La fanciulla cieca

Le sue notti erano illuminate da stelle lontane e dal riflesso dei raggi della luna sulla neve, ma a ogni alba lei si risvegliava nelle tenebre.

Aprì gli occhi e osservò ciecamente il nero che la circondava, il suo sogno si era già dissolto. “Era così bello.” Si passò la lingua sulle labbra al ricordo. Il belare delle pecore, il terrore negli occhi del pastore, il suono emesso dai cani mentre li uccideva l’uno dopo l’altro, il ringhiare del suo branco. Da quando aveva cominciato a nevicare, le prede si erano fatte più rare, ma la notte precedente lei e il branco avevano banchettato: agnello, cane, montone, carne di uomo. Alcuni dei suoi cugini grigi più piccoli avevano paura degli uomini, perfino degli uomini morti: lei no. La carne era carne, e gli uomini erano prede. Lei era il lupo della notte.

Solo però quando dormiva.

La fanciulla cieca rotolò sul fianco, si mise seduta, poi in piedi, si stiracchiò. Il suo giaciglio era un materasso di stracci sopra una lastra di pietra gelida, e ogni mattina quando si svegliava sentiva il corpo rigido e contratto. Andò fino al bacile con i piedi piccoli, nudi, callosi, silenziosa come un’ombra. Si gettò dell’acqua fredda sul viso, si asciugò con un telo. “Ser Gregor” pensò. “Dunsen, Raff Dolcecuore, ser Ilyn, ser Meryn, regina Cersei.” La sua preghiera del mattino. Ma lo era ancora? “No” pensò “non più. Io non sono nessuno. Quella è la preghiera del lupo della notte. Un giorno il lupo li troverà, darà loro la caccia, annuserà la loro paura, berrà il loro sangue. Un giorno.”

Trovò i suoi indumenti intimi in mezzo a un mucchio, li annusò, verificando che fossero abbastanza puliti per essere indossati, e se li mise nelle tenebre. I suoi abiti da serva erano là dove li aveva appesi: una lunga tunica di lana, grezza e ruvida. La prese e se la infilò dalla testa in un unico movimento limato dall’abitudine. Le calze per ultime: una nera e una bianca. Quella nera aveva sulla parte superiore una cucitura, quella bianca no, in modo che lei potesse distinguerle al tatto, infilandole nel piede giusto. Per quanto scarne, le sue gambe erano forti e scattanti, ogni giorno di più. Ne era contenta. Un danzatore dell’acqua deve avere gambe forti. Beth la Cieca non era una danzatrice dell’acqua, però lei non sarebbe stata Beth per sempre.

Conosceva la strada per arrivare alle cucine, ma se anche non l’avesse conosciuta, il suo naso l’avrebbe condotta là comunque. “Peperoni piccanti e pesce fritto” decise, annusando lungo il corridoio “e pane appena uscito dal forno di Umma.” Gli aromi fecero borbottare il suo stomaco. Il lupo della notte aveva banchettato, ma la pancia della fanciulla cieca era vuota. La carne del sogno non poteva nutrirla, questo lei lo aveva imparato da tempo.

Fece colazione con sardine e gallette fritte in olio piccante, servite così calde da scottare le dita. Raccolse l’olio rimasto con un pezzo del pane che Umma aveva cotto quel mattino e mandò giù il tutto con una coppa di vino allungato con acqua, gustando i vari sapori e odori: la sensazione della crosta fra le dita, l’unto dell’olio, il bruciore del peperone piccante quando entrò nella scorticatura solo in parte rimarginata sul palmo della sua mano. “Udito, olfatto, gusto, tatto” ricordò a se stessa. “Quelli che non vedono hanno tanti altri modi per conoscere il mondo.”

Qualcuno dietro di lei era entrato nella stanza, spostandosi con morbide babbucce imbottite, silenzioso come un topo. Le narici della fanciulla cieca si dilatarono. “L’uomo gentile.” Gli uomini avevano un odore diverso da quello delle donne, e nell’aria c’era anche un vago aroma di arance. All’officiante piaceva masticare le bucce d’arancio per addolcire l’alito, quando le trovava.

«E tu chi sei, questa mattina?» lo udì chiedere mentre l’uomo gentile prendeva posto a capotavola. Tap, tap, sentì la ragazza, poi il rumore di qualcosa di fragile che si spezza. “Ha rotto il guscio del suo primo uovo.”

«Nessuno» rispose la fanciulla cieca.

«È una menzogna. Io ti conosco. Sei la ragazzina cieca che fa la mendicante.»

«Beth.» La fanciulla cieca un tempo aveva conosciuto una Beth a Grande Inverno, quando era ancora Arya Stark. Forse era quello che l’aveva spinta a scegliere quel nome. O forse era stato semplicemente perché suonava bene con blind, cieca.

«Povera piccola» disse l’uomo gentile. «Vorresti avere di nuovo i tuoi occhi? Chiedi, e potrai tornare a vedere.»

Le faceva ogni mattina la stessa domanda. «È possibile che li voglia domani. Oggi no» rispose la fanciulla cieca. Il suo viso era acqua stagnante, nascondeva tutto, non rivelava niente.

«Come tu desideri.»

La fanciulla cieca udì che pelava l’uovo, poi riconobbe anche il breve suono argentino di quando prese il cucchiaio del sale. Le uova gli piacevano saporite.

«E la mia povera fanciulla cieca dov’è andata a mendicare ieri notte?»

«Alla Locanda dell’Anguilla Verde.»

«E quali sono le tre cose nuove che sai che ancora non sapevi l’ultima volta che sei uscita da qui?»

«Il Signore del Mare è ancora malato.»

«Questa non è una novità. Il Signore del Mare era malato ieri e sarà malato anche domani.»

«Oppure morto.»

«Ecco, quando sarà morto, quella sarà una novità.»

“Quando sarà morto, bisognerà scegliere un successore, e allora verranno fuori i coltelli.” Nella città libera di Braavos funzionava così. Nel continente occidentale, quando moriva un re gli succedeva il figlio maggiore, ma i braavosiani non avevano re.

«Il nuovo Signore del Mare sarà Tormo Fregar.»

«È questo che si dice alla Locanda dell’Anguilla Verde?»

«Sì.»

L’uomo gentile diede un morso all’uovo. La fanciulla cieca lo udì masticare. L’uomo gentile non parlava mai con la bocca piena. Inghiottì e disse: «Certi uomini dicono che nel vino c’è saggezza. Sono degli stolti. In altre locande vengono senza dubbio citati altri nomi». Diede un altro morso all’uovo, masticò, inghiottì. «Quali sono le tre cose nuove che sai che prima non sapevi?»

«So che alcuni uomini dicono che Tormo Fregar sarà sicuramente il nuovo Signore del Mare» rispose la fanciulla cieca. «Alcuni uomini ubriachi.»

«Così va meglio. E che cos’altro sai?»

“Che nevica sulle Terre dei Fiumi, nel continente occidentale” stava quasi per dire la fanciulla cieca. Ma allora l’uomo gentile le avrebbe chiesto come faceva a saperlo, e la fanciulla cieca dubitava che la risposta gli sarebbe piaciuta. Si morse il labbro, ripensando alla notte precedente. «La puttana S’vrone aspetta un bambino. Non è sicura di chi sia il padre, ma pensa che potrebbe essere un mercenario di Tyrosh che lei stessa ha ucciso.»

«Buono a sapersi. Che altro?»

«La regina Merling ha scelto una nuova sirena per rimpiazzare quella che è annegata. È la figlia di una serva del capitano Prestyan, tredici anni e senza un soldo, ma bella.»

«Lo sono tutte, all’inizio» disse l’uomo gentile «solo che tu non puoi sapere che è bella a meno che tu non l’abbia vista con i tuoi occhi, e tu non hai occhi. Chi sei, bambina?»

«Nessuno.»

«Io vedo Beth la Cieca, la ragazzina mendicante. Ed è una gran bugiarda. Ora procedi con i tuoi doveri. Valar morghulis.»

«Valar dohaeris.»

La fanciulla cieca raccolse ciotola, coppa, coltello e cucchiaio, e si rimise in piedi. Da ultimo, prese il bastone. Era lungo cinque piedi, sottile e flessuoso, spesso quanto il suo pollice, con del cuoio avvolto per circa un piede di altezza attorno all’estremità superiore. “È meglio degli occhi, una volta che hai imparato a usarlo” le aveva detto l’orfana.

Era una menzogna. Le mentivano spesso, per metterla alla prova. Nessun bastone è meglio di un paio d’occhi. Però è utile averlo, così la fanciulla cieca se lo teneva sempre accanto. Umma aveva iniziato a chiamarla Bastone, ma i nomi non avevano importanza. Lei era lei. “Nessuno. Io non sono nessuno. Solo una fanciulla cieca, solo una serva del Dio dai Mille Volti.”

Ogni sera, a cena, l’orfana le portava una coppa di latte e le diceva di berlo tutto. Era una strana bevanda, con un gusto amaro che la fanciulla cieca aveva presto iniziato a odiare. Perfino il tenue odore che l’avvertiva di ciò che la sua lingua stava per toccare le dava un senso di vomito, ma lei svuotava la coppa comunque.

«Per quanto tempo dovrò essere cieca?» chiedeva la fanciulla cieca.

«Finché le tenebre non saranno per te dolci come la luce» rispondeva l’orfana «oppure fino a quando non ci chiederai di riavere gli occhi. Chiedi, e tornerai a vedere.»

“E poi mi manderete via.” Meglio allora la cecità. Non l’avrebbero indotta ad arrendersi.

Il giorno in cui si era svegliata cieca, l’orfana l’aveva presa per mano e l’aveva condotta nelle cripte e nei tunnel scavati dentro la roccia su cui era costruita la Casa del Bianco e del Nero, quindi su per gli scalini di pietra, fino al tempio vero e proprio. «Mentre sali, conta gli scalini» le aveva detto l’orfana. «E lascia scorrere le dita lungo il muro. Ci sono dei segni, invisibili allo sguardo, ma percettibili al tatto.»

Era stata la sua prima lezione. Ne erano seguite molte altre.

I veleni e le pozioni erano nel pomeriggio. La fanciulla cieca aveva l’olfatto, il tatto e il gusto che l’aiutavano, ma tatto e gusto potevano essere pericolosi quando si macinano veleni e, nel caso di certi miscugli tossici dell’orfana, perfino l’odorato era rischioso. I polpastrelli bruciati e le labbra piagate diventarono per lei una consuetudine, e ci fu una volta in cui si sentì così male che per giorni non riuscì a tenere niente nello stomaco.

La cena era dedicata alle lezioni di lingua. La fanciulla cieca capiva il braavosiano, e lo parlava in modo passabile, aveva perfino perso quasi del tutto il suo accento barbaro, anche se l’uomo gentile non era soddisfatto. Insisteva che doveva migliorare il suo alto valyriano e imparare anche le lingue di Lys e di Pentos.

La sera giocava con l’orfana al gioco della menzogna, ma senza occhi per vedere, il gioco era molto diverso. Certe volte tutto quello che aveva per proseguire erano il tono della voce e la scelta delle parole; altre volte l’orfana le permetteva di passarle le mani sul viso. All’inizio il gioco era difficilissimo, quasi impossibile… ma proprio quando stava per arrivare al punto di mettersi a urlare per la frustrazione, tutto diventò più facile. Imparò ad ascoltare le menzogne, a percepirle nei movimenti dei muscoli attorno alla bocca e agli occhi.

Molti degli altri suoi doveri erano rimasti gli stessi, ciononostante mentre li eseguiva finiva per inciampare contro la mobilia, picchiare contro le pareti, far cadere vassoi, smarrirsi disperata e indifesa all’interno del tempio. Una volta, per poco non cadde a capofitto giù per le scale, ma in un’altra vita, quando era ancora la ragazzina chiamata Arya, Syrio Forel le aveva insegnato l’equilibrio e in qualche modo riuscì a non cadere.

Certe notti avrebbe voluto piangere fino a scivolare nel sonno, come faceva quando era ancora Arry, o Donnola, o Cat, o addirittura Arya della Casa Stark… ma nessuna di loro aveva più lacrime. Senza occhi, perfino il compito più semplice diventava pericoloso. Si scottò almeno una dozzina di volte, mentre lavorava con Umma nelle cucine. Un giorno, affettando le cipolle, si tagliò un dito fino all’osso. In due circostanze, non riuscì più a ritrovare la sua stanza nello scantinato, e dovette dormire per terra in fondo alle scale. Tutte quelle nicchie e quelle alcove trasformavano il tempio in un luogo infido, anche dopo che la fanciulla cieca aveva imparato a usare le orecchie; il modo in cui i suoi passi rimbombavano sotto la volta e riecheggiavano tra le gambe delle trenta alte statue degli dèi faceva credere che le pareti si spostassero, e anche la vasca piena d’acqua nera e stagnante aveva strani effetti sui suoni.

«Hai cinque sensi» le disse l’uomo gentile. «Impara a usare gli altri quattro, avrai meno tagli, scorticature e vesciche.»

La fanciulla cieca adesso poteva percepire le correnti d’aria sulla propria pelle. Riusciva a trovare le cucine con l’olfatto, distinguere gli uomini dalle donne in base all’odore. Riconosceva Umma, i servitori e gli adepti dalla cadenza dei loro passi, poteva distinguere l’uno dall’altro con certezza prima di arrivare sufficientemente vicino per sentirne l’odore (però non l’orfana o l’uomo gentile, i quali, a meno che non lo volessero, non emettevano pressoché alcun suono). Anche le candele accese nel tempio avevano un loro odore; perfino quelle non aromatiche rilasciavano esili fili di fumo dai loro stoppini. Erano come dei richiami, una volta che la fanciulla cieca aveva imparato a usare il naso.

Anche i morti avevano un loro odore. Una delle mansioni della fanciulla cieca era andare ogni mattina a cercarli all’interno del tempio, ovunque avessero scelto di chiudere gli occhi dopo aver bevuto dalla vasca.

Quella mattina ne trovò due.

Un uomo era morto ai piedi dello Sconosciuto, un’unica candela pulsava sopra di lui. La fanciulla cieca percepì il suo calore, e l’odore che emanava le fece prudere il naso. La candela ardeva di una fiamma rosso scuro, lei lo sapeva; per quelli dotati di occhi, il cadavere sarebbe sembrato avvolto da un alone purpureo. Prima di chiamare i servitori perché lo portassero via, la fanciulla cieca s’inginocchiò e gli tastò la faccia, seguendo il profilo della mascella, sfiorando con le dita le guance e il naso, toccando i capelli. “Ricci e folti. Un bel viso senza rughe. Era giovane.” Si domandò che cosa lo avesse portato là a cercare il dono della morte. I bravacci moribondi arrivavano spesso alla Casa del Bianco e del Nero per accelerare la propria fine, ma su quell’uomo lei non trovò alcuna ferita.

Il secondo corpo era di una vecchia. Si era addormentata su un divano del sogno, dentro una delle alcove nascoste dove speciali candele evocavano visioni delle cose amate e perdute. Una morte dolce e delicata, come quasi con affetto la definiva l’uomo gentile. Le dita dissero alla fanciulla cieca che la vecchia era morta con il sorriso sulle labbra. Non era morta da molto. Il suo corpo era ancora caldo al tatto. “La sua pelle è così morbida, come un sottile cuoio stagionato piegato e raggrinzito mille e mille volte.”

Quando i servitori arrivarono per portare via il cadavere, la fanciulla cieca li seguì. Lasciò che fossero i loro passi a guidarla, ma quando i servitori iniziarono a scendere contò i gradini. Questo anche se conosceva a memoria il numero di tutti i gradini. Sotto il tempio c’era un labirinto di cripte e di tunnel dove perfino uomini con due occhi buoni spesso si perdevano, ma la fanciulla cieca conosceva ogni più recondito anfratto di quel labirinto, e qualora nella sua memoria fosse apparsa una lacuna, aveva con sé il bastone per ritrovare la strada.

I cadaveri venivano sistemati nel sepolcro. La fanciulla cieca si mise al lavoro nell’oscurità, togliendo ai morti stivali, abiti e altri beni, svuotando le loro borse e contando il loro conio. Distinguere al tatto una moneta dall’altra era stata una delle prime cose che l’orfana le aveva insegnato, dopo che le avevano portato via gli occhi. Le monete di Braavos erano ormai delle vecchie amiche: per riconoscerle, le bastava passare le dita sulle loro facce di metallo. Con le monete di altre terre, di altre città era più difficile, specialmente quelle dei paesi lontani. Gli onori di Volantis erano le più comuni, piccole monete non più grandi di un soldino, con una corona da una parte e un teschio dall’altra. Le monete lyseniane erano ovali e mostravano una donna nuda. Altre monete recavano impresse navi, elefanti, caproni. Le monete dell’Occidente avevano la testa di un re su una faccia e un drago sull’altra.

La vecchia non aveva borsa, né altri beni, a parte un anello a uno dei mignoli. Sul bell’uomo trovò quattro dragoni d’oro del continente occidentale. Stava facendo scorrere il pollice sul conio più usurato, cercando di capire quale re vi fosse raffigurato, quando udì la porta aprirsi silenziosamente alle sue spalle.

«Chi c’è?» chiese.

«Nessuno.» La voce era profonda, aspra, fredda.

E si spostava. Lei afferrò il bastone, lo alzò per proteggersi il viso. Il legno sbatté contro il legno. La violenza dell’impatto le fece quasi sfuggire di mano il bastone. Mantenne la presa, rispose all’attacco… e al suo posto trovò soltanto il vuoto. «Non lì» disse la voce. «Sei cieca?»

Lei non rispose. Parlando avrebbe coperto qualsiasi rumore dell’avversario. Sapeva che lui continuava a muoversi. “Destra o sinistra?” La fanciulla cieca fece un balzo a sinistra e falciò a destra, il nulla. Un fendente obliquo da dietro la colpì alle gambe. «Sei sorda?»

Lei girò su se stessa, con il bastone nella sinistra, vorticando, senza colpire. Da sinistra il suono di una risata. Falciò a destra.

Questa volta colpì. Il suo bastone picchiò contro quello dell’avversario. L’urto le provocò una scossa lungo tutto il braccio. «Bene» disse la voce.

La fanciulla cieca non sapeva a chi appartenesse quella voce. A uno degli adepti, suppose. Non ricordava di averla mai udita prima, ma chi poteva dire se i servitori del Dio dai Mille Volti non fossero in grado di cambiare voce con la medesima facilità con cui cambiavano faccia? Oltre a lei, la Casa del Bianco e del Nero ospitava due servitori, tre adepti, la cuoca Umma e due officianti che lei chiamava l’orfana e l’uomo gentile. C’erano altri che andavano e venivano, a volte per vie segrete, ma quelli erano gli unici a vivere nel tempio. La sua nemesi poteva essere uno qualunque di loro.

La ragazza scartò di lato, facendo roteare il bastone, udì un rumore dietro di lei, si voltò di scatto in quella direzione, cercando di colpire l’aria. E d’un tratto si ritrovò con il proprio bastone fra le gambe, che la ostacolava mentre cercava di girarsi ancora, battendo contro lo stinco. Lei inciampò e cadde con un ginocchio a terra, così forte che si morse la lingua.

A quel punto si fermò. “Immobile come pietra. Dov’è finito?”

L’avversario, alle sue spalle, rise. La grattò offensivamente dietro un orecchio, poi la colpì sulle nocche mentre lei cercava di rialzarsi. Il bastone le cadde rumorosamente sulla pietra. La ragazza sibilò furibonda.

«Forza. Raccoglilo. Ho finito di suonartele, per oggi.»

«A me non le suona nessuno!» La ragazza avanzò carponi finché non ritrovò il suo bastone, allora balzò in piedi, piena di lividi e sporca. Il sepolcro era immoto e silente. L’avversario se n’era andato. Davvero? Poteva essere ancora lì, accanto a lei, non lo avrebbe mai saputo. “Cerca di sentire il suo respiro” disse a se stessa. Ma non c’era nessun respiro da sentire. Lasciò passare ancora qualche momento, poi posò il bastone e riprese il lavoro. “Se avessi avuto gli occhi, lo avrei pestato a sangue.” Un giorno, l’uomo gentile le avrebbe ridato gli occhi, e lei avrebbe dato una lezione a tutti quanti.

Ormai il cadavere della vecchia era freddo, quello del bravo si stava irrigidendo. La ragazza ci era abituata. La maggior parte dei giorni trascorreva più tempo con i morti che con i vivi. Sentiva la mancanza degli amici che aveva quando era Cat, la Gatta dei Canali: il vecchio Brusco con la schiena malandata, le sue figlie Talea e Brea, i guitti della Nave, Merry e le sue puttane al Porto Felice, tutti gli altri furfanti e la feccia del porto. Ma più di tutto sentiva la mancanza di Cat stessa, addirittura più che degli occhi. Le era piaciuto essere Cat, più di quanto le fosse piaciuto essere Salty o Squab o Donnola o Arry. “Ho ucciso Cat quando ho ucciso quel cantastorie.” L’uomo gentile l’aveva avvertita che le avrebbero comunque preso gli occhi, per aiutarla a imparare a usare gli altri sensi, ma non prima di altri sei mesi. Gli adepti ciechi erano frequenti nella Casa del Bianco e del Nero, anche se pochi erano giovani come lei. Ma alla ragazza non dispiaceva. Daeron aveva disertato dai guardiani della notte: meritava di morire.

E questo, lei, all’uomo gentile lo disse. «E tu sei forse un dio, per decidere chi deve vivere e chi deve morire?» ribatté lui. «Noi concediamo il dono solo a coloro che vengono segnati dal Dio dai Mille Volti, dopo preghiere e sacrifici. Così è sempre stato fin dall’inizio. Ti ho parlato della fondazione del nostro ordine, di come il primo di noi rispose alle preghiere degli schiavi che invocavano la fine. Il dono venne concesso soltanto a coloro che lo imploravano, all’inizio… ma un giorno, uno di noi udì uno schiavo invocare non la morte propria, ma quella del suo padrone. La desiderava così ferventemente da offrire tutto ciò che possedeva pur di far sì che la sua preghiera venisse accolta. E al nostro confratello parve che quel sacrificio avrebbe comunque compiaciuto il Dio dai Mille Volti, per cui quella notte esaudì l’invocazione. Poi andò dallo schiavo e disse: “Tu hai offerto tutto quello che possiedi in cambio della morte di quest’uomo, ma gli schiavi non possiedono nulla se non la loro stessa vita. Questo è quindi ciò che il dio desidera da te. Per il resto dei tuoi giorni sulla terra, lo servirai”. E da allora, fummo in due.» L’uomo gentile strinse la presa al suo braccio, gentilmente ma con fermezza. «Tutti gli uomini devono morire. Non siamo altro che gli strumenti della morte, non la morte stessa. Uccidendo quel cantastorie, tu ti sei arrogata i poteri di dio. Noi uccidiamo gli uomini, ma non abbiamo la presunzione di giudicarli. Capisci?»

“No” pensò. «Sì» disse.

«Tu menti. Ed è per questo che adesso devi continuare a camminare nelle tenebre fino a quando non avrai trovato la strada. Devi solo chiedere, e potrai riavere gli occhi.»

“No” pensò. «No» disse.

Quella sera, dopo la cena e una breve sessione del gioco della menzogna, la fanciulla cieca si legò una striscia di tessuto intorno alla testa, coprendo gli occhi inutili, cercò la ciotola delle elemosine e chiese all’orfana di aiutarla a indossare la faccia di Beth. Dopo che le avevano preso gli occhi, l’orfana le aveva rasato il cranio; lo chiamava il taglio dei guitti, in quanto molti di loro lo adottavano per poter indossare più facilmente le parrucche. Ma andava bene anche per i mendicanti, evitando che sulla testa si annidassero pulci e pidocchi. Però ci voleva qualcosa di più di una parrucca.

«Potrei coprirti di piaghe purulente» disse l’orfana «ma poi i locandieri e i tavernieri ti caccerebbero fuori dai loro locali.» Al posto delle piaghe, l’orfana le diede delle butterazioni da vaiolo e una verruca da guitti su una guancia, una verruca finta, ma con tanto di peli neri che spuntavano.

«È abbastanza brutta?» domandò la fanciulla cieca.

«Non certo graziosa.»

«Bene.»

Non le era mai importato di essere graziosa, nemmeno quando era ancora la stupida Arya Stark. Solo suo padre la definiva carina. “Lui, e a volte anche Jon Snow.” Sua madre diceva sempre che avrebbe potuto essere graziosa, se solo si fosse lavata e spazzolata i capelli, e avesse messo una maggior cura nel vestire, come faceva sua sorella. Per sua sorella, per le amiche di sua sorella e per tutti gli altri, lei era sempre stata Arya Faccia-da-cavallo. Ma adesso loro erano morti, anche Arya, tutti tranne il suo fratellastro, Jon. Certe notti sentiva parlare di lui nelle taverne e nei bordelli del Porto degli Stracci. Qualcuno lo aveva definito il Bastardo Nero della Barriera. “Scommetto che neppure Jon riuscirebbe a riconoscere Beth la Cieca.” Questo la rattristava.

I vestiti che indossò erano degli stracci, sbiaditi e laceri, ma caldi e puliti. Sotto di essi, nascose tre coltelli: uno in uno stivale, un altro dentro una manica, il terzo in un fodero dietro la schiena. I braavosiani erano per lo più persone gentili, disponibili ad aiutare quella povera ragazzina cieca che chiedeva l’elemosina, piuttosto che a cercare di farle del male, ma potevano sempre esserci degli infami che vedevano in lei un facile bersaglio da rapinare o da stuprare. Le lame erano per loro, anche se fino a quel momento la fanciulla cieca non era mai stata costretta a usarle. A completare il suo abbigliamento c’erano la ciotola delle elemosine e un pezzo di fune usato come cintura.

Uscì mentre il Titano di Braavos ruggiva l’annuncio del tramonto, contando i gradini che scendevano dalla Casa del Bianco e del Nero, poi trovando la strada picchiando ritmicamente l’estremità del bastone contro il ponte che oltrepassava il canale, arrivando all’Isola degli Dèi. Riuscì a capire che c’era una fitta nebbia dal modo in cui gli stracci le si appiccicavano addosso e dalla sensazione di umidità dell’aria sulle mani nude. Aveva scoperto che le nebbie di Braavos avevano anche strani effetti sui suoni. “Metà della città sarà mezza cieca, questa notte.”

Superando i templi, poté udire gli adepti del Culto della Saggezza Stellare che levavano canti alle stelle della sera dalla sommità della loro torre medianica. Nell’aria aleggiava un sottile fumo aromatico che guidò la fanciulla cieca in un cammino tortuoso fino ai grandi bracieri di ferro che i preti rossi avevano acceso davanti al tempio del Signore della Luce. Ben presto poté anche sentire il calore nell’aria, mentre gli adoratori di R’hllor univano le loro voci nella preghiera. «Perché la notte è oscura e piena di terrori» pregavano.

“Non per me.” Le sue notti erano illuminate dalla luna e riempite dal canto del suo branco, con il gusto della carne rossa strappata dalle ossa, con il caldo odore familiare dei suoi cugini grigi. Solo di giorno lei era sola e cieca.

Non era un’estranea, al fronte del porto. Cat era solita aggirarsi tra i moli e i vicoli del Porto degli Stracci vendendo molluschi, ostriche e cozze per Brusco. Ora, con i suoi stracci, la sua testa rasata e la sua verruca da guitti, non aveva più lo stesso aspetto di allora, ma per maggior sicurezza si tenne a distanza dalla Nave e dal Porto Felice e da tutti gli altri luoghi dove Cat era più conosciuta.

Sapeva riconoscere ogni locanda e ogni taverna dall’odore. Il Barcaiolo Nero aveva un odore salmastro. Da Pynto sapeva di vino inacidito, formaggio puzzolente e dello stesso Pynto, il quale non si cambiava mai i vestiti e non si lavava mai i capelli. Al Rammendatore di Vele l’aria fumosa era sempre carica del­l’odore di carne arrostita. La Casa delle Sette Lanterne odorava d’incenso, il Palazzo di Raso dei profumi delle ragazze giovani e belle che sognavano di diventare cortigiane.

Ciascuno di quei luoghi aveva anche i propri suoni. Da Moroggo e alla Locanda dell’Anguilla Verde quasi ogni sera si esibivano cantastorie. Alla Locanda del Reietto erano gli avventori stessi a esibirsi, con voci da ubriachi e in decine di lingue diverse. La Casa della Nebbia era sempre affollata di rematori delle barche-serpente che discutevano di dèi, cortigiane, e se il Signore del Mare fosse un idiota oppure no. Il Palazzo di Raso era molto più tranquillo, un luogo di tenerezze sussurrate, soffici fruscii degli abiti di seta, risatine delle ragazze.

Beth andava a mendicare ogni notte in un posto diverso. Aveva imparato molto in fretta che locandieri e tavernieri erano più portati a tollerare la sua presenza se non diventava troppo assidua. La notte precedente l’aveva passata davanti alla Locanda dell’Anguilla Verde, per cui quella sera, dopo aver oltrepassato il Ponte Insanguinato, svoltò a destra invece che a sinistra, raggiungendo Da Pynto, all’estremità opposta del Porto degli Stracci, proprio al margine della Città Annegata. Sarà anche stato rumoroso e puzzolente, ma sotto quei vestiti non lavati e quelle croste di sporco Pynto aveva comunque un cuore gentile. Il più delle volte, se il locale non era troppo affollato, le permetteva di entrare, certe volte le dava addirittura un boccale di birra chiara e un tozzo di pane, mentre le raccontava le sue storie. Da giovane, Pynto era stato il più famigerato pirata delle Stepstones, almeno a sentire lui; e non c’era nulla che gli piacesse di più che magnificare le proprie imprese.

Quella notte, lei ebbe fortuna. La taverna era quasi vuota, e poté trovare un angolino tranquillo non lontano dal fuoco. Si era appena seduta, accavallando le gambe, che qualcosa le sfiorò la coscia. «Di nuovo qui?» disse la fanciulla cieca.

Gli grattò la testa dietro un orecchio, il gatto le saltò in grembo e cominciò a fare le fusa. Braavos era piena di gatti, e Da Pynto ancora di più che altrove. Il vecchio pirata credeva che i gatti, oltre a portare fortuna, tenessero lontani i topi dal locale, topi a quattro e a due zampe.

«Tu mi conosci, vero?» sussurrò la fanciulla cieca. I gatti non si facevano ingannare da una verruca da guitti. Si ricordavano della Gatta dei Canali.

Fu una notte fruttuosa. Pynto, di ottimo umore, le diede una coppa di vino annacquato, un pezzo di formaggio puzzolente e mezzo sformato d’anguilla. «Pynto è proprio un brav’uomo» dichiarò, dopo essersi seduto con lei a raccontarle di quando aveva abbordato la nave delle spezie, una storia che lei aveva già sentito almeno una dozzina di volte.

Con il passare delle ore, la taverna si riempì. Pynto fu troppo occupato per prestarle attenzione, ma parecchi dei suoi clienti abituali lasciarono cadere del conio nella sua ciotola da mendicante. Altri tavoli erano occupati da forestieri: balenieri di Ibben che puzzavano di sangue e di grasso di balena, un paio di bravacci con oli profumati nei capelli, un uomo grasso di Lorath che si lamentava che le panche nel locale di Pynto erano troppo strette per la sua mole. Più tardi, arrivarono tre lyseniani, dei marinai sbarcati dalla Buoncuore, una galea danneggiata dalla tempesta che era arrancata fino a Braavos la notte precedente e che quella mattina era stata sequestrata dalle guardie del Signore del Mare.

I lyseniani occuparono il tavolo più vicino al fuoco e si misero a parlare sommessamente sopra coppe di rum nero catrame, tenendo la voce talmente bassa che nessuno poteva origliare. Ma la fanciulla cieca non era nessuno, e udì quasi ogni parola. E per un attimo ebbe l’impressione di riuscire anche a vederli: attraverso gli occhi gialli a fessura del gatto che, acciambellato sul suo grembo, continuava a fare le fusa. Uno dei tre lyseniani era anziano, l’altro giovane e al terzo mancava un orecchio, ma tutti e tre avevano i capelli biondo pallido e la tipica pelle chiara di Lys, città libera in cui scorreva ancora forte il sangue dell’antica Valyria.

La mattina seguente, quando l’uomo gentile le chiese quali tre cose nuove lei avesse saputo che prima non sapeva, la fanciulla cieca era pronta.

«So per quale ragione il Signore del Mare ha sequestrato la Buoncuore. La nave trasportava schiavi. Centinaia di schiavi, donne e bambini, legati insieme nella stiva.» Braavos era stata fondata da schiavi in fuga, e il traffico degli schiavi era proibito.

«So da dove arrivano quegli schiavi. Erano bruti del continente occidentale, prelevati in un posto chiamato Aspra Dimora. Un antico insediamento in rovina, un luogo maledetto.» A Grande Inverno, quando lei era ancora Arya Stark, la Vecchia Nan le aveva narrato delle storie su Aspra Dimora. «Dopo la grande battaglia, in cui il Re oltre la Barriera è rimasto ucciso, i bruti sono fuggiti, e questa strega dei boschi chiamata Madre Talpa ha detto loro che se fossero andati ad Aspra Dimora sarebbero arrivate delle navi per portarli al sicuro in un posto caldo. Ma non è arrivata nessuna nave, tranne quelle dei pirati lyseniani, la Buoncuore e la Elefante, spinte verso nord da una tempesta. Hanno gettato l’ancora ad Aspra Dimora per compiere le riparazioni e hanno visto i bruti, ma erano migliaia e loro non avevano posto per tutti, per cui hanno detto che avrebbero preso solamente le donne e i bambini. I bruti non avevano niente da mangiare, per cui gli uomini hanno fatto imbarcare mogli e figlie. Ma una volta che le navi sono state al largo, i lyseniani le hanno fatte scendere nella stiva e le hanno legate. La loro intenzione era di rivenderle a Lys. Dopo di che sono finiti in un’altra tempesta e le due navi si sono separate. La Buoncuore è rimasta talmente danneggiata che il comandante non ha avuto altra scelta che puntare su Braavos, mentre la Elefante potrebbe essere riuscita a raggiungere Lys. Quei lyseniani Da Pynto hanno detto che forse la Elefante sarebbe tornata ad Aspra Dimora con altre navi schiaviste. Il prezzo degli schiavi sta aumentando, dicevano, e là ci sono altre migliaia di donne e di bambini.»

«Questo è bene a sapersi. Sono due cose, e la terza?»

«Sì, la terza è che sei stato tu a colpirmi nel sepolcro.» Il bastone della fanciulla cieca vorticò e si abbatté sulle dita dell’uomo gentile, scaraventando il suo bastone a terra.

L’officiante del Dio dai Mille Volti contrasse il volto per il dolore. «E come fa una fanciulla cieca a saperlo?»

“Ti ho visto.” «Ti ho detto tre cose che ho saputo. Non sono obbligata a dirtene una quarta.»

Forse, il mattino dopo, gli avrebbe parlato del gatto che l’aveva seguita Da Pynto fino al tempio e si era nascosto fra le travature della volta del sepolcro, per osservarli dall’alto. “O forse no.” Se l’uomo gentile aveva dei segreti, poteva averne anche lei.

Quella sera, per cena, Umma le servì zuppa di granchio in crosta salata. Quando le venne posta davanti la coppa, la fanciulla cieca arricciò il naso e la scolò con tre lunghe sorsate. Poi ansimò e posò la coppa. La sua lingua era infuocata e, quando bevve del vino, quelle fiamme si dilatarono dalla gola su fino al naso.

«Il vino non serve, e l’acqua non farà altro che attizzare le fiamme» le disse l’orfana. «Mangia questo.» Le mise in mano un tozzo di pane. La fanciulla cieca se lo cacciò in bocca, masticò, inghiottì. In effetti aiutò. Il secondo boccone aiutò ancora di più.

E quando arrivò il mattino, quando il lupo della notte la lasciò e lei aprì gli occhi, vide una candela di sego ardere là dove prima non c’era stata nessuna candela; la sua fiamma incerta ancheggiava avanti e indietro come una baldracca del Porto Felice. Lei non aveva mai visto nulla di più meraviglioso.