Il cielo era di un blu spietato, senza neanche una nube in vista. “Presto i mattoni cuoceranno sotto il sole” pensò Dany. “Giù, sulla sabbia, i guerrieri sentiranno il caldo salire attraverso la suola dei sandali.”
Jhiqui le sfilò la veste di seta dalla testa e Irri l’aiutò a entrare nella vasca. La luce dell’alba luccicò sull’acqua, spezzata dall’ombra dell’albero di cachi. «Anche se le fosse da combattimento saranno riaperte, vostra grazia deve proprio andarci?» chiese Missandei, lavando i capelli della regina.
«Mezza Meereen sarà là per vedere me, cuore gentile.»
«Vostra grazia» insisté Missandei «questa scriba chiede il tuo permesso di poter dire che mezza Meereen sarà là per vedere uomini sanguinare e morire.»
“Ha ragione” pensò la regina “ma non fa differenza.”
In breve, Dany fu pulita come non era stata mai. Si alzò, sollevando schizzi leggeri. L’acqua le corse lungo le gambe e le imperlò i seni. Il sole saliva nel cielo, e presto la sua gente avrebbe cominciato a radunarsi. Dany avrebbe preferito starsene tutto il giorno in quell’acqua fragrante, a mangiare frutta gelata disposta su vassoi d’argento e a sognare una casa con la porta rossa. Ma una regina appartiene al suo popolo, non a se stessa.
Jhiqui portò un telo morbido per asciugarla.
«Khaleesi, quale tokar desideri indossare oggi?» chiese Irri.
«Quello di seta gialla.» La regina dei conigli non poteva certo mostrarsi senza le sue orecchie flosce. La seta gialla era fresca e leggera, e sarebbe stata accecante giù nella fossa da combattimento. “Le sabbie rosse bruceranno i piedi dei morituri.” «E sopra, dei lunghi veli rossi.» I veli avrebbero impedito che il vento le soffiasse la sabbia in bocca. “Inoltre il rosso nasconderà gli schizzi di sangue.”
Mentre Jhiqui le spazzolava i capelli e Irri le dipingeva le unghie, chiacchierarono allegramente degli incontri della giornata. Tornò Missandei. «Vostra grazia, il re chiede che lo raggiunga appena sarai vestita. E il principe Quentyn è qui con i suoi dorniani. Chiedono di parlarti, se ti compiace.»
“Già nelle prossime ore mi compiacerà” rifletté Dany. «Un altro giorno.»
Ser Barristan aspettava alla base della Grande Piramide con un palanchino scoperto riccamente ornato, circondato dalle Belve d’Ottone. “Ser Nonno” pensò Dany. Malgrado l’età, era alto e bello nella corazza che lei gli aveva donato. «Sarei più contento, vostra grazia, se oggi tu avessi attorno a te una guardia di Immacolati» dichiarò l’anziano cavaliere, mentre Hizdahr andava a dare il benvenuto al cugino. «Metà di queste Belve d’Ottone sono liberti mai messi alla prova.» Ed evitò di aggiungere: “E l’altra metà sono meerensi di dubbia fedeltà”. Selmy diffidava di tutti i meerensi, inclusi i Testarasata.
«E tali rimarranno, se non li mettiamo alla prova.»
«Una maschera può nascondere molte cose, vostra grazia. L’uomo sotto la maschera è il medesimo gufo che ha vegliato su di te ieri e il giorno prima? Come possiamo saperlo?»
«Come potrà mai Meereen fidarsi delle Belve d’Ottone, se io stessa non lo faccio per prima? Sotto quelle maschere ci sono uomini validi e coraggiosi. Metto la mia vita nelle loro mani.» Dany gli sorrise. «Ti crucci troppo, ser. Avrò te vicino, di quale altra protezione ho bisogno?»
«Io sono vecchio, vostra grazia.»
«Con me ci sarà anche Belwas il Forte.»
«Come tu dici.» Poi ser Barristan abbassò la voce. «Vostra grazia, abbiamo liberato quella donna, Meris, come tu avevi ordinato. Prima di andare, ha chiesto di parlarti. L’ho ricevuta io al posto tuo. Sostiene che il Principe Straccione intendeva schierare la Compagnia del Vento dalla tua parte fin dall’inizio; che ha mandato qui lei per trattare con te in segreto, ma che i dorniani li hanno smascherati e traditi prima che lei potesse agire.»
“Tradimento su tradimento” pensò la regina stancamente. “Si arriverà mai alla fine?” «Quanto credito dai alle sue parole, ser?»
«Ben poco, vostra grazia, ma queste sono state le sue parole.»
«Si schiereranno con noi, se necessario?»
«Lei dice di sì. Ma a un prezzo.»
«Pagalo.» Meereen aveva bisogno di ferro, non di oro.
«Il Principe Straccione non si accontenterà del conio, vostra grazia. Meris dice che vuole Pentos.»
«Pentos?» Dany socchiuse gli occhi. «Come faccio a dargli Pentos? È molto distante da qui.»
«Meris dice che è disposto ad aspettare, finché non marceremo sull’Occidente.»
“E se non dovessi farlo mai?” «Pentos appartiene ai pentoshi. E a Pentos c’è magistro Illyrio. L’uomo che ha combinato il mio matrimonio con il Khal Drogo e mi ha dato le uova di drago. L’uomo che ha mandato al mio fianco te, Belwas e Groleo. Un uomo cui devo moltissimo. Non ripagherò il mio debito consegnando la sua città a un comandante mercenario. No.»
Ser Barristan chinò la testa. «Vostra grazia è saggia.»
«Hai mai visto un giorno così fausto, amore mio?» commentò Hizdahr zo Loraq, quando lei lo raggiunse. L’aiutò a salire sul palanchino, dove erano stati sistemati due alti troni affiancati.
«Fausto per te, forse. Meno per quelli che devono morire prima del tramonto.»
«Tutti gli uomini devono morire» rispose Hizdahr «ma non tutti possono morire in gloria, con gli applausi della città che risuonano nelle loro orecchie.» Alzò la mano per fare un cenno ai soldati alle porte. «Aprite.»
La piazza antistante la piramide era pavimentata con mattoni multicolori, e il calore si levava in ondate tremule. La gente sciamava da ogni parte. Alcuni si spostavano su lettighe o portantine, altri a dorso di mulo, molti erano a piedi. Nove su dieci andavano a ponente, lungo l’ampia via principale di mattoni che portava alla Fossa di Daznak. Quando scorsero il palanchino uscire dalla piramide, i più vicini acclamarono, e gli applausi si diffusero progressivamente all’intera piazza. “Che strano” pensò la regina. “Mi applaudono nella stessa piazza dove un tempo ho fatto impalare centosessantatré Grandi Padroni.”
Un enorme tamburo precedeva il corteo reale, per sgomberare la strada. Fra un colpo e l’altro, un araldo testarasata con un’armatura di lucidi dischi di rame gridava alla folla di spostarsi. Boom. «Arrivano!» Boom. «Fate largo!» Boom. «La regina!» Boom. «Il re!» Boom. Dietro il tamburo, le Belve d’Ottone marciavano in fila per quattro. Alcuni impugnavano dei randelli, altri dei bastoni; tutti indossavano gonnellini a pieghe, sandali di cuoio e mantelli a scacchi di molti colori, che ricordavano i mattoni di Meereen. Le loro maschere luccicavano al sole: cinghiali e tori, falchi e aironi, leoni, tigri e orsi, serpenti dalla lingua biforcuta e orribili basilischi.
Belwas il Forte, che non aveva simpatia per i cavalli, camminava davanti a tutti, con la sua tunica trapuntata e l’ampio ventre bruno segnato da cicatrici che tremolava a ogni passo. Irri e Jhiqui seguivano a cavallo, con Aggo e Rakharo, poi Reznak su una portantina riccamente ornata, con un telo per riparargli la testa dal sole. Ser Barristan Selmy cavalcava al fianco di Dany, con la corazza scintillante al sole. Un lungo mantello gli fluttuava alle spalle, candido come ossa. Al braccio sinistro portava un grande scudo bianco. Un po’ più indietro c’era Quentyn Martell, il principe dorniano, con i suoi due compagni.
Il corteo avanzava lentamente sulla lunga strada di mattoni. Boom. «Arrivano!» Boom. «La nostra regina!» Boom. «Il nostro re!» Boom. «Fate largo!»
Dany sentiva dietro di lei le sue ancelle discutere su chi avrebbe vinto lo scontro finale della giornata. Jhiqui teneva per il gigantesco Goghor, che sembrava più un toro che un uomo, con tanto di anello di bronzo al naso. Irri insisteva che il correggiato di Belaquo Spaccateste avrebbe avuto la meglio sul gigante. “Le mie ancelle sono dothraki” pensò Dany. “La morte cavalca insieme a ogni khalasar.” Il giorno in cui aveva sposato il Khal Drogo, durante la festa di nozze gli arakh erano balenati e alcuni uomini erano morti mentre altri continuavano a bere e fornicare. Vita e morte andavano mano nella mano fra i signori del cavallo e una spruzzata di sangue si pensava benedisse un matrimonio. Ben presto il suo nuovo sposalizio avrebbe grondato sangue. Sarebbe stato altro che benedetto!
Boom, boom, boom, boom, boom, boom continuavano i tamburi più rapidi, a un tratto rabbiosi e impazienti. Ser Barristan sguainò la spada non appena il corteo si bloccò di colpo fra la piramide bianca e rosa di Pahl e quella verde e nera di Naqqan.
Dany si girò. «Perché ci siamo fermati?»
Hizdahr si alzò. «La via è ostruita.»
Un palanchino si era rovesciato di traverso sulla strada. Uno dei portatori era crollato sui mattoni, sopraffatto dal caldo. «Aiutate quell’uomo» ordinò Dany. «Toglietelo da lì prima che lo calpestino, e dategli cibo e acqua. Ha l’aspetto di uno che non mangia da due settimane.»
Ser Barristan lanciava occhiate a destra e a sinistra, inquieto. Sulle terrazze spuntarono facce ghiscariane: spiavano giù, con occhi freddi e indifferenti. «Vostra grazia, questa sosta non mi piace. Potrebbe essere una trappola. I Figli dell’Arpia…»
«… sono stati domati» dichiarò Hizdahr zo Loraq. «Perché mai dovrebbero nuocere alla mia regina, quando lei ha preso me come suo re e consorte? Ora aiutate quell’uomo, come la mia dolce regina ha comandato.» Prese la mano di Dany e sorrise.
Le Belve d’Ottone eseguirono l’ordine. Dany li guardò all’opera. «Quei portatori erano schiavi prima che io arrivassi. Li ho resi liberi, ma il palanchino non si è per questo alleggerito.»
«È vero» rispose Hizdahr «però adesso quegli uomini sono pagati per portarne il peso. Prima che tu arrivassi, l’uomo che è caduto si sarebbe trovato davanti un sorvegliante e sarebbe stato frustato a sangue. Oggi, invece, viene aiutato.»
Era vero. Una Belva d’Ottone con la maschera da cinghiale aveva offerto un otre d’acqua al poveretto. «Immagino di dover essere grata per le piccole vittorie» disse la regina.
«Un passo dopo l’altro, e presto correremo. Insieme creeremo una nuova Meereen.» La strada era finalmente stata sgombrata. «Vogliamo procedere?»
Che cosa avrebbe potuto fare, se non annuire? “Un passo dopo l’altro, ma dove sto andando?”
Alle porte della Fossa di Daznak, due guerrieri di bronzo torreggianti erano avvinti in un combattimento mortale. Uno impugnava una spada, l’altro un’ascia; lo scultore li aveva raffigurati nell’atto di uccidersi a vicenda, le loro lame e i loro corpi formavano un passaggio ad arco.
“L’arte mortale” pensò Dany.
Aveva visto varie volte le fosse da combattimento dalla sua terrazza. Quelle più piccole punteggiavano Meereen come foruncoli; quelle più grandi erano piaghe infiammate e purulente. Nessuna, però, era paragonabile alla Fossa di Daznak. Belwas il Forte e ser Barristan si misero ai due lati mentre Daenerys e il suo consorte passavano sotto i bronzi, per emergere in cima a una grande conca in mattoni con tante panche digradanti, ogni fila di un colore diverso.
Hizdahr zo Loraq la condusse giù, oltre il nero, il viola, il blu, il verde, il bianco, il giallo e l’arancione fino al rosso, dove i mattoni scarlatti avevano il colore delle sabbie sottostanti. Intorno a loro, i venditori ambulanti offrivano salsicce di cane, cipolle arrostite e spiedini con feti di cucciolo, ma Dany non ne aveva bisogno. Hizdahr aveva rifornito il loro palco con caraffe di vino ghiacciato e acqua addolcita, fichi, datteri, meloni e melagrane, noci pecan e peperoncini, e una grande ciotola di locuste sotto miele.
Belwas il Forte mugghiò: «Locuste!», poi prese la ciotola e cominciò a divorarle a manciate.
«Sono molto saporite» confermò Hizdahr. «Assaggiale, amore mio. Vengono infarinate nelle spezie prima di essere messe sotto miele, così sono al tempo stesso dolci e piccanti.»
«Il che spiega come mai Belwas stia sudando così» disse Dany. «Penso che mi accontenterò di fichi e datteri.»
Dall’altra parte della fossa sedevano le grazie, in abiti fluenti di vari colori, strette attorno all’austera figura di Galazza Galare, l’unica fra loro vestita di verde. I Grandi Padroni di Meereen occupavano le panche rosse e arancioni. Le donne erano velate e gli uomini si erano pettinati e laccati i capelli a foggia di corna, mani e punte. I consanguinei di Hizdahr, dell’antica stirpe di Loraq, parevano prediligere i tokar viola, indaco e lilla, mentre quelli dei Pahl erano a strisce bianche e rosa. Gli inviati yunkai erano tutti in giallo e riempivano il palco accanto a quello del re, ognuno con un seguito di schiavi e servitori. I meerensi di nascita più umile affollavano le gradinate superiori, più lontano dalla scena del massacro. Le panche nere e viola, più alte e distanti dalla sabbia, erano gremite di liberti e gente comune. Anche i mercenari erano stati sistemati lassù, Daenerys vide i loro capitani seduti in mezzo ai soldati semplici. Scorse la faccia stagionata di Ben il Marrone e i baffi rosso vivo e le lunghe trecce di Barba Insanguinata.
Il lord suo marito si mise in piedi e sollevò le mani. «Grandi Padroni! La mia regina è venuta qui oggi per dimostrare il suo amore per voi, il suo popolo. Per sua grazia e col suo permesso io ora vi offro l’arte mortale. Meereen! Che la regina Daenerys ascolti il vostro amore!»
Diecimila gole ruggirono il loro ringraziamento, poi ventimila, poi tutti quanti. Non gridavano il suo nome, che pochi di loro riuscivano a pronunciare. «Madre!» urlavano invece; nell’antica lingua morta di Ghis la parola era “Mhysa”. Batterono i piedi e si diedero manate sul ventre invocando «Mhysa, Mhysa, Mhysa», finché l’intera fossa non parve tremare. Dany si lasciò inondare da quel frastuono. “Non sono vostra madre” avrebbe potuto replicare “sono la madre dei vostri schiavi, di ogni bambino che è morto su quelle sabbie mentre vi ingozzavate di locuste sotto miele.” Dietro di lei, Reznak si chinò a bisbigliarle all’orecchio: «Magnificenza, senti come ti amano!».
“No” lei sapeva “amano la loro arte mortale.” Quando gli applausi cominciarono a scemare, Dany tornò a sedersi. Il loro palco era in ombra, ma lei sentiva la testa pulsare per il caldo. «Jhiqui» chiamò «dell’acqua addolcita, per cortesia. Ho la gola secca.»
«Khrazz avrà l’onore della prima uccisione della giornata» le disse Hizdahr. «Non c’è mai stato un combattente migliore.»
«Belwas il Forte era migliore» obiettò Belwas il Forte.
Khrazz era un meerense, di umili origini: alto, con un cespuglio di rigidi capelli rossi e neri al centro della testa. Il suo avversario era un lanciere delle Isole dell’Estate, con la pelle color ebano, i cui colpi di punta tennero a bada Khrazz per un po’, ma appena egli riuscì a passare sotto la lancia, lo macellò con la sua spada corta. Alla fine, gli strappò il cuore dal petto, lo alzò sopra la testa, rosso e gocciolante, e ne staccò un morso.
«Khrazz crede che il cuore degli Uomini Coraggiosi possa accrescere la sua forza» spiegò Hizdahr. Jhiqui mormorò la sua approvazione. Dany una volta aveva mangiato il cuore di un destriero per dare forza al figlio mai nato… ma questo non aveva salvato Rhaego, quando la maegi glielo aveva assassinato nel grembo. “Tre tradimenti dovrai conoscere. Lei era stato il primo, Jorah il secondo, Ben Plumm il Marrone il terzo.” Aveva quindi terminato, con i tradimenti?
«Ah» esclamò Hizdahr compiaciuto. «Adesso tocca a Gatto Maculato. Guarda come si muove, mia regina. Pura poesia.»
L’avversario che Hizdahr aveva trovato da schierare contro la poesia danzante era alto quanto Goghor e largo quanto Belwas, ma lento. I due stavano combattendo a due metri dal palco di Dany, quando Gatto Maculato sgarrettò l’avversario. Mentre l’uomo crollava in ginocchio, il Gatto gli mise un piede sulla schiena, gli passò una mano intorno alla testa e gli aprì la gola da un orecchio all’altro. Le sabbie rosse bevvero il suo sangue, il vento portò via le sue ultime parole. La folla gridò in segno d’approvazione.
«Brutto combattimento, bella morte» commentò Belwas il Forte. «A Belwas il Forte non piace quando gridano.» Aveva finito tutte le locuste sotto miele. Ruttò e bevve un’abbondante sorsata di vino.
Pallidi qarthiani, neri uomini delle Isole dell’Estate, dothraki dalla pelle ramata, tyroshi con le barbe blu, uomini agnello, jogos nhai, arcigni braavosiani, mezzi uomini striati delle giungle di Sothoros… arrivavano dai più remoti angoli del mondo per morire là, nella Fossa di Daznak.
«Questo promette bene, amore mio» disse Hizdahr di un giovane lyseniano con i lunghi capelli biondi sciolti al vento, ma il suo avversario afferrò una ciocca di quei capelli, lo fece sbilanciare e lo sventrò. Da morto sembrava ancora più giovane che con la spada in pugno.
«Un ragazzo» disse Dany. «Era solo un bambino.»
«Sedici anni» puntualizzò Hizdahr. «Un uomo fatto che ha liberamente scelto di rischiare la vita per l’oro e la gloria. Nessun bambino muore oggi nella Fossa di Daznak, proprio come la mia gentile regina ha decretato nella sua saggezza.»
“Un’altra piccola vittoria. Forse non posso rendere il mio popolo buono” si disse “ma devo quanto meno cercare di renderlo meno cattivo.” Avrebbe voluto proibire i combattimenti fra donne, ma Barsena la Mora aveva protestato, sostenendo di avere il diritto di rischiare la vita come qualsiasi uomo. La regina avrebbe anche desiderato vietare le farse, comici scontri in cui storpi, nani e vecchie si affrontavano con mannaie, torce e martelli (più inetti erano i combattenti, più comica la farsa, si pensava), ma Hizdahr aveva detto che i suoi sudditi l’avrebbero amata di più se lei avesse riso con loro, e aggiunse che senza simili divertimenti gli storpi, i nani e le vecchie avrebbero patito la fame. Così Dany aveva ceduto.
Un tempo era consuetudine condannare i criminali alle fosse; Dany accettò di ripristinare tale pratica, ma solo per certi crimini. «Assassini e stupratori possono essere costretti a combattere, e così tutti quelli che persistono nello schiavismo, ma non i ladri né i debitori.»
Gli animali, però, erano ancora permessi. Dany guardò un elefante fare fuori in poco tempo un branco di sei lupi rossi. Poi un toro venne contrapposto a un orso in una battaglia sanguinosa che lasciò entrambi gli animali feriti e moribondi. «La carne non viene sprecata» disse Hizdahr. «I macellai usano le carcasse per fare uno stufato salutare per gli affamati. Chiunque si presenti alle Porte del Fato può averne una ciotola.»
«Una buona legge» disse Dany. “Ne hai così poche.” «Dobbiamo accertarci che questa tradizione prosegua.»
Dopo gli scontri fra animali ci fu una battaglia simulata fra sei uomini a piedi e sei a cavallo: i primi armati di scudo e spada lunga, i secondi di arakh dothraki. Gli uomini a piedi indossavano usbergo di maglia di ferro, mentre i dothraki a cavallo non avevano corazza. Sulle prime i dothraki parvero avere la meglio, travolsero due avversari e mozzarono un orecchio a un terzo, ma poi gli avversari rimasti cominciarono ad attaccare i cavalli. Uno dopo l’altro i dothraki furono gettati a terra e uccisi, con grande disgusto di Jhiqui. «Quello non era un vero khalasar» disse.
«Mi auguro che queste carcasse non siano destinate al tuo stufato salutare» disse Dany, mentre i cadaveri venivano rimossi.
«I cavalli, sì» rispose Hizdahr. «Gli uomini, no.»
«Carne di cavallo e cipolle ti rendono più forte» assicurò Belwas.
La battaglia fu seguita dalla prima farsa del giorno, un torneo fra due nani offerti da uno dei lord yunkai che Hizdahr aveva invitato ai giochi. Uno cavalcava un cane, l’altro una scrofa. Le loro corazze di legno erano state dipinte di fresco: una mostrava il cervo dell’usurpatore Robert Baratheon, l’altra il leone d’oro di Casa Lannister. Quella farsa era chiaramente in onore di Daenerys. I loro buffi gesti strapparono in breve grandi risate a Belwas, mentre il sorriso della regina era debole e forzato. Quando il nano rosso ruzzolò giù dalla sella e cominciò a inseguire la scrofa sulla sabbia, mentre quello sul cane gli galoppava dietro e con la spada di legno gli dava colpi sulle natiche, Dany disse: «Lo spettacolo è piacevole e divertente, ma…».
«Porta pazienza, amore mio» rispose Hizdahr. «Stanno per liberare i leoni.»
Daenerys gli lanciò un’occhiata, perplessa. «I leoni?»
«Tre. I nani non se lo immaginano nemmeno.»
Dany corrugò la fronte. «I nani hanno spade di legno, corazze di legno, come ti aspetti che possano combattere dei leoni?»
«Malamente» disse Hizdahr «ma forse ci sorprenderanno. È più probabile che strillino, scappino e cerchino di arrampicarsi fuori della fossa. È questo che rende lo spettacolo una farsa.»
Dany non fu compiaciuta. «Lo proibisco.»
«Nobile regina, non vorrai deludere il tuo popolo.»
«Mi avevi giurato che i combattenti sarebbero stati uomini adulti che avevano liberamente acconsentito a rischiare la vita per l’oro e la gloria. Quei nani non hanno acconsentito a battersi contro i leoni con delle spade di legno. Blocca tutto, subito.»
Il re serrò le labbra. Per un istante Dany pensò di vedere un lampo d’ira in quegli occhi solitamente placidi. «Come tu comandi» cedette Hizdahr. Chiamò con un cenno il maestro della fossa. «Niente leoni» disse, quando l’uomo si avvicinò di corsa, con la frusta in mano.
«Neanche uno, magnificenza? Ma allora dov’è il divertimento?»
«La mia regina ha parlato. Ai nani non sarà fatto alcun male.»
«Alla folla questo non piacerà.»
«Allora fa’ entrare Barsena. Lei dovrebbe accontentarli.»
«Vostra eccellenza sa ciò che è meglio» rispose il maestro della fossa. Schioccò la frusta e impartì gli ordini. I nani furono spinti fuori, scrofa e cane e tutto, mentre gli spettatori fischiavano in segno di disapprovazione, lanciando sassi e frutta marcia.
Quando Barsena la Mora avanzò sulla sabbia, nuda a parte il perizoma e i sandali, si levò un boato. Alta e scura di pelle, sulla trentina, si muoveva con la grazia di una pantera.
«Barsena è molto amata» spiegò Hizdahr, mentre le grida di acclamazione riempivano l’arena. «La donna più coraggiosa che abbia mai visto.»
«Combattere contro delle donne non è tanto coraggioso» disse Belwas il Forte. «Combattere contro Belwas il Forte sarebbe coraggioso.»
«Oggi combatte contro un cinghiale» disse Hizdahr.
“Aye, ma solo perché non sei riuscito a trovare un’altra donna che l’affrontasse, per quanto gonfia fosse la borsa” pensò Dany. «E a quanto pare, non con una spada di legno.»
Il cinghiale era una bestia enorme, con le zanne lunghe quanto un avambraccio e piccoli occhi che roteavano furenti. Dany si domandò se il cinghiale che aveva ucciso Robert Baratheon avesse avuto un aspetto altrettanto feroce. “Una creatura terribile e una morte terribile.” Per un istante provò quasi dispiacere per l’Usurpatore.
«Barsena è molto veloce» disse Reznak. «Danzerà col cinghiale, magnificenza, e quando gli passerà vicino lo farà a pezzi. La bestia sarà in un bagno di sangue prima di toccare terra, vedrai.»
Iniziò così come aveva detto. Il cinghiale caricò, Barsena si spostò rapidamente e la sua lama mandò barbagli argentei nel sole. «Ha bisogno di una lancia» disse ser Barristan, mentre Barsena evitava la seconda carica. «Quello non è il modo di affrontare un cinghiale.» Pareva un vecchio nonno pignolo, proprio come diceva sempre Daario.
La lama di Barsena si era tinta di rosso, ma ben presto il cinghiale si fermò. “È più furbo di un toro” capì Dany. “Non caricherà più.”
Anche Barsena era giunta alla stessa conclusione. Si avvicinò al cinghiale lanciando delle grida e passandosi la daga da una mano all’altra. Il cinghiale arretrò, Barsena imprecò, vibrandogli un colpo sul muso per provocarlo… e ci riuscì. Questa volta balzò indietro con un attimo di ritardo, e una delle zanne le squarciò la gamba sinistra dal ginocchio all’inguine.
Un gemito salì da trentamila gole. Stringendo la gamba ferita, Barsena lasciò cadere il coltello e cercò di allontanarsi arrancando, ma non aveva fatto nemmeno due passi che il cinghiale le fu di nuovo addosso. Dany girò la faccia di lato. «È stata abbastanza coraggiosa?» chiese a Belwas il Forte, mentre un urlo risuonava sulla sabbia.
«Combattere i cinghiali è coraggioso, ma gridare così forte non è coraggioso. Fa male alle orecchie di Belwas il Forte.» L’eunuco si strofinò lo stomaco prominente, segnato da vecchie cicatrici chiare. «Fa anche venire il mal di pancia a Belwas il Forte.»
Il cinghiale affondò il grugno nel ventre di Barsena e cominciò a tirare fuori le viscere. L’odore fu più di quanto la regina potesse sopportare. Il caldo, le mosche, le grida della folla… “Non riesco a respirare.” Sollevò il velo e lo lasciò volare via. Si tolse anche il tokar. Le perle tintinnarono debolmente mentre lei srotolava la seta.
«Khaleesi?» esclamò Irri. «Che cosa fai?»
«Mi tolgo le orecchie flosce.» Una decina di uomini con delle lance da cinghiale corsero fuori sulla sabbia per allontanare l’animale dal cadavere e riportarlo nel suo recinto. Il maestro della fossa era con loro, con in pugno un lungo flagello dalle punte uncinate. Mentre sferzava il cinghiale, la regina si alzò. «Ser Barristan, mi riporti per favore nel mio giardino?»
Hizdahr parve confuso. «Ci sono altri spettacoli. Una farsa, sei vecchie e poi altri tre incontri. Belaquo e Goghor!»
«Belaquo vincerà» dichiarò Irri. «Lo sanno tutti.»
«Non è vero» replicò Jhiqui. «Belaquo morirà.»
«O l’uno o l’altro morirà» disse Dany. «E quello che sopravvivrà, morirà un altro giorno. È stato tutto un errore.»
«Belwas il Forte ha mangiato troppe locuste.» L’eunuco aveva una strana espressione. «Belwas il Forte ha bisogno di latte.»
Hizdahr non gli badò. «Magnificenza, il popolo di Meereen è venuto a festeggiare la nostra unione. Li hai sentiti come ti acclamano. Non gettare via il loro amore.»
«Hanno acclamato le mie orecchie flosce, non me. Portami via da questo mattatoio, marito.» Poteva sentire il cinghiale che soffiava, le grida dei lancieri, gli schiocchi di frusta del maestro della fossa.
«Mia dolce regina, resta ancora un po’. Almeno per la farsa e per un ultimo incontro. Chiudi gli occhi, non se ne accorgerà nessuno. Guarderanno Belaquo e Ghogor. Non è il momento di…»
Un’ombra passò sul suo viso.
Il tumulto e le grida cessarono. Diecimila voci ammutolirono. Tutti gli occhi puntarono verso il cielo. Un vento caldo sfiorò le guance di Dany e, al di sopra del battito del suo cuore, la regina udì un rumore di ali. Due lancieri corsero al riparo. Il maestro della fossa rimase impietrito dove si trovava. Il cinghiale riprese a grufolare sul cadavere di Barsena. Belwas il Forte emise un gemito, si alzò dalla panca, barcollò e ricadde sulle ginocchia.
Sopra di loro, il drago virò, scuro contro il sole. Le sue scaglie erano nere, gli occhi, le corna e le piastre dorsali rosso sangue. Drogon, da sempre il più grosso dei tre, vivendo allo stato brado era cresciuto ancora di più. Le sue ali, nere come il giaietto, misuravano venti piedi da un’estremità all’altra. Le batté una volta sola, mentre planava sulla sabbia, e il rumore fu simile a un rombo di tuono. Il cinghiale alzò la testa, soffiando… e fu avvolto dalle fiamme, nero fuoco striato di rosso. Dany sentì la vampata di calore a trenta piedi di distanza. Il grido del cinghiale morente risuonò quasi umano. Drogon atterrò sulla carcassa e affondò gli artigli nella carne fumante. Cominciò a mangiare, senza fare distinzione fra Barsena e il cinghiale.
«Santi dèi» gemette Reznak, il siniscalco. «La sta divorando!» Si coprì la bocca.
Belwas il Forte vomitava rumorosamente.
Una strana espressione passò sul viso lungo e pallido di Hizdahr zo Loraq: in parte paura, in parte voluttà, in parte rapimento estatico. Si leccò le labbra. Dany vide i pahl risalire in massa le gradinate, tenendo stretti i loro tokar e inciampando nelle frange per la fretta di allontanarsi. Altri li seguirono. Alcuni correvano, spingendosi. I più restarono seduti sulle panche.
Un uomo si assunse il compito dell’eroe.
Era uno dei lancieri usciti per ricondurre il cinghiale nel recinto. Forse era ubriaco oppure pazzo. Forse aveva amato Barsena la Mora da lontano, o aveva udito parlare di Hazzea. Forse era solo un uomo comune che voleva essere ricordato nelle ballate dei bardi. Si avventò, con la lancia in resta. La sabbia rossa schizzò sotto i suoi piedi, grida risuonarono dagli spalti. Drogon sollevò la testa, con le zanne grondanti sangue. L’eroe gli saltò sulla schiena e conficcò la punta della lancia alla base del lungo collo ricoperto di scaglie.
Dany e Drogon gridarono all’unisono.
L’eroe premette sull’asta, usando il proprio peso per spingere a fondo la punta. Drogon s’inarcò verso l’alto con un sibilo di dolore. Sferzò l’aria con la coda, da una parte all’altra. Dany guardò la testa torcersi sul collo lungo e sinuoso, vide le nere ali dispiegarsi. L’uccisore di draghi perse l’appoggio e rotolò nella sabbia. Stava cercando di rimettersi in piedi, quando i denti del drago si chiusero con forza attorno al suo braccio. «No» fu tutto ciò che l’uomo ebbe il tempo di urlare. Drogon gli strappò l’arto dalla spalla e lo gettò da parte come un cane farebbe con un roditore.
«Uccidetelo!» gridò Hizdahr agli altri lancieri. «Ammazzate quella bestia!»
Ser Barristan tenne stretta Dany. «Non guardare, vostra grazia.»
«Lasciami!» protestò Dany, liberandosi dalla presa.
Il mondo sembrò rallentare, mentre lei scavalcava il parapetto. Quando atterrò nella fossa, perse un sandalo. Correndo, sentiva la sabbia fra le dita dei piedi, calda e ruvida. Ser Barristan la chiamava da dietro. Belwas il Forte continuava a vomitare. Dany accelerò la sua corsa.
Anche i lancieri correvano. Alcuni si dirigevano verso il drago, con le lance in mano. Altri scappavano, gettando via le armi nella fuga. L’eroe si agitava sulla sabbia, il sangue rosso vivo gli sgorgava dal moncherino della spalla. La sua lancia, incastrata sul dorso di Drogon, oscillò quando il drago batté le ali. Del fumo gli sgorgò dalla ferita. Mentre altre lance si avvicinavano, il drago sputò fuoco, inondando due uomini di fiamme nere. La coda sferzò di nuovo l’aria, colpì il maestro della fossa che si avvicinava e lo spezzò in due. Un altro attaccante fece per colpirlo agli occhi, ma il drago lo prese fra le mascelle e lo sventrò. I meerensi gridavano, imprecavano, urlavano. Dany sentì qualcuno arrivare dietro di lei. «Drogon» urlò allora. «Drogon!»
Il drago girò la testa. Dai denti uscì del fumo. Il suo sangue, quando gocciolava sulla sabbia, fumava. Il drago batté di nuovo le ali e sollevò una soffocante tempesta di sabbia scarlatta. Dany barcollò nella calda nube rossa, tossendo. Drogon fece per azzannarla.
«No» fu tutto quello che Dany ebbe il tempo di dire. “No, sono io, non mi riconosci?” I denti neri si chiusero a pochi centimetri dal suo viso. “Voleva staccarmi la testa.” Aveva la sabbia negli occhi. Inciampò nel cadavere del maestro della fossa e cadde.
Drogon ruggì. Il suono riempì la fossa. Un vento da fornace avvolse Dany. Il lungo collo ricoperto di scaglie si protese verso di lei. Quando la bocca si aprì, Dany vide schegge di ossa spezzate e brandelli di carne bruciacchiata incastrati fra i denti neri. Gli occhi del drago erano metallo fuso. “Sto guardando negli inferi, ma non oso distogliere lo sguardo.” Non era mai stata così sicura di qualcosa. “Se scappo via, mi brucia e mi divora.” In Occidente i septon parlavano di Sette Inferi e di Sette Cieli, ma in quel momento i Sette Regni e i loro dèi erano molto lontani. Se fosse morta lì, si domandò Dany, il dio cavallo dei dothraki avrebbe aperto il mare d’erba e l’avrebbe portata nel suo khalasar stellare, affinché lei potesse cavalcare nelle Terre della Notte al fianco del figlio mai nato e del suo sole-e-stelle? O i rabbiosi dèi di Ghis avrebbero mandato le loro arpie a prendere la sua anima per trascinarla giù nel tormento?
Drogon le ruggì in faccia, il suo fiato era così caldo da far venire le vesciche sulla pelle. Lontano, alla sua destra, Dany sentì Barristan Selmy gridare: «Me, prendi me! Di qua. Prendi me!».
Dany vide la propria immagine riflessa nei profondi occhi di brace di Drogon. Come sembrava piccola, debole, fragile e spaventata! “Non posso lasciargli vedere la mia paura.” Brancolò nella sabbia, spostò il cadavere del maestro della fossa e con le dita sfiorò l’impugnatura della sua frusta. Toccarla le diede più coraggio. Il cuoio era caldo, vivo. Drogon ruggì di nuovo: un suono così forte che Dany rischiò di lasciar cadere la frusta. I suoi denti cercarono di azzannarla.
Dany lo colpì. «No!» gridò, schioccando la frusta con tutta la forza che aveva.
Il drago ritrasse di scatto la testa.
«No» gridò di nuovo. «No!» Le punte uncinate gli raschiarono il muso. Drogon si sollevò, le sue ali la oscurarono. Dany frustò le scaglie del ventre, avanti e indietro, finché non cominciò a dolerle il braccio. Il lungo collo sinuoso s’incurvò come un arco. Con un sibilo, Drogon le sputò addosso del fuoco.
Dany corse sotto le fiamme, agitando la frusta e gridando: «No, no, no. Vieni giù!». Il ruggito di risposta era pieno di paura e rabbia, pieno di dolore. Le ali batterono una volta, due…
… e si ripiegarono. Il drago emise un ultimo sibilo e si adagiò sul ventre. Del sangue nero colava dalla ferita provocata dalla lancia e toccava la sabbia bruciacchiata e fumante. “È fuoco fatto carne” pensò Dany “come me.”
Con un balzo, Daenerys Targaryen montò sulla schiena del drago, afferrò la lancia e la estrasse. La punta si era quasi fusa, il ferro era rosso incandescente. Dany la gettò via. Drogon si contorse sotto di lei, contrasse i muscoli per raccogliere le forze. L’aria era densa di sabbia. Dany non riusciva a vedere, non riusciva a respirare, non riusciva a pensare. Le ali nere scricchiolarono come un tuono, e all’improvviso la sabbia scarlatta sotto di lei si allontanò.
Dany chiuse gli occhi, stordita. Quando li riaprì, laggiù, oltre una cortina di lacrime e polvere, scorse i meerensi risalire le gradinate e poi riversarsi nelle strade.
Aveva ancora in mano la frusta. L’agitò contro il collo di Drogon e gridò: «Più in alto!».
L’altra mano si afferrò alle scaglie, cercò un appiglio con le dita. Le grandi ali nere di Drogon percuotevano l’aria. Dany sentiva il calore del drago tra le cosce. Il suo cuore pareva sul punto di esplodere.
“Sì” pensò “sì, sì, portami via… vola!”