donna del popolo, prese l’abitudine di portarla ogni giorno al tempio di Elena a Terapne. Arrivate lì, conduceva la bambina davanti alla statua della dea e la pregava di guarirla dalla bruttezza. Un giorno, uscendo dal tempio, la nutrice s’imbatté in una donna che le domandò sorridendo che cosa mai portasse tra le braccia: «una bambina – rispose la nutrice – che purtoppo è nata brutta». Allora la misteriosa figura le chiese di mostrargliela; la nutrice dapprincipio rifiutò, perché i genitori della bimba, vergognosi della sua deformità, le avevano vietato di farla vedere a qualcuno. Dopo molte insistenze, però, la nutrice finì per cedere e mostrò la bimba alla sconosciuta; questa, dopo averle sfiorato la testa con un lieve gesto della mano, disse che un giorno sarebbe diventata la donna più bella di Sparta e poi scomparve.

Da allora la bambina cominciò a cambiare aspetto e crescendo divenne in effetti la più splendida bellezza di Sparta, invidiata da tutte le coetanee; sposò uno dei cittadini più nobili della città e in seconde nozze il re stesso di Sparta, Aristone.

Nessun dubbio: la dolce figura apparsa ad accarezzare la bambina era Elena, che aveva compiuto il miracolo.

Questa donna venerata a Sparta come eroina, o addirittura come dea, nei racconti più diffusi era un’adultera e una seduttrice. Come dirà il marito Menelao nelle Troiane di Euripide in un sussulto di odio, dopo essere finalmente riuscito a rimettere le mani su di lei, è una donna che andrebbe lapidata per dare un esempio a tutte le altre, come si fa con chi compie delitti infami – e come i talebani fanno con le adultere –: «in modo che ogni donna impari a non ingannare il marito».

Questa feroce minaccia, tutta letteraria – i Greci non conoscevano infatti la pena della lapidazione –, è il risultato di una tradizione estranea ai culti spartani, che faceva di Elena una specie di antimodello.

La civiltà greca non possedeva il concetto e neppure le parole per «peccatore» e per «pentimento»; molto diverse sono le forme dell’ansia e del tormento interiore, non quelle del penitente che si affligge. Elena non è coperta da un burqa; mostra la sua bellezza attraverso pepli preziosi, dai quali si può immaginare la perfezione del corpo. Mai però gli autori antichi la descrivono in atteggiamenti lascivi o provocanti; a sedurre ogni uomo bastano i doni che le fecero suo padre Zeus e la sua protettrice Afrodite: la grazia che circonda il suo corpo come un alone, la sua voce, il suo sorriso, la sua intelligenza, il desiderio che emana da lei come un cristallo riflette naturalmente la luce.

Colei che per Eschilo, e gli altri tragici greci, è la grande corruttrice, che osa sfidare la supremazia maschile, questa colpevole, che si definisce una «cagna» – Omero le mette in bocca questa parola –, portatrice di lutti, è adatta a rappresentare la grande distanza che separa la cultura femminile da quella maschile. Saffo la indicava alle allieve come un modello di grazia e bellezza, e anche come l’esempio di una scelta coraggiosa, capace di scardinare i valori tradizionali di un universo patriarcale. Una rivoluzionaria, insomma, che seppe percorrere sino in fondo la sua via:

Alcuni dicono che sopra la terra bruna la cosa più bella sia una fila di cavalieri o di fanti, o una flotta di navi; io dico: colui che si ama. Chiunque può capirlo facilmente: Elena, che superò ogni donna mortale per bellezza, abbandonò lo sposo (il più eccellente tra gli uomini) e fuggì a Troia per mare. Dimenticò la figlia, dimenticò gli amati genitori: fu Afrodite a condurla [...] così mi torna alla mente Anattoria lontana. Oh preferirei rivedere il suo amabile passo, il candore luminoso del viso piuttosto che i carri dei Lidi e battaglie di uomini in armi. (Saffo, Frammento 16v)

Per Saffo Elena rappresenta un ideale infinitamente lontano dallo scintillio di corazze degli uomini pronti a sfidare la morte; rappresenta un modo d’essere tutto femminile, di una donna che sa «dimenticare» ogni dovere per seguire la voce di una dea, e il suo destino. Fu la prima a rivendicare la sua libera scelta, lasciando un re per seguire un giovane seduttore; rivendicò il diritto di lasciarsi sedurre, restando padrona delle sue emozioni.

Alceo, al contrario, vedeva Elena come un modello riprovevole: «Per le tue cattive azioni, Elena, un’amara sventura ricadde su Priamo e i suoi figli, per te Zeus arse Ilio col fuoco»; e ancora «A Elena argiva Afrodite sconvolse il cuore nel petto, impazzì per un troiano sleale, lo seguì su una nave sopra la distesa marina, abbandonò la figlia, abbandonò il morbido letto dello sposo... e domati nella terra di Troia a causa sua molti carri rovinarono tra nuvole di polvere e guerrieri dagli occhi belli furono calpestati tra il sangue». Tutte queste desolazioni per una donna impazzita d’amore, che non capisce a quali doveri è legata, e che si fa sedurre da un bellimbusto il quale infrange le regole civili della lealtà e dell’ospitalità.

Ancora più tagliente il giudizio che dà Eschilo, nell’Agamennone, in un’apocalittica visione dell’inutile strage sotto Troia: Elena fu colei per cui il dio della morte, come un cambiavalute, prese vivi corpi di uomini e rese in cambio le urne con le ceneri dei morti; fu tutto per lei, la Distruggi-navi, la Distruggi-eserciti, la Distruggi-città. Non è una donna, ma la figurazione vivente di demoni rovinosi, se pure non lei stessa un demone: Discordia (Eris), Ira (Menis), Colpa (Ate). Chi la riceve perde, e lei rovina tutti quelli a cui si accosta. Fu Zeus, vindice degli ospiti, a portare questo essere, non una donna, ma un’Erinni, nel palazzo di Priamo, per punire tutta la città di una colpa inaudita contro le regole che governano l’onore della famiglia e il giusto rapporto con gli ospiti.

In genere Elena, nella tragedia, appare come un personaggio funesto; non è solo per arcaico moralismo o per un fastidio ateniese verso un modello di femminilità che si distacca fortemente da quello attico, secondo il quale una donna dabbene deve stare isolata tra le mura domestiche – quella forma mentis che induce Pericle, in Tucidide, a dedicare meno di dieci parole alle donne ateniesi, dopo averne impiegate varie centinaia per lodare, con legittimo orgoglio, le straordinarie realizzazioni della democrazia ateniese: «di una donna per bene, la lode maggiore è che di lei si parli pochissimo».

Non è solo per questo che Elena ha una cattiva fama nella tragedia: criticando lei, i tragici ateniesi esponevano al ludibrio del pubblico l’eroina cara ai nemici spartani, colei che era nata e riceveva onori di culto a Sparta, ed era il modello di femminilità additato alle ragazze di quella città. Troppo libere, troppo sportive, troppo lasciate a se stesse – secondo l’ottica ateniese. Elena incarna le paure di questa società maschile nei confronti delle donne e del loro mondo emotivo così misterioso e sfuggente.

Gorgia, che non era ateniese, rompe la solidarietà maschile che denigra Elena. In quanto sofista, egli era interessato a porre in dubbio le opinioni formate, offrendo modi di pensare insoliti e sorprendenti. Colpevole, innocente, che importa? Ma soprattutto: innocente. A persuaderla fu infatti la più alta tra le facoltà che la Natura, o gli dèi, ha donato, unica tra le specie viventi, all’uomo, vale a dire il logos. Non fu – dice Gorgia – la vanesia bellezza di un seduttore a farle compiere la scelta per cui è diventata famosa. Fu qualcosa di più alto, filosofico, addirittura sublime: il logos, il ragionamento che convince e ammaestra, che indica la via, e Paride convinse Elena usando appunto il logos, e persuadendola ad amarlo con la sua eloquenza. L’Eros, la bellezza sono parte di un processo di comprensione con cui il logos consente all’umanità di essere e di pensarsi, e di sfidare modi di pensare obsoleti.

La storia di Elena però non comincia e non finisce con la guerra di Troia. Anzi, la guerra troiana fu una parentesi della sua vita.

La più bella delle donne, come tutti gli eroi, aveva un’origine divina. Sulla sua nascita si raccontavano storie che la collegavano a una regina, Leda, sposa del re di Sparta Tindaro. Zeus la vide e se ne innamorò. Per eludere la vigilanza del marito e la naturale pudicizia della sposa, il re degli dèi prese l’aspetto di un cigno e ordinò a un’aquila, suo animale sacro, di fingere l’inseguimento; così il cigno corse a rifugiarsi tra le braccia della regina, che pietosa lo difese, ma in questo modo Leda accolse senza saperlo Zeus nel suo grembo e si accorse presto che tra le sue braccia non stava un animale impaurito ma il più possente e vigoroso degli dèi.

Come generalmente avviene nel mito quando una donna ha uno sposo mortale e uno divino, da Zeus e Leda nacquero due coppie di gemelli, formata ciascuna da un gemello umano e un altro divino: Elena e Polluce divini, Clitennestra e Castore umani. Altri racconti dicevano che Zeus si era innamorato della dea Nemesi, la quale per sfuggirgli si era trasformata in oca; Zeus aveva assunto la forma di un cigno e l’aveva raggiunta e posseduta. Da quest’unione era nato un uovo (o secondo altri, due uova) che fu abbandonato in un bosco sinché un pastore lo trovò e lo portò a Leda. Quando l’uovo si dischiuse, nacque Elena che Leda allevò come fosse figlia sua. L’uovo da cui Elena era nata era esposto ai pellegrini nel tempio di Ilaira e Febe a Sparta, e anche Pausania lo vide pendere attaccato a un filo al soffitto del tempio.

Sin dalla giovinezza, la fama della bellezza di Elena attirò cupidigie. Si raccontava che quando Teseo, l’eroe ateniese, aveva cinquant’anni, volle fare sua la figlia di Zeus; andò a Sparta e la rapì. Allora Elena toccava appena l’adolescenza e aveva tredici anni. A seconda dei casi si diceva che Teseo l’avesse posseduta (anche in modo efebico) o che invece l’avesse rispettata, affidandola alla custodia della propria madre Etra. Fu quella la prima volta che Elena sperimentò i pericoli della bellezza e la rapace aggressività di un corteggiatore. Comunque, questo primo, e involontario, rapimento di Elena si concluse rapidamente: i suoi vigorosi fratelli, i due Dioscuri, accorsero a liberarla, e per rappresaglia rapirono la madre di Teseo, facendone una schiava di Elena. Etra infatti appare nell’Iliade come ancella muta di Elena, e solo alla fine della guerra di Troia, ormai vecchia, fu liberata e poté tornare in patria.

Elena cresceva in una bellezza perfetta e ogni eroe la desiderava; perciò il padre putativo Tindaro decise di scegliere il suo sposo attraverso una gara matrimoniale. A corteggiare Elena convennero i più nobili tra i Greci, ciascuno dei quali portava con sé il meglio delle sue ricchezze da offrire come dote. Circolavano varie leggende su questa gara.

Ulisse ebbe una parte decisiva nella vicenda: si rendeva conto che la bellissima, irraggiungibile Elena mai avrebbe scelto il reuccio di un’isola povera e fuori mano, e sapeva anche bene di non essere il più bello tra gli eroi («piccolo e largo di spalle», sproporzionato, lo descrive Omero). Era anche abbastanza intelligente per prevedere quanti pericoli avrebbero potuto venirgli da una moglie così invidiata da tutti. Perciò si accontentò di Penelope e si ritrasse dalla gara; per evitare che in futuro sorgessero contese, consigliò Tindaro di far giurare a tutti i pretendenti che se qualcuno avesse portato via Elena allo sposo tutti gli altri sarebbero accorsi a vendicarlo. Ciascuno sperava di essere lui il prescelto, perciò tutti giurarono: e Tindaro scelse Menelao che era il più ricco. Però altri dicevano che a scegliere lo sposo – fatto inaudito! – fosse stata Elena stessa, che prese quello che le sembrava il più desiderabile, il biondo Menelao, un principe gentile e cortese.

Così Menelao ed Elena divennero sposi, e regnarono su Sparta. Passò qualche anno, dallo sposo Elena ebbe una figlia, Ermione (le si attribuivano, ma solo in tradizioni locali, altri figli).

Altri eventi molto più grandi dell’umano minacciavano la felicità dei giovani sposi: i turbamenti di Elena non sono della stessa natura di quelli di Emma Bovary o Anna Karenina, il suo adulterio non fu deciso dalle inquietudini della sua anima. La storia è ben nota, a partire dai poemi arcaici, tra cui i perduti Canti di Cipro. Zeus vide che la terra gemeva sotto il peso di un’umanità troppo fitta e crudele e decise di sfoltirla; così fece in modo che al banchetto in cui si celebravano le nozze tra Peleo e Teti si presentasse la malevolente Eris, la Discordia, la quale, stando fuori dalla porta, gettò un pomo davanti alle dee con inciso «Alla più bella».

Così Hera, Atena e Afrodite accettarono di spogliarsi davanti a occhi mortali per farsi giudicare, ed Ermes le condusse sul monte Ida perché la sentenza fosse pronunciata dal pastore Paride. Afrodite vinse promettendogli l’amore di Elena.

In seguito a ciò Paride arrivò a Sparta come ospite di Menelao; per nove giorni stette nella reggia, e in quel periodo Afrodite fece in modo che molte volte il suo sguardo incrociasse quello di Elena, e il desiderio germogliasse invincibile dentro i loro cuori. Poi il troppo cortese Menelao, stoltamente, o forse accecato dagli dèi, partì per un breve viaggio a Creta, lasciando Elena e Paride liberi di confidarsi il loro amore. Indisturbato, Paride la rapì o piuttosto la indusse a seguirlo. Raffigurazioni della fuga di Elena cominciano a comparire nella ceramica greca, a partire da un’epoca molto antica, l’VIII secolo a.C.; sulla decorazione di un vaso è disegnata una nave formicolante di forme nere, piccoli uomini stilizzati chini sui remi e pronti a vogare, mentre un uomo e una donna, la mano nella mano, come due innamorati di Peynet, stanno imbarcandosi. I due fremevano d’ansia e di desiderio. Non aspettarono di arrivare a Troia e celebrare pubblicamente le nozze, come una qualsiasi coppia; quando si fece notte la nave approdò a Cranae, poco lontano dalla costa, malgrado il pericolo che Menelao tornasse e si mettesse all’inseguimento. Lì i due innamorati si congiunsero per la prima volta.

Esisteva però anche una tesi che si potrebbe definire «innocentista», in cui Elena non rappresenta l’infedeltà, ma al contrario l’amore coniugale più perfetto. Secondo un racconto diffuso in epoca arcaica, che Euripide poi mise in scena nell’Elena, la sposa di Menelao non arrivò mai a Troia, non salì mai sulla nave di Paride. Al suo posto gli dèi plasmarono una forma d’aria, perfettamente simile alla donna, che invece venne miracolosamente trasferita in Egitto, sotto la protezione dell’illuminato re Proteo, che la ospitò e la difese sinché, di ritorno dalla guerra di Troia, Menelao toccò l’Egitto e con suo sbalordimento incontrò la sposa, casta e innamorata di lui come l’aveva lasciata. L’ingannevole fantasma per cui tanto sangue era stato sparso si volatilizzò. Questa seconda Elena immaginata dai poeti non è il prototipo della bella infedele, ma piuttosto della sposa devota: un paradosso!

Su Elena a Troia circolavano molte leggende. Una diceva che durante la guerra Achille ottenne di vederla e s’innamorò di lei; egli non aveva partecipato al concorso per le nozze di Elena, perché senz’altro l’avrebbe vinto. Ma arrivò in ritardo, quando Elena aveva seguito lo sposo nella sua reggia. Dopo la morte in guerra di Paride, Elena fu messa nuovamente in palio in una gara nuziale tra due dei suoi cognati, che in silenzio l’avevano ammirata e desiderata giorno per giorno durante i lunghi anni di guerra: Deifobo ed Eleno. Priamo decise che Elena avrebbe dovuto sposare Deifobo, il maggiore, e perciò Eleno si allontanò irato dalla città e finì per rivelare ai Greci gli oracoli segreti che la proteggevano.

Sembra che la posizione di Elena, nei giorni della conquista di Troia, sia stata molto ambigua: alcuni dicevano che fosse stata lei a dare il segnale ai compagni di suo marito perché si accostassero di nascosto alle mura; e che prima fosse stata lei a proteggere Ulisse, penetrato a Troia per rubare il Palladio, ottenendo in cambio il perdono. Invece, Omero la descrive, ancora fedele ai Troiani, mentre gira attorno al cavallo di legno imitando le voci delle spose dei guerrieri, per indurre qualcuno di loro a tradirsi. E qualcuno stava per farlo: ma Ulisse fu pronto a tappargli la bocca e a impedire che la nostalgia per la sposa lontana gli facesse compiere la follia di rispondere, e far fallire l’impresa.

Virgilio la mostra smarrita e inerme, tra gli incendi e i saccheggi della notte fatale, abbracciata all’altare nel tempio di Vesta; Euripide la presenta legata tra le altre prigioniere troiane, nelle mani del marito offeso, eppure ancora innamorato di lei, che la donna saprà nuovamente sedurre con il suo fascino. Si sapeva comunque che la donna tornò a Sparta con Menelao: nell’Odissea siede accanto allo sposo, sempre straordinariamente bella ma forse un po’ triste e rassegnata. Come regina assiste a una scena di malinconia, davvero unica in tutti i poemi omerici, che sembra segnare il tramonto del mondo eroico: nella grande sala della reggia dove Telemaco è venuto a cercare suo padre, egli e Menelao piangono con il cuore gonfio di pena per uomini che non ci sono più. Allora Elena mostra il suo volto pietoso: «nel vino che essi bevevano, rapida, mescolò un farmaco che placava ogni dolore e faceva dimenticare ogni pena. Chi lo beveva disciolto nel vino per tutto un giorno non avrebbe versato una lacrima, neppure se gli fossero morti il padre e la madre o se davanti agli occhi gli avessero massacrato un figlio o un fratello».

Dopo tante avventure, la morte non arrivò a placare le pene. Secondo alcuni racconti, Elena fu resa immortale per volere di Zeus e portata tra gli dèi oppure sull’Isola dei Beati. Un’altra tradizione diceva invece che finì tragicamente: dopo la morte di Menelao, perseguitata dagli Spartani, fuggì a Rodi, dalla sua vecchia amica Polisso che era vedova di Tlepolemo, un eroe caduto a Troia. Polisso decise di vendicare il marito, e lo fece con raffinata perfidia: così, mentre Elena stava facendo il bagno, le inviò alcune sue ancelle travestite da Erinni vendicatrici, in ricordo delle sue colpe, che la afferrarono e la impiccarono a un albero.

Così morì l’Elena umana, l’adultera. Ma l’altra, la divina, ottenne la parte d’immortalità che le spettava come figlia di Zeus: si diceva che, ancora vivente e sfolgorante di bellezza, fosse stata trasportata su un’isola alle foci del Danubio, l’Isola Bianca, dove divenne la sposa del più grande degli eroi, Achille. Essi passavano il tempo tra le gioie dei conviti, placati, in un paese dove era sempre primavera e crescevano fiori di tutti i colori e il vento era una brezza gradevole. Questo fu il premio riservato alla più bella delle eroine, donna e dea nello stesso tempo.

Nota bibliografica

Sul mito di Elena e le sue varianti si veda il saggio di C. Brillante nel libro scritto con M. Bettini, Il mito di Elena, Einaudi, Torino 2002.

Il miracolo di Elena sulla bambina deforme è raccontato in Erodoto VI, 61-63 (e ripetuto in Pausania, III, 7, 7), che inserisce l’episodio in una complessa vicenda dinastica. Il re Aristone, essendosi sposato due volte, non aveva figli; vedendo quella donna, diventata bellissima grazie all’intervento di Elena che la «guarì» da bambina, se ne innamorò. Ma la donna era moglie del suo amico Ageta, e per averla Aristone ricorse a un trucco. Fece giurare ad Ageta che come pegno di amicizia ognuno avrebbe lasciato scegliere all’altro il bene dell’amico che più avesse desiderato. Ageta, non sospettando la passione del re, giurò, e così Aristone gli chiese di avere sua moglie; per non mancare al giuramento Ageta dovette accondiscendere, e in tal modo Aristone divorziò dalla seconda moglie e sposò quella dell’amico. Dopo nove mesi nacque un bambino, che fu chiamato Demarato. Tuttavia, computando la data del concepimento, alcuni poi sostennero che costui non fosse figlio del re ma del suo amico e questo fu il pretesto per cui più tardi Demarato fu privato del regno. La vicenda si svolse attorno al 530 a.C. In seguito Demarato, rifugiatosi presso il re di Persia, accompagnò come consigliere Serse durante la sua spedizione contro la Grecia nel 480 a.C.

L’uovo sacro da cui nacque Elena è descritto da Pausania in III, 16, 1: pendeva dal soffitto del tempio avvolto da fasce consacrate.

L’Epitalamio di Elena costituisce la composizione XVII del corpus di Teocrito. Il passo citato nel testo è tratto dai vv. 22-55.