L’Avventura puzzava.
Aveva sessanta remi, un’unica vela e un lungo scafo slanciato che prometteva velocità. “Non è grande, ma potrebbe andare bene per noi” pensò Quentyn quando la vide, ma questo era stato prima di salire a bordo e di respirare l’aria mefitica sulla tolda. “Maiali” fu il suo primo pensiero, ma alla seconda boccata aveva cambiato idea. I maiali avevano un odore migliore. Quella puzza era un miscuglio di piscio, carne imputridita e letame, era il fetore di carne decomposta, piaghe purulente, ferite incancrenite. Un tanfo così infame da coprire perfino l’odore di pesce e aria salmastra del porto.
«Mi viene da vomitare» disse a Gerris Drinkwater. Grondanti di sudore nel caldo torrido e avvolti dal tanfo che saliva da sottocoperta, stavano aspettando l’arrivo del capitano.
«Se anche lui puzza come la sua nave» rispose Gerris «prenderà il tuo vomito per un profumo.»
Quentyn stava per suggerire di tentare con un altro vascello, quando comparve il capitano, accompagnato da due laidi membri dell’equipaggio. Gerris lo accolse con un sorriso. Anche se non padroneggiava la lingua di Volantis come Quentyn, il loro rango imponeva che fosse comunque lui a parlare per entrambi. Quando erano ancora a Planky Town, Quentyn si era presentato come mercante di vini, ma non aveva funzionato, così quando i due dorniani avevano cambiato nave a Lys, avevano anche cambiato i ruoli. A bordo dell’Allodola, Cletus Yronwood era diventato il mercante e Quentyn il servo. A Volantis, dopo che Cletus era stato ammazzato, Gerris aveva assunto il ruolo del padrone.
Alto e con la carnagione chiara, gli occhi verde azzurri, i capelli color sabbia scoloriti dal sole, il fisico asciutto e ben proporzionato, Gerris Drinkwater aveva un’aria spavalda, sicuro di sé al limite dell’arroganza. Non pareva mai a disagio e, anche se non parlava la lingua del posto, riusciva sempre a trovare il modo di farsi capire. Al confronto, Quentyn faceva una figura meschina: gambe corte e tozze, fisico tarchiato, capelli colore della terra appena rivoltata dall’aratro. Aveva la fronte troppo alta, la mascella troppo squadrata, il naso troppo largo. “Una bella faccia onesta” aveva detto una volta una ragazza, “ma dovresti sorridere di più.”
Ma sorridere non era mai stato facile per Quentyn Martell, come non lo era stato per il lord suo padre.
«Quanto veloce è la tua Avventura?» esordì Gerris, in un alto valyriano approssimativo.
Il capitano riconobbe l’accento, e gli rispose nella lingua comune del continente occidentale. «Nessun vascello naviga più veloce, onorevole signore. L’Avventura può volare rapida come il vento. Basta che tu mi dica dove vuoi andare, e io in un lampo ti ci porto.»
«A Meereen. Cerco un passaggio per me e due servitori.»
Il capitano cominciò a negoziare. «Sono già stato a Meereen. E posso tornarci ancora, aye, ma… perché? Non ci sono più schiavi da prendere, non c’è più profitto. L’argentea regina ha messo fine a tutto quel commercio. Ha chiuso anche le fosse da combattimento, così un povero marinaio non può nemmeno più divertirsi mentre vengono caricate le stive. Per cui dimmi, amico dell’Occidente, che cosa c’è a Meereen che ti attira?»
“La più bella donna del mondo” pensò Quentyn Martell “la mia futura sposa, se gli dèi vorranno essere generosi.” A volte, di notte, giaceva senza dormire, immaginando il suo viso, le sue forme e domandandosi se una donna simile, fra tutti i principi della terra, avrebbe scelto di sposare proprio lui. “Io sono Dorne” ripeteva a se stesso “e lei vuole Dorne.”
Intanto Gerris rispose al capitano con la fandonia che insieme avevano concordato. «La mia famiglia commercia in vino. Mio padre possiede ampi vigneti a Dorne e vuole che io esplori nuovi mercati. La speranza è che la brava gente di Meereen voglia apprezzare la merce che vendo.»
«Vino? Vino dorniano?» Il capitano non sembrava convinto. «Le città degli schiavisti sono in guerra. Ne sei al corrente?»
«Il conflitto è tra Yunkai e Astapor, da quanto ho udito. Meereen non è coinvolta.»
«Non ancora. Ma lo sarà presto. Un emissario della città gialla si trova già a Volantis per assoldare spade. I mercenari delle Lunghe Lance si sono già imbarcati per Yunkai e, una volta che avranno finito di rimpolpare le loro file, la Compagnia del Vento e la Compagnia del Gatto li seguiranno. Anche la Compagnia Dorata sta marciando verso est. Tutto questo è risaputo.»
«Se lo dici tu. Io faccio affari con il vino, non con la guerra. Il vino ghiscariano non è granché, tutti ne convengono. I meerensi pagheranno un buon prezzo per queste ottime vendemmie dorniane.»
«Ai morti non importa quale vino bere.» Il capitano dell’Avventura si grattò la barba. «Non penso di essere il primo cui ti rivolgi né il decimo.»
«Infatti» ammise Gerris.
«Quanti capitani hai interpellato? Un centinaio?»
“Più o meno” pensò Quentyn.
I volantiani amavano gloriarsi che le cento isole di Braavos avrebbero potuto essere gettate nelle acque profonde del loro porto e lì scomparire. Quentyn non era mai stato a Braavos, ma non stentava a crederlo. Ricca, opulenta e corrotta, Volantis ricopriva la foce della Rhoyne come un caldo bacio umido, estendendosi sulle colline e i terreni paludosi su entrambe le rive del fiume. C’erano navi ovunque, che scendevano il fiume o si dirigevano verso il mare, affollavano moli e approdi, caricando e scaricando merci, navi da guerra, baleniere e galee da trasporto, caracchi e velieri, scafi a ruota grandi e piccoli, navi lunghe, navi cigno, navi di Lys, Tyrosh e Pentos, vascelli carichi di spezie di Qarth, grandi come palazzi, navi di Toloso e Yunkai e delle Isole del Basilisco. Così tanti scafi che Quentyn Martell, vedendo per la prima volta il porto dalla tolda dell’Allodola, aveva detto ai suoi amici che sarebbero rimasti là solamente tre giorni.
Ma ormai i giorni erano diventati venti, e loro erano ancora là, sempre senza nave. I capitani della Melantina, della Figlia del triarca e della Bacio della sirena avevano tutti rifiutato. Il secondo ufficiale della Viaggiatore coraggioso aveva loro riso in faccia. Il capitano della Delfino li aveva cacciati, dicendo che non aveva tempo da perdere; il proprietario della Settimo figlio li aveva accusati di essere dei pirati. E questo solo il primo giorno.
Il capitano della Cerbiatto era stato l’unico ad argomentare il suo rifiuto. «È vero che faccio rotta a Oriente» aveva spiegato sorseggiando del vino allungato con acqua. «A sud, circumnavigando Valyria, e quindi verso l’alba. Faremo rifornimento d’acqua e di provviste a Nuova Ghis, per poi indirizzare i remi su Qarth e i Portali di Giada. Ogni viaggio comporta dei pericoli, e quelli lunghi più di tutti gli altri. Perché dovrei correre rischi maggiori deviando verso la Baia degli Schiavisti? La Cerbiatto è la mia fonte di sostentamento. Non intendo rischiare il mio vascello per portare tre folli dorniani in mezzo a una guerra.»
Quentyn aveva cominciato a pensare che avrebbero fatto meglio a comprare un vascello a Planky Town. Ma questo avrebbe attirato su di loro attenzioni indesiderate. Il Ragno Tessitore aveva spie ovunque, anche nelle sale di Lancia del Sole. “Il sangue di Dorne scorrerà se il vostro piano dovesse essere scoperto” lo aveva avvertito il padre, il principe Doran, mentre guardavano i bambini giocare nelle vasche e nelle fontane dei Giardini dell’Acqua. “Nessun dubbio: si tratta di tradimento. Fidatevi solo dei vostri compagni e cercate di evitare di farvi notare.”
Gerris Drinkwater elargì al capitano dell’Avventura il suo sorriso più disarmante. «In verità, non ho tenuto conto di tutti i codardi che ci hanno detto no, ma al Palazzo del Mercante ho sentito dire che tu sei un uomo coraggioso, di quelli che, se il prezzo in oro è giusto, è pronto a rischiare.»
“Un contrabbandiere” pensò Quentyn. Era così che gli altri comandanti, al Palazzo del Mercante, avevano definito il capitano dell’Avventura. “Contrabbandiere e schiavista, mezzo pirata e mezzo imbroglione, eppure la vostra carta migliore potrebbe essere proprio lui” aveva detto il locandiere.
Il capitano dell’Avventura strofinò il pollice sull’indice. «E quanto oro ritenete sufficiente, per un simile viaggio?»
«Tre volte il tuo normale compenso per un passaggio fino alla Baia degli Schiavisti.»
«A testa?» Il capitano mostrò i denti, in quello che secondo lui doveva essere un sorriso, ma che conferì alla sua faccia un’espressione ferina. «Si può fare. Comunque è vero: sono più coraggioso di tanti altri. Quanta fretta avete di salpare?»
«Domattina non sarebbe troppo presto.»
«Affare fatto. Venite qui un’ora prima dell’alba, con i vostri amici e il vino. Meglio salpare mentre Volantis dorme ancora, così nessuno farà troppe domande sulla nostra destinazione.»
«Sia come dici. Un’ora prima dell’alba.»
Il sorriso del capitano si allargò. «Sono contento di potervi essere d’aiuto. Faremo un bel viaggio.»
«Non ho dubbi» rispose Gerris.
A quel punto, il capitano dell’Avventura ordinò della birra di malto per brindare insieme all’impresa.
«Che uomo gentile» commentò poi Gerris, dirigendosi insieme a Quentyn verso la testa del pontile, dove li aspettava l’hathay che avevano preso a nolo. L’aria era torrida e opprimente, il sole talmente vivido da costringere entrambi a socchiudere le palpebre.
«Questa è una città gentile» aggiunse Quentyn. “Talmente dolce da farti marcire i denti.” Ovunque crescevano barbabietole da zucchero, che venivano servite quasi a ogni pasto. I volantiani ne ricavavano anche una minestra violacea, densa e nutriente come miele. Anche i loro vini erano dolci.
«Temo però che il nostro bel viaggio sarà di breve durata. Quell’uomo gentile non intende affatto portarci fino a Meereen. Ha accettato fin troppo rapidamente la nostra offerta. Incasserà il triplo del suo solito compenso, ma una volta che saremo a bordo e abbastanza lontani dalla terraferma, ci taglierà la gola e si prenderà anche il resto del nostro oro.»
«Oppure ci incatenerà a un remo, insieme a quei poveracci di cui abbiamo sentito il tanfo. Penso che a noi occorra un altro genere di contrabbandiere.»
Il conduttore li aspettava accanto al suo hathay. Nel continente occidentale, quel tipo di veicolo veniva chiamato carretto trainato da buoi, anche se la versione volantiana era decisamente più ricercata di qualsiasi suo omologo che Quentyn avesse mai visto a Dorne. Era un hathay trainato da un elefante nano, color neve sporca. Le strade di Vecchia Volantis erano piene di veicoli del genere.
Quentyn avrebbe preferito andare a piedi, ma c’erano molte miglia per arrivare alla loro locanda. Inoltre, il locandiere del Palazzo del Mercante li aveva avvertiti che spostarsi a piedi avrebbe danneggiato la loro immagine agli occhi dei capitani stranieri e dei volantiani. Le persone di lignaggio viaggiavano in palanchini o a bordo di un hathay… e il locandiere aveva giusto un cugino che possedeva alcuni di quei veicoli e che sarebbe stato onorato di metterli a loro disposizione.
Il conduttore, un uomo di bassa statura, con la pelle color tek, gli occhi come due schegge di selce, nudo a parte i sandali e un paio di brachette corte, con il simbolo di una ruota tatuato sulla guancia, era uno degli schiavi del cugino in questione. Dopo aver aiutato Quentyn e Gerris a sedersi sull’asse ricoperta da un cuscino posta fra le due enormi ruote di legno del carretto, si arrampicò sul dorso dell’elefante.
«Al Palazzo del Mercante» ordinò Quentyn «costeggiando il molo.»
A parte il fronte del porto e le sue brezze, le strade e i vicoli di Volantis erano così torridi da annegare chiunque nel proprio sudore, almeno su quel lato del fiume.
Il conduttore gridò qualcosa all’elefante nell’idioma locale. L’animale cominciò a muoversi, facendo ondeggiare la proboscide da una parte all’altra. Il carretto gli andò dietro, mentre il conduttore gridava agli schiavi e ai marinai di togliersi di mezzo. Distinguere gli uni dagli altri era abbastanza facile. Gli schiavi erano tutti tatuati: una maschera di piume azzurre, una folgore che correva dalla mascella alla fronte, delle monete sulla guancia, chiazze di leopardo, teschi, giare. Il maestro Kedry aveva detto che a Volantis c’erano cinque schiavi per ogni uomo libero. Purtroppo, non era vissuto abbastanza per verificarlo di persona. La fine per lui era arrivata la mattina in cui i corsari avevano attaccato l’Allodola.
Quel giorno Quentyn aveva perso altri due amici: William Wells, con le lentiggini e i denti storti, ma impavido con una lancia in pugno, e Cletus Yronwood, di bell’aspetto nonostante lo sguardo pigro, sempre di buonumore e con la risata pronta. Cletus era stato per metà della sua vita il migliore amico di Quentyn, fratello in tutto e per tutto, tranne che di sangue. «Da’ un bacio alla tua sposa da parte mia» gli aveva sussurrato prima di morire.
I corsari erano saliti a bordo nell’oscurità che precede l’alba, mentre l’Allodola era alla fonda al largo delle Terre Contese. L’equipaggio li aveva costretti alla ritirata, ma al prezzo di dodici caduti. Dopo di che i marinai avevano depredato i corsari morti, togliendo loro stivali, cinture e armi, avevano svuotato le loro bisacce, strappato le gemme dai lobi delle orecchie e sfilato gli anelli dalle dita. Uno dei cadaveri era talmente grasso che il cuoco della nave dovette mozzargli le dita con la mannaia per impadronirsi dei suoi anelli. Poi ci vollero tre marinai per sollevare la carcassa e gettarla in mare. I cadaveri degli altri pirati seguirono la stessa sorte, senza una preghiera o un accenno di servizio funebre.
Ai loro caduti fu invece riservato un trattamento molto più rispettoso. I corpi furono cuciti dentro a teli di canapa e zavorrati con pietre, perché potessero affondare più rapidamente. Il capitano dell’Allodola recitò insieme alla ciurma una preghiera per le anime dei compagni uccisi. Quindi si rivolse ai passeggeri dorniani, i tre rimasti dei sei che aveva preso a bordo a Planky Town. Perfino il bestione, pallido, afflitto e malfermo sulle gambe per via del mal di mare, era emerso faticosamente dalle profondità della stiva per un estremo saluto. «Uno di voi dovrebbe pronunciare un discorso di commiato per i vostri defunti, prima che li consegniamo al mare» dichiarò il capitano. Gerris si assunse quel compito: ogni frase era una menzogna, non potendo dire chi erano realmente e per quale motivo si trovavano lì.
“Non avrebbero dovuto fare questa fine”. «Sarà una storia da raccontare ai nostri nipoti» aveva dichiarato Cletus il giorno in cui avevano lasciato il castello di suo padre. Will aveva fatto una smorfia: «Una storia da raccontare alle donzelle di taverna, vorrai dire, nella speranza che sollevino le sottane». Cletus gli aveva dato una manata sulla schiena. «Prima dei nipoti, ci vogliono i figli. E per avere dei figli, devi far sollevare po’ di sottane.» Un po’ di tempo dopo, a Planky Town, i dorniani avevano brindato in onore della futura sposa di Quentyn, facendo battute sconce sulla prima notte di nozze, parlando di quello che avrebbero visto, delle imprese che avrebbero compiuto, della gloria di cui si sarebbero ricoperti. “Invece, tutto quello che hanno avuto è stata una sacca con dentro delle pietre.”
Ma per quanto fosse addolorato dalla perdita di Will e Cletus, quello di cui Quentyn sentiva di più la mancanza era il maestro. Kedry sapeva esprimersi correntemente in tutte le lingue delle nove città libere, e perfino nell’imbastardita parlata ghiscariana usata nella Baia degli Schiavisti. «Maestro Kedry vi accompagnerà» aveva decretato suo padre la notte che erano partiti. «Ascoltate i suoi consigli. Ha dedicato gran parte della vita allo studio delle nove città libere.» Quentyn continuava a domandarsi come sarebbero andate le cose se maestro Kedry fosse stato ancora con loro.
«Sarei pronto a vendere mia madre per un soffio di brezza» disse Gerris mentre passavano tra la folla sul molo. «C’è un’umidità che sembra di essere nella fregna di una vergine, e non è ancora mezzogiorno. Odio questa città.»
Quentyn era pienamente d’accordo con lui. Il caldo umido di Volantis gli toglieva le forze, lasciandogli addosso un senso di sporcizia. Ancora peggiore era la consapevolezza che il calar delle tenebre non avrebbe portato alcun sollievo. Sulle radure collinari delle terre di lord Yronwood, per quanto torride fossero le giornate, le notti erano sempre fresche e asciutte. A Volantis, invece, la notte faceva caldo quasi come di giorno.
«La Dea salpa domattina per Nuova Ghis» gli ricordò Gerris. «Almeno ci porterà più vicini.»
«Nuova Ghis è un’isola e ha un porto molto più piccolo di questo. Saremmo più vicini, certo, ma potremmo ritrovarci tagliati fuori. Inoltre, è alleata con Yunkai.»
La notizia non aveva colto Quentyn di sorpresa. Nuova Ghis e Yunkai erano due città ghiscariane. «E se anche Volantis dovesse stipulare un’alleanza con loro…»
«Dobbiamo trovare una nave del continente occidentale» suggerì Gerris «uno scafo mercantile di Lannisport oppure di Vecchia Città.»
«Pochi si spingono così lontano, e quelli che osano farlo, riempiono le stive di seta e spezie del Mare di Giada, per poi voltare i remi verso casa.»
«E una nave di Braavos? Si sente parlare delle loro vele viola perfino in luoghi remoti come Asshai delle Ombre e le isole del Mare di Giada.»
«I braavosiani discendono da schiavi fuggiti. Non fanno commerci nella Baia degli Schiavisti.»
«Abbiamo abbastanza oro per comprarci una nave?»
«E chi la farà navigare? Tu? Io?» I dorniani non erano mai stati uomini di mare, da quando Nymeria aveva dato fuoco alle sue diecimila imbarcazioni. «I mari intorno a Valyria sono pericolosi e pieni di corsari.»
«Ne ho avuto abbastanza dei corsari. Non compriamo nessuna nave.»
“Per lui è come se fosse tutto un gioco” realizzò Quentyn “come quella volta che ci portò in sei in montagna, alla scoperta dell’antico nascondiglio del re degli avvoltoi.” L’ipotesi che la loro impresa fallisse non sfiorava nemmeno l’immaginazione di Gerris Drinkwater, men che meno che potessero morire. Nemmeno la morte di tre amici sembrava aver intaccato il suo ottimismo. “Questi pensieri li lascia a me. Sa che di natura io sono cauto quanto lui è temerario.”
«Forse il bestione ha ragione» esclamò ser Gerris. «Al diavolo il mare! Possiamo concludere il nostro viaggio via terra.»
«Lo sai perché dice così» ribatté Quentyn. «Preferirebbe morire, piuttosto che mettere piede su un’altra nave.»
Il bestione aveva sofferto il mal di mare fin dal primo giorno. A Lys, gli ci erano voluti quattro giorni per recuperare le forze. Avevano dovuto prendere alloggio in una locanda, in modo che maestro Kedry potesse farlo stendere su un letto di piume e nutrirlo con le sue pozioni, fino a quando un po’ di colorito roseo non era riapparso sulle sue guance.
Era possibile raggiungere Meereen via terra, questo era vero. Ci si arrivava lungo le strade dell’epoca di Valyria. Strade dei Draghi, così erano chiamate le grandi arterie lastricate dell’antica fortezza. Ma quella che correva verso est, da Volantis a Meereen si era guadagnata un nome più sinistro: la Strada del Demone.
«La Strada del Demone è troppo pericolosa e lenta» obiettò Quentyn. «E appena la notizia che la regina controlla Meereen dovesse giungere ad Approdo del Re, Tywin Lannister invierà i suoi uomini.» Il padre di Quentyn ne era certo. «Uomini armati di lame. E se dovessero raggiungerla per primi…»
«Speriamo che i draghi fiutino il loro odore e se li mangino» ribatté Gerris. «Be’, visto che non riusciamo a trovare una nave e che tu non vuoi montare in sella, tanto vale cominciare a cercare un passaggio per tornare a Dorne.»
“Tornare sconfitti a Lancia del Sole con la coda tra le gambe?” La delusione di suo padre sarebbe stata troppo per Quentyn. Inoltre, le Serpi delle Sabbie sarebbero state implacabili. Doran Martell, principe di Dorne, aveva messo il destino del regno nelle sue mani. Non poteva fallire, non finché gli rimaneva vita in corpo.
Il caldo saliva dall’acciottolato mentre l’hathay scricchiolava e sussultava sulle ruote rivestite di ferro, conferendo allo scenario che li circondava un alone quasi irreale. Lungo il fronte del porto, tra i magazzini e i moli si ammassavano negozi e botteghe di ogni tipo. Vi si potevano acquistare ostriche fresche, catene munite di ceppi, tavoli da cyvasse con intarsi di avorio e giada. C’erano anche dei templi, dove i marinai andavano a offrire sacrifici a dèi sconosciuti, e bordelli, dalle cui balconate le donne di piacere chiamavano gli uomini che camminavano per strada.
«Guarda un po’ quella» fece Gerris, mentre passavano davanti a uno dei bordelli. «Credo che sia innamorata di te.»
“Quanto costa l’amore di una baldracca?” Per la verità, le ragazze mettevano Quentyn Martell a disagio, specialmente quelle graziose.
La prima volta che era arrivato a Yronwood, era rimasto come folgorato da Ynys, la figlia maggiore di lord Yronwood. Anche se non le aveva mai rivelato i suoi sentimenti, l’aveva sognata per anni… fino al giorno in cui era stata data in sposa a ser Ryon Allyrion, erede di Grazia degli Dèi. L’ultima volta che l’aveva vista, aveva un bimbo attaccato al seno e un altro alle sottane.
Dopo di lei, era stata la volta delle gemelle Drinkwater, due robuste fanciulle che amavano i falchi, la caccia e le arrampicate, e davanti alle quali arrossiva sempre. Una di loro, anche se Quentyn non aveva mai saputo quale delle due, gli aveva dato il suo primo bacio. Essendo figlie di un modesto cavaliere, erano troppo di basso lignaggio perché lui potesse sposarle, ma Cletus non riteneva che questo fosse un valido motivo per smettere di baciarle. «Una volta che avrai preso moglie, potrai prendere una di loro come amante. O anche tutte e due, perché no?» Ma Quentyn aveva parecchie argomentazioni contrarie, per cui da quel momento in poi aveva fatto del suo meglio per evitarle entrambe, e non c’erano stati altri baci.
In tempi più recenti, la figlia più giovane di lord Yronwood aveva iniziato a seguirlo nelle stanze del castello. Gwyneth aveva circa dodici anni; era una ragazzetta magrolina i cui occhi scuri e capelli castani la distinguevano nettamente in quella casa di bionde con gli occhi azzurri. Gwyneth però era molto sveglia, e svelta sia con le parole sia con le mani, e amava ripetere a Quentyn che doveva aspettare che lei avesse il suo primo ciclo prima di poterla sposare.
Ma tutto questo era stato prima che il principe Doran lo convocasse nei Giardini dell’Acqua. Ora, la più splendida donna del mondo lo stava aspettando a Meereen, e lui intendeva assolvere il proprio compito e prenderla in sposa. “Non mi può respingere. Terrà fede all’accordo.” Daenerys Targaryen aveva bisogno di Dorne per riconquistare i Sette Regni, quindi aveva bisogno di lui. “Questo però non vuol dire che mi amerà. Potrei anche non piacerle.”
La strada faceva una curva dove la Rhoyne andava a gettarsi nel mare, e su quel tratto erano radunati svariati venditori di animali, che offrivano lucertole ocellate, enormi serpenti striati, agili scimmiette con la coda a strisce e svelte mani rosate.
«Forse la tua argentea regina gradirebbe una di quelle scimmiette» suggerì Gerris.
Quentyn non aveva idea di che cosa Daenerys Targaryen potesse gradire. Aveva promesso al principe suo padre di riportarla con sé a Dorne, ma si domandava con sempre maggior frequenza se era davvero all’altezza di quel compito.
“Un compito che non mi sono scelto” pensava.
Oltre l’ampia distesa azzurra della Rhoyne, poteva vedere la Muraglia Nera eretta dai valyriani all’epoca in cui Volantis era solo un avamposto del loro impero. Un grande ovale di pietra vulcanica alto duecento piedi, e abbastanza largo da permettere a sei bighe trainate ognuna da quattro cavalli di percorrere affiancate la sua sommità, come accadeva ogni anno durante la celebrazione della fondazione della città. Gli stranieri, i forestieri e i liberti non potevano varcare la porta della Muraglia Nera, se non dietro specifico invito degli abitanti, eredi dell’antico sangue, i cui antenati risalivano a Valyria stessa.
Il traffico in quel punto era più denso. Si trovavano nei pressi dell’estremità occidentale del Lungo Ponte, che collegava le due metà della città. Carri, carrozze e hathay affollavano le strade, tutti diretti al ponte o provenienti dal ponte. C’erano schiavi ovunque, numerosi come scarafaggi, che si affrettavano a eseguire gli ordini dei loro padroni.
Da una strada laterale non lontano dalla Piazza della Pescheria e dal Palazzo del Mercante si levarono delle grida e come dal nulla apparve una dozzina di lancieri Immacolati, con le armature decorate e i mantelli di pelle di tigre, che a gesti si facevano largo tra la folla perché il triarca sul suo elefante potesse passare con la sua scorta. L’elefante del triarca era un colosso dalla pelle grigia ricoperto da un’elaborata corazza smaltata che cigolava a ogni movimento dell’animale. L’incastellatura sul dorso era talmente alta da strusciare contro la parte superiore dell’arcata ornamentale sotto cui stava transitando.
«I triarchi sono considerati di un rango così elevato, che i loro piedi non possono toccare terra durante tutto l’anno in cui sono in carica» fece presente Quentyn al compagno. «Si devono spostare sempre a dorso di elefante.»
«Bloccando le strade e seminando cumuli di sterco che quelli come noi devono stare attenti a non pestare camminando» aggiunse Gerris. «Per quale motivo a Volantis ci vogliano tre principi, mentre da noi a Dorne ne basta uno solo, non l’ho mai capito.»
«I triarchi non sono né re né principi. Volantis è una città libera, come l’antica Valyria. Tutti i proprietari terrieri nati liberi condividono il potere. Perfino le donne hanno diritto di voto, se possiedono delle terre. I tre triarchi vengono scelti tra le famiglie nobili che possono comprovare una diretta discendenza dall’antica Valyria, per servire fino al primo giorno dell’anno. Tutte cose che sapresti anche tu, se solo ti fossi preso la briga di leggere il libro che maestro Kedry ti ha dato.»
«Era senza figure.»
«C’erano le mappe.»
«Quelle non contano. Se il maestro mi avesse detto che parlava di tigri ed elefanti, forse mi sarei cimentato. Ma aveva tutta l’aria di un trattato di storia.»
Quando il loro hathay arrivò ai margini della Piazza della Pescheria, l’elefante sollevò la proboscide e lanciò un barrito simile al verso di una gigantesca oca bianca, esitando a immergersi nell’intrico di carretti, palanchini e pedoni che si trovava davanti. Il conduttore lo spronò con i talloni, per farlo proseguire.
I mercanti di pesce schierati in forze offrivano a gran voce il pescato del mattino. Quentyn riusciva a stento a cogliere una parola su due, ma non aveva bisogno di capire che cosa dicevano per riconoscere il pesce. C’erano merluzzi, aringhe, sardine, barili di vongole e cozze. Una bancarella esponeva in bella mostra una fila di anguille, un’altra una testuggine gigante, appesa per le zampe e pesante quanto un cavallo. I granchi zampettavano in barili di alghe e salamoia. Parecchi venditori friggevano tranci di pesce con cipolle e barbabietole, oppure proponevano stufato piccante di pesce cotto in piccole pentole di ferro.
Al centro della piazza, sotto la statua fessurata e senza testa di chissà quale triarca defunto, aveva cominciato a radunarsi una piccola folla per assistere allo spettacolo improvvisato di alcuni nani. Ricoperti con delle corazze di legno, quei cavalieri in miniatura si apprestavano a giostrare. Quentyn vide uno di loro salire sul dorso di un cane, un altro balzò in groppa a un maiale… per poi scivolare giù dalla parte opposta, tra le risate del pubblico.
«Sembra divertente» disse Gerris. «Ci fermiamo a guardarli combattere? Una risata è quello che ti ci vuole, Quent. Sembri un vecchio che da sei mesi non va alla latrina.»
“Ho solo diciotto anni, sei meno di te” pensò Quentyn Martell. “Non sono vecchio.” Invece disse: «Non ho bisogno di nani buffoni… a meno che non abbiano una nave».
«Una nave minuscola, suppongo.»
Dall’alto dei suoi quattro piani, il Palazzo del Mercante dominava la zona di carico e scarico, i moli e i magazzini tutto attorno. Qui i mercanti di Vecchia Città e Approdo del Re si mescolavano con le loro controparti di Braavos, Pentos, Myr, con gli irsuti ibbenesi, i pallidi viaggiatori di Qarth, gli uomini dalla pelle nera come il carbone delle Isole dell’Estate, con i loro mantelli di piume e perfino con gli stregoni mascherati di Asshai delle Ombre.
Appena smontato dall’hathay, Quentyn sentì il caldo delle pietre attraverso il cuoio degli stivali. Fuori del Palazzo del Mercante, all’ombra, era stato sistemato un tavolo con cavalletti, decorato con i vessilli a strisce bianche e blu che ondeggiavano al minimo alito di vento. Attorno al tavolo sedevano quattro mercenari dallo sguardo duro, che cercavano di richiamare l’attenzione di tutti gli uomini e i ragazzi che passavano. “La Compagnia del Vento” riconobbe Quentyn. I sergenti stavano cercando di rimpolpare con carne fresca i ranghi prima di salpare verso la Baia degli Schiavisti. “E chi è disposto ad arruolarsi con loro è un’altra spada per Yunkai, un’altra lama pronta a bere il sangue della mia futura sposa.”
Uno dei sergenti li apostrofò a gran voce.
«Non parlo la tua lingua» rispose Quentyn. Anche se sapeva leggere e scrivere l’alto valyriano, era poco pratico a parlarlo. E la mela chiamata Volantis era rotolata a notevole distanza dall’albero di Valyria.
«Occidentali?» rispose il mercenario nella lingua comune dei Sette Regni.
«Dorniani. Il mio padrone è un mercante di vini.»
«Padrone? Che si fotta. Sei forse uno schiavo? Vieni con noi e diventa padrone di te stesso. Oppure preferisci crepare nel tuo letto? Ti insegneremo a tirare di spada e di lancia. Cavalcherai in battaglia con il Principe Straccione e tornerai a casa più ricco di un lord. Ragazzini, fanciulle, oro, tutto quello che vuoi, se sei abbastanza uomo da prendertelo. Noi siamo la Compagnia del Vento, e alla dea della strage glielo mettiamo nel culo.»
Due dei mercenari si misero a cantare, ululando i versi di una marcia militaresca. Quentyn capì quanto bastava. «Siamo la Compagnia del Vento» dicevano. «Portaci a Oriente fino alla Baia degli Schiavisti: uccideremo il Re Macellaio e fotteremo la Regina dei Draghi.»
«Se Cletus e Will fossero ancora tra noi» commentò Gerris «torneremmo qui con il bestione e faremmo a pezzi tutta questa marmaglia.»
“Cletus e Will però sono morti.” «Non prestare loro attenzione» rispose Quentyn.
Mentre lui e Gerris oltrepassavano la porta del Palazzo del Mercante, i mercenari urlarono loro dietro battute di scherno, chiamandoli codardi senza sangue nelle vene e pavide femminucce.
Il bestione li aspettava nelle stanze al primo piano. La locanda era stata caldamente raccomandata dal capitano dell’Allodola, ma non per questo Quentyn si era fidato a lasciare i loro averi senza protezione. Tutti i porti brulicavano di ladri, ratti e puttane, e a Volantis più che altrove.
«Stavo quasi per venirvi a cercare» disse ser Archilbald Yronwood, togliendo il chiavistello per lasciarli entrare.
Era stato suo cugino Cletus a chiamarlo il “bestione”, un soprannome quanto mai azzeccato. Archibald Yronwood era alto sei piedi e mezzo: spalle larghe, ventre enorme, gambe come tronchi d’albero, mani grosse come prosciutti e niente collo. Una malattia infantile gli aveva fatto cadere tutti i capelli. A Quentyn quel cranio sembrava una pietra rosa e liscia.
«E allora» brontolò il bestione, «quel contrabbandiere che cos’ha detto? Ce l’abbiamo, questa barca, oppure no?»
«Nave» lo corresse Quentyn. «Aye, è pronto a prenderci a bordo, ma solo per portarci fino all’inferno più vicino.»
Gerris si lasciò cadere sul letto malandato e si tolse gli stivali. «Dorne sta diventando per me ogni giorno più attraente.»
Il bestione replicò: «Io insisto che dovremmo prendere la Strada del Demone. Magari non è pericolosa come dicono. E se anche lo fosse, sarebbe solo una gloria maggiore per coloro che si avventurano. E chi oserebbe darci noia? Drink con la sua spada e io con la mia mazza, nessun demone ci può resistere.»
«E se Daenerys muore prima che riusciamo a raggiungerla?» ribatté Quentyn. «Dobbiamo trovare una nave. Piuttosto che niente anche l’Avventura.»
Gerris si fece una risata. «Devi essere proprio impaziente di vedere Daenerys se sei pronto a respirare per mesi quel lezzo. Dopo tre giorni, scommetto che sarei il primo a implorare quei bastardi di uccidermi. No, mio principe, ti prego, non l’Avventura.»
«Hai un’idea migliore?» chiese Quentyn.
«Me n’è giusto venuta in mente una. Ha i suoi rischi, e premetto che non è propriamente qualcosa di onorevole… Ma ti porterà dalla tua regina più in fretta della Strada del Demone.»
«Allora sentiamola» fece Quentyn Martell.