L’esercito del re partì da Deepwood Motte nella luce di un’alba dorata, snodandosi da dietro le palizzate di tronchi come un lungo serpente d’acciaio che emerge dalla sua tana.
I cavalieri del Sud cavalcavano in armatura e cotta di maglia, con il metallo ammaccato e segnato dalle battaglie combattute, ma ancora lucente quanto bastava per scintillare quando intercettava i raggi del sole. Sbiaditi e macchiati, laceri e rammendati, i vessilli e le sopratuniche erano comunque un tripudio di colori in mezzo al bosco invernale: turchese e arancione, rosso e verde, viola e azzurro e oro baluginavano tra il marrone degli alberi spogli, il grigioverde degli alberi-sentinella, il grigio dei tumuli di neve sporca.
Ogni cavaliere aveva scudieri, servi e armigeri. Dietro di loro venivano armieri, cuochi, stallieri; ranghi di soldati muniti di lance, asce, archi, veterani brizzolati di cento battaglie e ragazzi inesperti che ancora dovevano combattere la prima. Davanti a loro marciavano gli uomini dei clan delle colline; i capi e i campioni in sella a ronzini dal pelo lungo e ispido, al loro fianco camminavano con passo veloce gli irsuti guerrieri ricoperti di pellicce, cuoio bollito e vecchia maglia di ferro. Alcuni avevano la faccia dipinta di verde e di marrone, e fronde di arbusti in testa, per mimetizzarsi tra gli alberi.
In coda alla colonna principale seguiva la colonna di salmerie: muli, cavalli, buoi, un miglio di carriaggi e carretti, carichi di cibo, foraggio, tende e altre provviste. Infine la retroguardia, composta da altri cavalieri in armatura e cotta di maglia, con torme di fiancheggiatori a cavallo di pattuglia, seminascosti, per assicurarsi che l’avversario non potesse coglierli di sorpresa.
Asha Greyjoy viaggiava con le salmerie, su un carretto coperto, con due enormi ruote bordate di ferro, con i ceppi al polso e alla caviglia, sorvegliata giorno e notte dall’Orsa, che russava addirittura peggio di un uomo. Sua grazia re Stannis non voleva correre alcun rischio che il suo trofeo riuscisse a fuggire. Intendeva portare Asha a Grande Inverno, per mostrare ai lord del Nord la figlia della piovra incatenata e spezzata, come prova del potere del sovrano.
Squilli di tromba salutarono la partenza della colonna. Le punte delle lance scintillavano nella luce del sole nascente, e tutto attorno l’erba brillava nella brina del mattino. Tra Deepwood Motte e Grande Inverno c’erano cento leghe di foresta. Trecento miglia a volo di corvo. «Quindici giorni» si dicevano i cavalieri.
«Robert Baratheon ce ne avrebbe messi dieci» Asha udì affermare lord Fell con orgoglio. Suo nonno era stato abbattuto da Robert in persona a Sala dell’Estate, il che per qualche ragione aveva elevato agli occhi del nipote l’uccisore a livello di dio della guerra. «Robert sarebbe già entrato a Grande Inverno due settimane fa, scaccolandosi alla faccia di Bolton dall’alto delle fortificazioni.»
«È meglio che tu questo a Stannis non lo dica» suggerì Justin Massey «altrimenti potrebbe farci marciare non solo di giorno ma anche di notte.»
“Questo re vive nell’ombra del fratello” pensò Asha.
La caviglia le infliggeva fitte lancinanti ogni volta che cercava di caricare il peso del corpo. Qualcosa dentro doveva essersi rotto, Asha non aveva dubbi. Il gonfiore a Deepwood era diminuito, ma il dolore restava. A quel punto, una semplice storta si sarebbe già sistemata. Ogni volta che si muoveva, i suoi ferri tintinnavano. I bracciali le scorticavano il polso, e anche l’orgoglio. Ma era il prezzo della sottomissione.
«Nessuno è mai morto per aver piegato il ginocchio» le aveva detto una volta suo padre. «Chi s’inginocchia può risollevarsi, con una lama in pugno. Chi non s’inginocchia resta morto, con le gambe rigide e basta.» Balon Greyjoy aveva confermato la verità di quelle parole quando la sua prima ribellione venne schiacciata: la piovra si era inginocchiata al cospetto del cervo e del meta-lupo, ma solo per risollevarsi nuovamente una volta che Robert Baratheon e Eddard Stark erano morti.
E così, a Deepwood Motte, la figlia del kraken, la piovra abissale, aveva fatto lo stesso quando era stata gettata davanti al re, incatenata e zoppa (anche se miracolosamente non stuprata), con la caviglia in un inferno di sofferenza. «Mi arrendo, vostra grazia. Fa’ di me quello che vuoi. L’unica cosa che ti chiedo è di risparmiare i miei uomini.» Qarl, Tristifer e i pochi altri sopravvissuti al mattatoio notturno nella Foresta del Lupo erano tutto quello che ad Asha importava. Ne rimanevano soltanto nove. “Noi nove straccioni” li chiamava Cromm. E lui era quello ferito più gravemente.
Stannis le aveva concesso le loro vite. Eppure, Asha non percepiva in quell’uomo alcuna reale misericordia. Era determinato, oltre ogni dubbio. E non mancava di coraggio. Gli uomini dicevano che era giusto… e se la sua era una giustizia dura, brutale, be’, Asha Greyjoy vivendo sulle Isole di Ferro ci era già abituata. In ogni caso, lei non riusciva proprio a farsi piacere quel re. I suoi occhi azzurri, infossati, sembravano sempre stringersi nel sospetto e, appena sotto la loro superficie, ribolliva una furia glaciale. Per Stannis Baratheon, la vita di Asha Greyjoy valeva poco o nulla. Era solo un ostaggio, un trofeo per dimostrare al Nord che era in grado di schiacciare gli uomini di ferro.
“Che stupido!” Esibire una donna in catene non avrebbe messo in soggezione nessun uomo del Nord, se Asha aveva capito com’era fatta quella genia, e il suo valore come ostaggio assolutamente nullo. Adesso sulle Isole di Ferro suo zio regnava, e a Occhio di Corvo della vita o della morte di Asha non importava un accidente. Forse importava qualcosa a quel vecchio rottame di marito che Euron le aveva appioppato, ma Erik il Fabbro non aveva abbastanza conio per pagare il suo riscatto. Ma non c’era modo di spiegare queste cose a Stannis Baratheon. La sua stessa femminilità sembrava oltraggiarlo. Agli uomini delle terre verdi piacevano le loro donne morbide e delicate, ammantate di seta, Asha lo sapeva, non amazzoni rivestite di cuoio e cotta di maglia, con un’ascia da lancio per mano. Ma la sua breve conoscenza del re a Deepwood Motte l’aveva convinta che Stannis non avrebbe avuto un’opinione migliore di lei neanche se avesse indossato un abito scollato. Perfino con la moglie di Galbart Glover, la pia lady Sybelle, Stannis era corretto e cortese, ma visibilmente a disagio. Questo re del Sud sembrava essere uno di quegli uomini secondo i quali le donne appartengono a un’altra razza, estranea ed enigmatica come i giganti, gli elfi e i figli della foresta. Anche l’Orsa gli faceva digrignare i denti.
Esisteva un’unica donna a cui Stannis Baratheon desse ascolto, e quella donna l’aveva lasciata alla Barriera. «Per quanto io preferirei che anche lei fosse qui con noi» aveva ammesso ser Justin Massey, il cavaliere con i capelli biondi che comandava la colonna di salmeria. «L’ultima volta che siamo andati in battaglia senza lady Melisandre fu alle Acque Nere, quando lo spettro di lord Renly ci calò addosso e mandò metà del nostro esercito in fondo alla baia.»
«L’ultima volta?» disse Asha perplessa. «Quella negromante era anche a Deepwood Motte? Io non l’ho vista.»
«Quella non è neanche stata una battaglia» rispose ser Justin sorridendo. «I tuoi uomini di ferro hanno combattuto valorosamente, mia lady, ma noi eravamo molti di più di voi, e vi abbiamo anche colti di sorpresa. Grande Inverno sa che stiamo arrivando. E Roose Bolton ha lo stesso numero di uomini che abbiamo noi.»
“Se non di più” pensò Asha.
Anche i prigionieri hanno le orecchie, e Asha aveva sentito tutti i discorsi a Deepwood Motte, quando re Stannis e i suoi comandanti discutevano di quella marcia. Ser Justin era stato contrario fin dall’inizio, e così molti cavalieri e lord arrivati dal Sud insieme a Stannis. Ma i lupi delle colline avevano insistito: non si doveva tollerare che Roose Bolton occupasse Grande Inverno, inoltre bisognava salvare la figlioletta di Ned Stark dalle grinfie del suo bastardo. Così dissero Morgan Liddle, Brandon Norrey, Wull Grosso Secchio, i Flint e perfino l’Orsa. «Cento leghe tra Deepwood Motte e Grande Inverno» disse Artos Flint, la notte in cui le discussioni nella sala lunga di Galbart Glover ribollirono fino a tracimare. «Trecento miglia a volo di corvo.»
«Una lunga marcia» commentò un cavaliere di nome Corliss Penny.
«Non più di tanto» insisté ser Godry, il grosso cavaliere che altri chiamavano lo Sterminatore di Giganti. «Abbiamo già fatto molta strada. Il Signore della Luce illuminerà il nostro cammino.»
«E quando saremo arrivati a Grande Inverno?» ribatté Justin Massey. «Due cinte di mura con un fossato in mezzo, e le mura interne alte cento piedi. Bolton non marcerà di certo fuori dalla fortezza per affrontarci in campo aperto, e noi non abbiamo abbastanza scorte per reggere un assedio.»
«Arnolf Karstark unirà le sue forze alle nostre, questo non va mai dimenticato» disse Harwood Fell. «Lo stesso farà Mors Umber. Avremo tanti uomini del Nord quanti ne ha lord Bolton. E i boschi a nord del castello sono fitti. Assedieremo i torrioni, costruiremo arieti…»
“E morirete a migliaia” pensò Asha.
«Faremmo meglio a svernare qui» suggerì lord Peasebury.
«Svernare qui?» ruggì Grosso Secchio. «Quanto cibo e quante vettovaglie pensi che ci siano nei magazzini di lord Glover?»
A quel punto, fu ser Richard Horpe, il cavaliere dal volto sfigurato e con le falene testa di morto sulla tunica, a rivolgersi a Stannis. «Vostra grazia, tuo fratello Robert…»
Il re lo interruppe. «Quello che mio fratello Robert avrebbe fatto lo sappiamo tutti. Robert sarebbe andato al galoppo fino alle porte di Grande Inverno da solo, le avrebbe abbattute con la sua mazza da guerra per poi cavalcare tra le rovine, sgozzare Roose Bolton con la mano sinistra e sfondare il cranio al suo bastardo con la destra.» Stannis si alzò in piedi. «Io non sono Robert. Ma noi marceremo, noi libereremo Grande Inverno… o moriremo nel tentativo.»
Per quanti dubbi potessero avere i lord, gli uomini del popolo invece sembravano confidare nel loro re. Stannis aveva annientato i bruti di Mance Rayder alla Barriera e sbaragliato Asha e i suoi uomini di ferro a Deepwood Motte: era il fratello di Robert, vincitore nella famosa battaglia navale al largo di Isola Bella, l’uomo che aveva retto l’assedio di Capo Tempesta durante la Ribellione di Robert. E portava al fianco la spada di un eroe, la lama magica chiamata Portatrice di luce, il cui chiarore illuminava la notte.
«I nostri nemici non sono affatto formidabili come sembrano» garantì Justin Massey ad Asha il primo giorno di marcia. «Roose Bolton è temuto, ma poco amato. Quanto ai suoi amici Frey… il Nord non ha certo dimenticato le Nozze Rosse. Ogni lord a Grande Inverno ha perduto dei parenti in quel massacro. A Stannis basterà far pagare a Bolton un tributo di sangue, e gli uomini del Nord lo abbandoneranno.»
“Questo è quello che tu speri” pensò Asha “ma il re deve prima riuscirci. Solo uno stolto diserta la parte vincente.”
Ser Justin tornò al carro di Asha almeno una dozzina di volte, quel giorno, per portarle cibo, bevande e notizie sulla marcia. Era un uomo facile al sorriso e dalle infinite facezie, grosso e in carne, con le guance rosate, gli occhi azzurri e una massa di capelli biondi, pallidi come lino, perennemente scompigliati dal vento: un carceriere sollecito, sempre attento al benessere della sua prigioniera.
«Ti vuole» commentò l’Orsa, dopo la terza visita di ser Justin.
Il suo vero nome era Alysanne della Casa Mormont, ma quel soprannome le calzava a pennello, proprio come la cotta di maglia che indossava. Bassa di statura, massiccia, muscolosa, l’erede dell’Isola dell’Orso aveva cosce grosse, seni grossi e mani grosse disseminate di calli. Anche per dormire indossava la cotta di maglia sotto le pellicce, e sotto di essa il cuoio bollito, e sotto il cuoio bollito una vecchia pelle di pecora, rivoltata all’interno per tenere più caldo. Tutti quegli strati la facevano apparire tanto larga quanto alta. “E altrettanto feroce.” Certe volte per Asha era difficile ricordare che lei e l’Orsa avevano quasi la stessa età.
«Vuole le mie terre» replicò Asha. «Vuole le Isole di Ferro.» Riconosceva i segnali. Li aveva già visti in precedenza in altri pretendenti. I possedimenti ancestrali dei Massey, nel lontano Sud, erano per ser Justin da considerarsi ormai perduti, quindi doveva sperare in un matrimonio vantaggioso oppure rassegnarsi a essere nulla di più di un cavaliere al seguito del re. Stannis aveva frustrato le sue speranze di sposare quella principessa dei bruti di cui Asha aveva tanto sentito parlare, così ora ser Justin aveva messo gli occhi addosso a lei. Sognava senza dubbio di metterla sul Trono del Mare a Pyke e di dominare per interposta persona, quale suo lord e signore. Il che avrebbe evidentemente implicato sbarazzarsi del suo attuale lord e signore… per non parlare poi dello zio che aveva imposto quel matrimonio. “Poco credibile: Occhio di Corvo si mangerebbe il carnoso ser Justin a colazione, e senza poi neanche ruttare.”
Comunque non aveva importanza. Chiunque lei avesse sposato, le terre di suo padre non le sarebbero mai appartenute. Gli uomini di ferro non conoscevano il perdono, e Asha era stata sconfitta due volte: la prima all’acclamazione di re da suo zio Euron, la seconda a Deepwood Motte da Stannis. Era più che sufficiente per bollarla come inadatta a regnare. Sposare Justin Massey, o uno qualsiasi dei signorotti di Stannis Baratheon, avrebbe fatto più danni che altro. “La figlia della piovra dopotutto ha dimostrato di essere soltanto una donna” avrebbero detto i capitani e il re. “Guarda come apre le gambe a quel lord delle molli terre verdi.”
Tuttavia, se ser Justin voleva cercare di ottenere i suoi favori con cibo, vino e parole, Asha non lo avrebbe certo scoraggiato. Era una compagnia migliore della taciturna Orsa, e Asha era comunque sola in mezzo a cinquemila nemici. Tristifer Botley, Qarl la Fanciulla, Cromm, Roggon e il resto della sua banda coperta di sangue, il loro stesso sangue, erano rimasti a Deepwood Motte, nelle segrete di Galbart Glover.
Il primo giorno l’esercito coprì ventidue miglia, guidato dagli uomini che lady Sybelle aveva loro concesso, esploratori e cacciatori che avevano giurato fedeltà a Deepwood, appartenenti a clan dai nomi evocativi, come Forrester e Woods, Branch e Bole, foresta e boschi, ramo e tronco. Il secondo giorno l’esercito avanzò di altre ventiquattro miglia, mentre la sua avanguardia passava dalle terre dei Glover per addentrarsi nella Foresta del Lupo. «R’hllor, concedi a noi la tua luce affinché ci guidi in questa oscurità» pregarono quella sera i credenti, raccolti attorno a un gigantesco fuoco davanti al padiglione del re. Cavalieri del Sud e armigeri: erano davvero tanti. Asha li avrebbe definiti uomini del re, ma altri provenienti dalle Terre della Tempesta e dalle Terre della Corona li chiamavano uomini della regina… anche se la regina che seguivano era la strega rossa al Castello Nero, non la moglie che Stannis Baratheon aveva lasciato al Forte Orientale.
«Oh, Signore della Luce, t’imploriamo, posa su di noi il tuo sguardo infuocato, e tienici al sicuro e al caldo» cantarono alle fiamme «perché la notte è oscura e piena di terrori.»
L’invocazione fu guidata da un grosso cavaliere, chiamato ser Godry Farring. “Godry lo Sterminatore di Giganti. Un grande nome per un piccolo uomo.” Sotto la corazza e la cotta di maglia, Farring era largo di torace e aveva muscoli poderosi. Ad Asha sembrava anche arrogante e vanesio, avido di gloria, sordo alla cautela, goloso di lodi e sprezzante verso il popolino, i lupi e le donne. In sostanza, non dissimile dal suo re.
«Procurami un cavallo» disse Asha a ser Justin, quando si avvicinò al carro con mezzo prosciutto. «Queste catene mi fanno impazzire. Non tenterò di fuggire. Hai la mia parola.»
«Vorrei poterlo fare, mia lady. Ma tu sei prigioniera del re, non mia.»
«Quindi il tuo re non accetta la parola di una donna?»
L’Orsa grugnì. «Perché dovremmo fidarci della parola di un uomo o di una donna di ferro, dopo quello che tuo fratello Theon ha fatto a Grande Inverno?»
«Io non sono Theon» insisté Asha… ma le catene restarono al loro posto.
Ser Justin ripartì al galoppo verso il fondo della colonna, e Asha si ritrovò a ricordare l’ultima volta che aveva visto sua madre. Era stato a Harlaw, nella fortezza di Dieci Torri. Nella stanza di sua madre brillava una candela, ma sotto il baldacchino polveroso, il grande letto scolpito era vuoto. Lady Alannys sedeva vicino alla finestra, a guardare il mare. «Hai portato il mio piccolino?» le aveva chiesto, con le labbra tremanti. «Theon non è potuto venire» aveva risposto Asha, osservando la rovina della donna dalla quale era nata, una madre che aveva perso due dei suoi figli. E il terzo…
“Mando a ciascuno di voi un pezzo del principe.”
Qualsiasi cosa fosse accaduta nella battaglia a Grande Inverno, Asha Greyjoy non pensava che suo fratello sarebbe sopravvissuto. “Theon Voltagabbana. Perfino l’Orsa vuole la sua testa su una picca.”
«Tu hai dei fratelli?» chiese alla sua guardiana.
«Sorelle» rispose Alysane Mormont, brusca come sempre. «Eravamo cinque. Tutte femmine. Lyanna è tornata all’Isola dell’Orso. Lyra e Jory sono con nostra madre. Dacey è stata uccisa.»
«Alle Nozze Rosse.»
«Aye.» Alysane osservò Asha per qualche momento. «Ho un figlio. Ha solo due anni. Mia figlia ne ha nove.»
«Hai cominciato presto.»
«Troppo presto. Ma è sempre meglio che troppo tardi.»
“Questa frecciata era per me” pensò “ma così sia.” «Sei sposata, quindi.»
«No. Il padre dei miei figli è un orso.» Alysane sorrise. Aveva i denti storti, ma nel suo sorriso c’era qualcosa di solidale. «Le donne Mormont sono metamorfi. Ci tramutiamo in orse e andiamo ad accoppiarci nella foresta. Lo sanno tutti.»
Asha rispose al suo sorriso. «Le donne Mormont sono anche guerriere.»
Il sorriso di Alysane svanì. «Ciò che noi siamo è ciò che voi uomini di ferro ci avete costretto a essere. Sull’Isola dell’Orso ogni bambino impara a temere le piovre che emergono dagli abissi.»
“L’Antica Via.” Asha guardò altrove, le sue catene tintinnarono debolmente.
Il terzo giorno di marcia, la Foresta del Lupo cominciò a stringersi attorno a loro, e le strade scavate da solchi si ridussero a piste di animali, che presto si rivelarono troppo strette per i carri più grossi. Qua e là, il loro tragitto si dipanava oltre punti di riferimento conosciuti: un’altura pietrosa che se osservata sotto una certa angolazione sembrava una testa di lupo, una cascata semicongelata, un arco di pietra naturale incorniciato da muschio grigioverde. Asha conosceva tutti quei posti. Ci era già passata, cavalcando verso Grande Inverno per convincere suo fratello Theon ad abbandonare la propria conquista e a tornare con lei sano e salvo a Deepwood Motte. “Ma ho fallito anche in questo.”
Quel giorno percorsero quattordici miglia, e furono soddisfatti.
All’imbrunire il conduttore portò il carro fuori dal tracciato, sotto un albero. Mentre l’uomo toglieva i finimenti ai cavalli, ser Justin arrivò al trotto e tolse i ceppi ad Asha. Lui e l’Orsa la scortarono attraverso l’accampamento fino alla tenda del re. Anche se era una prigioniera, rimaneva pur sempre una Greyjoy di Pyke, e Stannis era compiaciuto di nutrirla gettandole i suoi resti mentre cenava assieme ai capitani e ai comandanti.
Il padiglione del re era ampio quasi quanto la sala lunga di Deepwood Motte, ma a parte le dimensioni aveva ben poco di grandioso. Le pareti di rigida tela gialla erano assai sbiadite, macchiate dal fango e dall’acqua, costellate da visibili chiazze di muffa. Sulla sommità del palo centrale pendeva lo stendardo reale, una testa di cervo all’interno di un cuore fiammeggiante in campo oro. Su tre lati era attorniato dai padiglioni dei signorotti del Sud che avevano seguito Stannis nella sua marcia verso nord. Sul quarto lato ruggiva il grande fuoco notturno, turbini di fiamme salivano verso il cielo che via via si oscurava.
Una dozzina di uomini stava spaccando la legna per alimentare il fuoco quando Asha fece il suo ingresso zoppicante insieme alla scorta. “Uomini della regina.” Il loro dio era R’hllor il Rosso, un dio molto geloso. Ai loro occhi, il dio di Asha, il Dio Abissale delle Isole di Ferro, era un demone, e se lei non si fosse convertita al Signore della Luce sarebbe stata dannata e condannata. “Mi brucerebbero volentieri come quei ciocchi di legna e quei rami spezzati.” Dopo lo scontro a Deepwood Motte, Asha stessa aveva udito alcuni di loro invocare per lei proprio quel genere di esecuzione. Stannis aveva rifiutato.
Il re era in piedi all’esterno della tenda, a fissare le fiamme. “Che cosa vede in quelle fiamme? Vittoria? Disastro? Il volto del suo rosso dio furibondo?” Gli occhi di Stannis erano come due baratri, la sua barba rasata non più di un’ombra scura sulle guance e sulla mascella ossuta. Eppure nel suo sguardo c’era molta determinazione, una ferrea ferocia che disse ad Asha che quell’uomo non avrebbe mai, e poi mai, deviato dalla propria strada.
Mise un ginocchio a terra al suo cospetto. «Sire.» “Sono abbastanza umile per te, vostra grazia? Sono sconfitta, sottomessa e spezzata proprio come piace a te?” «Toglimi questi ferri dai polsi, t’imploro. Permettimi di cavalcare. Non tenterò di fuggire.»
Stannis la guardò nello stesso modo in cui si guarda un cane che pensi stia per saltarti addosso. «Quei ferri te li sei meritati.»
«È vero. Ora ti offro i miei uomini, le mie navi, la mia perizia.»
«Le tue navi sono già mie, oppure sono state bruciate. I tuoi uomini… quanti ne rimangono? Dieci? Dodici?»
“Nove. Sei, contando solo quelli abbastanza in forze per combattere.” «Dagmar Mascella Spaccata tiene ancora Piazza di Thorren. È un grande guerriero, e un leale servitore della Casa Greyjoy. Io posso consegnarti quel castello, assieme alla sua guarnigione.» “Forse” avrebbe potuto aggiungere Asha, ma sapeva che esplicitare dubbi al re non avrebbe aiutato la sua causa.
«Piazza di Thorren non vale nemmeno le croste di fango sotto i miei stivali. Quello che conta è Grande Inverno.»
«Toglimi questi ceppi e lascia che ti aiuti a prenderla, sire. Il reale fratello di vostra grazia era celebre per tramutare gli avversari sconfitti in amici. Fa’ di me un tuo uomo.»
«Gli dèi non ti hanno fatta uomo. Come potrei farlo io?» Stannis tornò a fissare le fiamme arancioni, e tutto ciò che vedeva nel loro torcersi.
Ser Justin Massey prese Asha per un braccio, e la tirò all’interno della tenda reale. «È stato poco saggio, da parte tua, mia lady» le disse. «Non bisogna mai parlare a sua grazia di Robert.»
“Avrei dovuto pensarci meglio.” Asha sapeva come andavano le cose con i fratelli minori. Si ricordava di Theon da ragazzo, un bambino timido che viveva nella soggezione, nella paura di Rodrik e di Maron. “Anche crescendo, non riescono mai a gettarsi realmente queste cose alle spalle. Un fratello minore può vivere anche fino a cento anni, ma resterà sempre un fratello minore.” Fece tintinnare i suoi gioielli di ferro, e immaginò come sarebbe stato bello arrivare alle spalle di Stannis Baratheon e strangolarlo con la catena che le legava i polsi.
La cena fu uno stufato di cacciagione fatto con le carni di un cervo macilento abbattuto da un esploratore di nome Benjicot Branch. Ma questo solo nella tenda reale. Oltre a quelle pareti di tela, a ognuno degli uomini dell’esercito reale spettò un tozzo di pane e un pezzo di salsiccia scura, non più grosso di un dito, mandato giù con gli ultimi fondi della birra chiara di Galbart Glover.
Cento leghe tra Deepwood Motte e Grande Inverno. Trecento miglia a volo di corvo. «Se solo fossimo dei corvi» commentò Justin Massey il quarto giorno di marcia: il giorno in cui cominciò a nevicare. Sulle prime, poche spruzzate. Una neve fredda e umida, nulla che potesse rallentare l’avanzata.
Ma nevicò anche il giorno successivo, e quello dopo, e quello dopo ancora. In breve, le folte barbe dei lupi del Nord furono incrostate di ghiaccio, là dove si era congelato il loro respiro, e quanto ai ragazzotti del Sud cominciarono tutti a farsi crescere i peli per tenere la faccia al caldo. Nel giro di poco il terreno che si stendeva davanti alla colonna si ammantò di bianco, celando pietre, radici affioranti e buche profonde, tramutando ogni passo in un’avventura. Anche il vento soffiava più forte, spingendo avanti la neve. L’esercito del re diventò una colonna di pupazzi bianchi barcollanti fra tumuli alti fino al ginocchio.
Al terzo giorno di tormenta l’esercito del re cominciò a disgregarsi. Mentre i cavalieri e i signorotti del Sud arrancavano, gli uomini delle colline del Nord se la cavavano meglio. I loro ronzini erano animali dal passo sicuro che mangiavano meno dei palafreni, e molto meno dei grossi destrieri, inoltre gli uomini che li cavalcavano erano abituati alla neve. Molti guerrieri del Nord misero ai piedi delle calzature stranissime. Le chiamavano zampe d’orso: bizzarre cose allungate, fatte con legno incurvato e cinghie di cuoio. Legate sotto le suole degli stivali, permettevano loro di camminare nella neve senza romperne la crosta e sprofondare quindi fino alle cosce.
Alcuni avevano zampe d’orso anche per i cavalli, e quei piccoli ronzini pelosi le portavano con la stessa facilità con cui altri animali portano i ferri agli zoccoli… invece palafreni e destrieri non ne volevano sapere. Alcuni cavalieri del re tentarono comunque di fissarle alle loro zampe, ma i grandi cavalli del Sud o rifiutarono e non si mossero, o cercarono di scalciarle via. Un destriero, cercando di avanzare con quelle cose sotto gli zoccoli, finì per fratturarsi una caviglia.
Ben presto, gli uomini del Nord, con le loro zampe d’orso, cominciarono a distanziare il resto dell’esercito. Superarono i cavalieri del grosso della colonna, quindi ser Godry Farring e la sua avanguardia. Intanto, carri e carriaggi di salmeria rimanevano sempre più indietro, tanto che gli uomini della retroguardia li spronavano di continuo ad aumentare il passo.
Il quinto giorno di tormenta la colonna di salmerie attraversò una bianca distesa increspata che celava uno stagno gelato. Quando il ghiaccio nascosto si ruppe sotto il peso dei carri, tre conduttori e quattro cavalli vennero inghiottiti dalle acque gelide, assieme a due degli uomini che cercarono di salvarli. Uno di loro era Harwood Fell. I suoi cavalieri riuscirono a tirarlo fuori prima che annegasse, ma nel giro di poco le labbra diventarono bluastre e la pelle pallida come latte. Nulla riuscì poi a riscaldarlo. Harwood Fell fu scosso da tremiti violenti, anche dopo che gli tagliarono via gli abiti fradici, lo avvolsero in pellicce e lo fecero sedere accanto al fuoco. Quella notte stessa scivolò in un sonno febbrile, dal quale non si risvegliò più.
Fu la stessa notte in cui Asha udì per la prima volta gli uomini della regina confabulare di un sacrificio: un’offerta al loro dio rosso, affinché ponesse fine alla tempesta. «Sono stati gli dèi del Nord a scatenarcela addosso» disse ser Corliss Penny.
«I falsi dèi» precisò ser Godry lo Sterminatore di Giganti.
«R’hllor è con noi» dichiarò ser Clayton Suggs.
«Melisandre no» aggiunse ser Justin Massey.
Il re non disse nulla. Ma ascoltava. Asha ne era certa. Sedeva al tavolo dei lord, con davanti a sé un piatto di zuppa di cipolle che si raffreddava, quasi intonso, a fissare la fiamma della candela più vicina con gli occhi socchiusi, ignorando i discorsi attorno a lui. Al posto suo parlò il comandante in seconda, un cavaliere alto e snello chiamato Richard Horpe.
«La tempesta finirà presto.»
Ma la tempesta non fece che peggiorare. Il vento diventò una sferza più brutale e crudele come la frusta di un mercante di schiavi. Asha pensava di aver conosciuto il freddo a Pyke, quando il vento arrivava urlando dal mare, ma non era nulla rispetto a questo. “Questo è un freddo che fa impazzire.”
Nemmeno quando si dipanava lungo la colonna il grido di accamparsi per la notte, era facile riuscire a riscaldarsi. Le tende erano umide e pesanti, difficili da montare, ancora più difficili da togliere, e inclini a schiantarsi all’improvviso per via della troppa neve accumulata. A ogni nuovo accampamento, c’erano sempre meno fuochi, e quelli accesi generavano più fumo che calore. Il più delle volte il cibo veniva consumato freddo, o addirittura crudo.
Con scorno degli uomini della regina, perfino il fuoco notturno in onore del dio R’hllor si contraeva, diventando sempre più flebile. «Signore della Luce, preservaci da questo male» pregavano, guidati dalla voce profonda di ser Godry lo Sterminatore di Giganti. «Torna a mostrarci il fulgore del sole, placa questi venti e sciogli queste nevi, affinché noi possiamo raggiungere i nostri avversari e sconfiggerli. La notte è oscura e piena di terrori, ma tuoi sono il potere e la gloria della luce. R’hllor, riempici del tuo fuoco.»
Più tardi, quando ser Corliss Penny si domandò ad alta voce se un intero esercito fosse mai morto congelato, i lupi del Nord si fecero una risata.
«Questo non è mica l’inverno» dichiarò Wull Grosso Secchio. «Su nelle colline noi diciamo che l’autunno ti bacia, mentre l’inverno ti fotte duro. Questo è solo il bacio dell’autunno.»
“Dio Abissale, se è davvero così, allora fa in modo che io non debba mai conoscere il vero inverno.” Ma ad Asha fu comunque risparmiato il peggio: dopotutto, lei era il trofeo del re. Mentre gli altri soffrivano la fame, lei veniva nutrita. Mentre gli altri tremavano di freddo, lei stava al caldo. Mentre gli altri arrancavano nei tumuli bianchi in sella a cavalli stremati, lei viaggiava su un giaciglio di pellicce nel carro dalle grandi ruote, con un tetto di tela rigida che la proteggeva dalla neve, comoda seppure con le catene.
I cavalli e gli uomini comuni furono quelli più duramente colpiti. Due scudieri provenienti dalle Terre della Tempesta pugnalarono a morte un armigero durante un litigio per chi dovesse stare più vicino al fuoco. La notte seguente, alcuni arcieri, nel disperato tentativo di scaldarsi finirono per dare fuoco alla tenda, il che ebbe quanto meno il vantaggio di scaldare le tende adiacenti. I destrieri cominciarono a morire di fatica e di assideramento. «Che cos’è un cavaliere senza cavallo?» si domandavano gli uomini per gioco. «Un pupazzo di neve con la spada.» Ogni cavallo che moriva, veniva macellato sul posto per mangiare la sua carne. Intanto, anche le provviste cominciarono a scarseggiare.
Peasebury, Cobb, Foxglove e altri lord del Sud chiesero al re di restare accampati fino a quando la tempesta non fosse passata. Stannis non volle nemmeno sentirne parlare. Ma non prestò ascolto nemmeno agli uomini della regina, quando questi insistettero per fare un’offerta al loro famelico dio rosso.
Asha lo venne a sapere da Justin Massey, anche lui credente ma meno devoto della maggior parte degli altri.
«Un sacrificio sarà la prova che la nostra fede resta incrollabile, sire» aveva detto al re Clayton Suggs. E ser Godry lo Sterminatore di Giganti aggiunse: «Gli antichi dèi del Nord hanno scatenato su di noi questa tempesta. Solo R’hllor può porvi fine. Dobbiamo consegnargli un miscredente».
«Metà del mio esercito è composta da miscredenti» aveva risposto Stannis. «Non manderò al rogo nessuno. Pregate con più fervore.»
“Nessun rogo oggi e nessun rogo domani… ma se continua a nevicare, quanto tempo ci vorrà prima che la determinazione del re cominci a incrinarsi?” Asha non aveva mai abbracciato la fede di Aeron nel Dio Abissale, ma quella notte pregò Colui-che-dimora-sotto-le-onde con il medesimo ardore di Capelli Bagnati.
La tempesta non si placò. La marcia continuò, rallentando fino ad arrancare, poi fino a strisciare.
Cinque miglia, in una buona giornata. Poi tre miglia. Poi due.
Il nono giorno di tormenta ogni accampamento vide i capitani e i comandanti entrare nella tenda del re stremati e fradici, piegare il ginocchio e procedere a elencare le perdite della giornata.
«Un uomo morto, tre dispersi.»
«Sei cavalli perduti, tra cui anche il mio.»
«Due uomini morti, uno era un cavaliere. Quattro cavalli a terra. Siamo riusciti a farne alzare uno. Gli altri sono andati: due destrieri e un palafreno.»
“La conta del freddo”, Asha l’aveva sentita chiamare così. La colonna di salmerie subiva i danni peggiori: cavalli morti, uomini dispersi, carri rovesciati e rotti.
«I cavalli si azzoppano nella neve» disse Justin Massey al re. «Gli uomini vagano nel nulla, o semplicemente si siedono a morire.»
«E che muoiano» esclamò il re in uno scatto d’ira. «Noi proseguiamo.»
Gli uomini del Nord, con i loro ronzini e le loro zampe d’orso, se la cavavano molto meglio. Donnel Flint il Nero e il suo fratellastro Artos avevano perso soltanto un uomo. I Liddle, i Wull e i Norrey non ne avevano perso nessuno. Uno dei muli di Morgan Liddle era dato per disperso, ma lui sembrava convinto che fossero stati i Flint a rubarlo.
Cento leghe tra Deepwood Motte e Grande Inverno. Trecento miglia a volo di corvo. Quindici giorni.
Il quindicesimo giorno di marcia arrivò e passò, ma l’esercito del re aveva coperto meno della metà della distanza. Alle loro spalle un’ecatombe di carri distrutti e di cadaveri congelati, il tutto sepolto sotto la neve che non cessava di turbinare. Il sole, la luna, le stelle erano svaniti da così tanto tempo che Asha cominciò a pensare di averli sognati.
Fu il ventesimo giorno dell’avanzata che Asha riuscì finalmente a liberarsi della catena alla caviglia. Nel tardo pomeriggio, uno dei cavalli che trainavano il suo carro morì lungo il tragitto. Non fu possibile sostituirlo, perché i cavalli da tiro rimasti servivano per trainare i carriaggi del cibo e del foraggio. Quando arrivò ser Justin Massey diede ordine di macellare il cavallo per ricavarne carne da mangiare e di distruggere il carro per farne legna da ardere. Poi rimosse i ceppi dalle caviglie di Asha, massaggiando anche i suoi polpacci irrigiditi. «Non ho una cavalcatura da darti, mia lady» fu costretto a dirle. «E se cercassimo di montare in sella insieme, sarebbe la fine anche per il mio cavallo. Dovrai camminare.»
La caviglia di Asha pulsava a ogni passo, sotto il suo peso. “Il freddo la anestetizzerà presto. Tra poco non sentirò più nemmeno i piedi.”
E in realtà accadde ancora prima del previsto. Quando le tenebre fecero fermare la colonna, Asha barcollava alla cieca, agognando le comodità della sua prigione su ruote. “Quei ferri mi hanno indebolito.” A cena era talmente esausta che si addormentò sul tavolo.
Il ventiseiesimo giorno di quella marcia che avrebbe dovuto durare quindici giorni vennero consumate le ultime verdure. Il trentaduesimo giorno finirono grano e foraggio. Asha si chiese per quanto tempo si potesse sopravvivere mangiando solo carne di cavallo, cruda e congelata.
«Branch giura che siamo solo a tre giorni da Grande Inverno» disse ser Richard Horpe quella notte al re, una volta ultimata la conta del freddo.
«Se lasciamo indietro gli uomini troppo indeboliti» aggiunse Corliss Penny.
«Gli uomini troppo indeboliti non hanno alcuna speranza di salvezza» insisté Horpe. «Quelli ancora abbastanza in forze devono raggiungere Grande Inverno, o finiranno per morire anche loro.»
«Il Signore della Luce ci consegnerà il castello» dichiarò ser Godry Farring. «Se lady Melisandre fosse con noi…»
Alla fine, dopo una giornata da incubo nella quale la colonna era avanzata di nemmeno un miglio al prezzo di una dozzina di cavalli e quattro uomini, lord Peasebury se la prese con gli uomini del Nord. «Questa marcia è una follia. Ogni giorno ci sono sempre più morti, e per cosa? Per una ragazzina?»
«La ragazzina di Ned Stark» gli rispose Morgan Liddle. Era il secondo di tre figli, per questo gli altri lupi delle colline lo chiamavano il Medio Liddle, ma per lo più quando lui non sentiva. Era lui che per poco non aveva abbattuto Asha durante la battaglia a Deepwood Motte. In seguito, era andato a implorare il suo perdono… per averla chiamata “puttana” nel furore dello scontro, non certo per aver cercato di spaccarle in due il cranio con un’ascia.
«La ragazzina di Ned Stark» fece eco Wull Grosso Secchio. «E adesso avremmo sia la ragazzina sia il castello, se non era per voi ridicoli guitti del Sud, che vi pisciate nelle vostre brache di raso per un po’ di neve.»
«Un po’ di neve?» La rabbia distorse la bocca di lord Peasebury, morbida ed effemminata. «È stato il vostro stolto suggerimento a imporci questa marcia, Wull. E io sto cominciando a sospettare che tu sia da sempre una creatura di Bolton. Non è forse così? Non è stato lui a mandarti qui a sussurrare parole velenose all’orecchio del re?»
Grosso Secchio gli rise in faccia. «Lord principessa del mio pisello. Se tu fossi un vero uomo, ti ammazzerei per questo, ma l’acciaio della mia spada è troppo raffinato perché io lo imbratti con il sangue di un codardo.» Mandò giù una sorsata di birra chiara e si asciugò la bocca. «Aye, tanti uomini stanno morendo. E altri ancora moriranno prima di arrivare a Grande Inverno. E allora? Questa è la guerra. E in guerra gli uomini muoiono. Così dev’essere. E così è sempre stato.»
Ser Corliss Penny lanciò al capoclan uno sguardo incredulo. «Nel senso che tu vuoi morire, Wull?»
Quelle parole parvero divertire l’uomo del Nord. «Io voglio vivere per sempre in una terra dove l’estate dura mille anni. Io voglio un castello nelle nuvole da dove guardo giù il mondo. Io voglio avere di nuovo ventisei anni. Quando avevo ventisei anni, potevo combattere tutto il giorno e scopare tutta la notte. Quello che un uomo vuole non importa niente.
«L’inverno ci è quasi addosso, ragazzo. E l’inverno significa morte. Da parte mia, vorrei che i miei uomini cadessero combattendo per la giovane figlia di Ned Stark, piuttosto che crepare da soli e affamati nella neve, piangendo lacrime che ghiacciano sulle guance. Nessuno canta delle canzoni su uomini che muoiono così. Quanto a me, io sono vecchio. Questo sarà il mio ultimo inverno. Ma prima di andarmene, voglio fare il bagno nel sangue di un Bolton. Voglio sentirlo che mi schizza in faccia quando pianto la mia ascia nel cranio di un Bolton. E voglio leccarmelo via dalle labbra e morire sentendone il gusto sulla lingua.»
«Aye!» urlò Morgan Liddle. «Sangue e battaglia!»
E a quel punto, tutti gli uomini delle colline del Nord si misero a urlare, pestando boccali e corni sul tavolo, riempiendo di clamore la tenda del re.
Anche Asha Greyjoy avrebbe voluto combattere. “Una battaglia per mettere termine a questa agonia. Acciaio contro acciaio, neve rossa, scudi spezzati, arti mozzati… e sarebbe tutto finito.”
Il giorno seguente, gli esploratori del re raggiunsero per caso un villaggio abbandonato, tra due laghi: un luogo aspro e miserabile, solo poche capanne, una sala comune e una torre di guardia. Richard Horpe diede ordine di fermarsi, anche se quel giorno la colonna non era avanzata per più di mezzo miglio e mancavano ancora parecchie ore prima del buio. La luna si era levata da un pezzo quando finalmente anche i carriaggi di salmerie e la retroguardia arrivarono arrancando. Asha era con loro.
«In questi laghi c’è del pesce» disse Horpe al re. «Praticheremo dei buchi nel ghiaccio. Gli uomini del Nord sanno come fare.»
Perfino sotto lo spesso pastrano e la massiccia armatura, Stannis Baratheon sembrava un uomo già con un piede nella fossa. La poca carne che portava sulla sua alta, snella figura a Deepwood Motte si era dissipata nel corso della marcia. Sotto la pelle si riconosceva la forma del teschio, e aveva la mascella talmente contratta da far temere ad Asha che i suoi denti potessero frantumarsi.
«E pesce sia» decretò il re, scandendo ogni parola come un colpo di frusta. «Ma alle prime luci ci rimettiamo in marcia.»
Quando però arrivarono le prime luci, l’accampamento si risvegliò nella neve e nel silenzio. Il cielo, che da nero era diventato bianco, non sembrava affatto più chiaro.
Asha Greyjoy si svegliò, piena di crampi e di freddo, sotto la montagna di pellicce che usava per dormire, e sentiva l’Orsa russare. Non aveva mai incontrato una donna che russava così forte, ma durante quella marcia ci si era abituata e adesso le era quasi di conforto. I suoi ceppi tintinnarono mentre si metteva in piedi, respirando l’aria gelida del mattino. La neve continuava a cadere, addirittura più fitta di quando lei si era infilata nella tenda. I laghi erano svaniti e anche le foreste. Asha riusciva a vedere le forme delle altre tende e l’incerto bagliore arancione del fuoco di segnalazione che ardeva sulla cima della torre di guardia, ma non la torre di guardia. La tempesta aveva inghiottito tutto il resto.
Più in là, da qualche parte, Roose Bolton li aspettava dietro le mura di Grande Inverno, ma l’esercito di Stannis Baratheon era bloccato in una morsa, circondato dal ghiaccio e dalla neve, a morire di fame.