La Cordoglio comparve solitaria all’alba, con le sue vele nere stagliate contro il cielo rosa pallido del mattino.
“Cinquantaquattro” pensò cupamente Victarion Greyjoy, quando vennero a svegliarlo. “E questo è un vascello solo.” Dentro di sé maledì il Dio della Tempesta per la sua malignità, sentiva la rabbia come una pietra nera nello stomaco. “Dove sono le mie navi?”
Era salpato dalle Isole Scudo con novantatré navi delle cento che un tempo avevano formato la Flotta di Ferro, una flotta che non apparteneva a un singolo lord, ma allo stesso Trono del Mare, con capitani ed equipaggi provenienti da tutte le isole. Erano barche più piccole degli imponenti dromoni da guerra delle terre verdi, certo, ma erano comunque tre volte più grandi di qualsiasi nave lunga, con chiglie profonde e robusti speroni, adatte a scontrarsi in battaglia con le flotte stesse del re.
Nelle Stepstones avevano caricato granaglie, selvaggina e acqua dolce, dopo il lungo viaggio seguendo le brulle e desolate coste di Dorne, pericolose per le secche e i gorghi. Laggiù la Vittoria di ferro aveva catturato un ricco mercantile, la Nobile dama, una grande cocca diretta a Vecchia Città passando per Città del Gabbiano, Duskendale e Approdo del Re, con un carico di merluzzo salato, olio di balena e aringhe in salamoia. Il cibo era stata un’apprezzata integrazione alle loro provviste. Altri cinque vascelli catturati negli Stretti di Redwyne e lungo la costa dorniana – tre cocche, un galeone e una galea – avevano portato il loro numero a novantanove.
Novantanove navi avevano lasciato le Stepstones in tre magnifiche flotte, con l’ordine di ritrovarsi ancora al largo del capo meridionale dell’Isola dei Cedri. Quarantacinque erano finora arrivate sul lato più remoto del mondo. Ventidue di quelle dello stesso Victarion si erano avvicinate con discrezione, a gruppi di tre o di quattro, oppure da sole; quattordici di Ralf lo Zoppo; solo nove di Ralf Stonehouse il Rosso. Lo stesso Ralf il Rosso era fra i dispersi. La flotta aveva aggiunto al suo numero altri nove vascelli catturati in mare, arrivando così a cinquantaquattro unità… ma le navi catturate erano cocche, pescherecci, mercantili e vascelli per il trasporto di schiavi, non navi da guerra. In battaglia sarebbero stati ben miseri rimpiazzi per le navi perdute dalla Flotta di Ferro.
L’ultima a presentarsi, tre giorni prima, era stata la Sventura della fanciulla. Il giorno prima ancora, tre navi erano arrivate insieme da sud: la Nobile dama, catturata da Victarion, che avanzava a fatica fra la Balia dei corvi e la Bacio di ferro. Invece il giorno prima e quello prima ancora non c’erano stati arrivi, e in precedenza solo la Jeyne decapitata e la Paura, poi altri due giorni di mare deserto e di cieli tersi dopo la comparsa di Ralf lo Zoppo con i resti della sua flottiglia. La Lord Quellon, la Vedova bianca, la Lamentazione, la Sventura, la Leviatano, la Lady di ferro, la Vento mietitore e la Mazza da guerra, seguite da altre sei navi, due delle quali danneggiate dalla burrasca e rimorchiate.
«Tempeste» aveva borbottato Ralf lo Zoppo quando si era presentato al cospetto di Victarion. «Tre grandi tempeste, e nel mezzo venti sfavorevoli. Venti rossi da Valyria che puzzavano di cenere e di zolfo, e venti neri che ci spingevano verso la costa brulla. Questo viaggio è stato maledetto fin dal principio. Occhio di Corvo ti teme, mio lord, altrimenti perché mandarci così lontano? Non intende farci tornare.»
Victarion aveva pensato la stessa cosa, quando era incappato nella prima tempesta a un giorno da Vecchia Volantis. “Gli dèi odiano gli assassini di consanguinei” aveva riflettuto “altrimenti Euron Occhio di Corvo sarebbe morto una decina di volte per mano mia.” Mentre il mare rumoreggiava intorno a lui, e il ponte si sollevava e ricadeva sotto i suoi piedi, aveva visto la Banchetto di drago e la Marea rossa cozzare così violentemente da esplodere entrambe riducendosi in schegge. “Opera di mio fratello” aveva pensato. Quelle erano state le prime due navi che aveva perso del terzo di flotta sotto il suo comando. Ma non le ultime.
Allora mollò due schiaffi allo Zoppo e disse: «Il primo è per le navi che hai perso, il secondo per i tuoi discorsi sulle maledizioni. Parlane ancora, e inchiodo la tua lingua all’albero maestro. Se Occhio di Corvo può fare dei muti, lo posso fare anch’io». La fitta di dolore alla mano sinistra rese le sue parole più aspre di quello che altrimenti sarebbero state, ma intendeva proprio fare come aveva detto. «Altre navi arriveranno. Le tempeste per ora sono cessate. E io avrò la mia flotta.»
Una scimmia in cima all’albero maestro schiamazzò deridendolo, quasi potesse sentire la sua frustrazione. “Lurida bestiaccia chiassosa.” Avrebbe potuto mandare un uomo a darle la caccia, ma le scimmie parevano amare quel gioco e si erano dimostrate più agili dell’equipaggio. Quelle urla, però, gli rintronarono le orecchie e sembrarono rendere le fitte alla mano più dolorose.
«Cinquantaquattro» mugugnò. Sarebbe stato troppo sperare di avere l’intera flotta dopo un viaggio così lungo… ma settanta, anche ottanta navi, il Dio Abissale poteva pure concedergliele. “Avessimo avuto Capelli Bagnati con noi, o qualche altro sacerdote.” Victarion aveva fatto un rito di sacrificio prima di salpare, e un secondo alle Stepstones, quando aveva deciso di dividere la flotta in tre, ma forse aveva pronunciato le preghiere sbagliate. “O forse, qui, il Dio Abissale non ha potere.” Aveva via via cominciato a temere di essersi spinto troppo lontano, in mari strani dove anche gli dèi erano strani… ma questi dubbi li aveva confidati solo alla sua donna dalla pelle scura, che non aveva la lingua per ripeterli.
Quando comparve la Cordoglio, Victarion mandò a chiamare Wulfe Un-orecchio. «Voglio parlare con il Sorcio. Informa Ralf lo Zoppo, Tom il Fiacco e il Pastore Nero. Tutte le squadre di cacciatori devono essere richiamate, gli accampamenti sulla spiaggia vanno levati per le prime luci dell’alba. Caricate tutta la frutta che riuscite a raccogliere e spingete a bordo i maiali. Li macelleremo quando ce ne sarà bisogno. La Squalo rimarrà qui per comunicare alle navi disperse dove siamo andati.» L’imbarcazione avrebbe avuto bisogno di tempo per le riparazioni; le tempeste l’avevano ridotta a poco più di una carcassa in disarmo. Così il numero sarebbe sceso a cinquantatré, ma non c’era altro da fare. «La flotta parte domani, con la marea della sera.»
«Come tu comandi, lord capitano» disse Wulfe. «Ma un altro giorno potrebbe significare un’altra nave.»
«Aye. E dieci giorni potrebbero significare dieci navi, oppure nessuna. Abbiamo sprecato troppi giorni aspettando di avvistare delle vele. La nostra vittoria sarà ancora più dolce, se la otterremo con una flotta più piccola.» “E io devo raggiungere la Regina dei Draghi prima dei volantiani.”
A Volantis aveva visto le galee imbarcare provviste. L’intera città sembrava ubriaca. Marinai, soldati e calderai erano stati visti ballare nelle vie insieme ai nobili e ai grassi mercanti, e in ogni locanda si brindava ai nuovi triarchi. Tutti i discorsi riguardavano l’oro, le gemme e gli schiavi che si sarebbero riversati su Volantis una volta che la Regina dei Draghi fosse morta. Un solo giorno di simili rapporti era tutto ciò che Victarion Greyjoy poteva sopportare; per cui pagò il prezzo di cibo e acqua in oro, anche se la cifra l’aveva fatto vergognare, e riportò le sue navi al largo.
Le tempeste avrebbero disperso e rallentato anche i volantiani, come era accaduto con le sue navi. Se la sorte gli sorrideva, molte delle loro navi da guerra sarebbero o affondate o arenate. Ma non tutte. Nessun dio era tanto misericordioso, e le galee verdi superstiti potevano avere già doppiato Valyria. “Staranno correndo a nord verso Meereen e Yunkai, grandi dromoni da guerra brulicanti di soldati schiavi. Se il Dio della Tempesta li ha risparmiati, a questo punto potrebbero avere raggiunto il Golfo della Sofferenza. Trecento navi, forse addirittura cinquecento.” I loro alleati erano già sotto le mura di Meereen: yunkai e astaporiani, uomini di Nuova Ghis e di Qarth, di Tolos e solo il Dio della Tempesta sapeva da quali altri luoghi, oltre alle stesse navi da guerra meerensi, quelle fuggite dalla città prima della sua caduta. Contro tutto quel dispiegamento di forze, Victarion aveva cinquantaquattro navi. Cinquantatré, senza la Squalo.
Occhio di Corvo aveva fatto il giro di mezzo mondo, depredando e saccheggiando, da Qarth a Città degli Alberi Alti, facendo scalo in porti senza dio, dove andavano solo i dementi. Euron aveva sfidato perfino il Mare Fumante, ed era sopravvissuto per poterne parlare. “E tutto questo con una sola nave. Se Euron può prendersi gioco degli dèi, allora posso farlo anch’io.”
«Aye, capitano» disse Wulfe Un-orecchio. Non valeva neanche la metà di Nute il Barbiere, ma Nute glielo aveva portato via Occhio di Corvo. Elevandolo al rango di lord di Scudo di Quercia, suo fratello si era assicurato l’uomo migliore di Victarion. «Ancora Meereen?»
«Dove, se no? La Regina dei Draghi mi aspetta a Meereen.» “La donna più bella del mondo, a quanto dice mio fratello. I suoi capelli sono oro e argento, gli occhi splendenti come ametiste.”
Era davvero troppo sperare che per una volta Euron avesse detto il vero? “Forse.” Con ogni probabilità la ragazza si sarebbe rivelata una sciattona brufolosa con le tette che le arrivano alle ginocchia, e i suoi “draghi” solo dei lucertoloni tatuati delle paludi di Sothoryos. “Se, però, è come dice Euron …” Avevano sentito parlare della bellezza di Daenerys Targaryen dai pirati sulle Stepstones e dai grassi mercanti di Vecchia Volantis. Poteva anche essere vero. E comunque suo fratello non gliel’avrebbe di certo regalata; Occhio di Corvo la voleva per sé. “Mi ha mandato come un servo a prendergliela. Chissà come bercerà, quando la reclamerò per me.” Che gli uomini degli equipaggi brontolassero pure: si erano spinti troppo lontano e avevano subìto troppe perdite perché lui tornasse a ovest senza Daenerys Targaryen, il suo trofeo.
Il capitano di ferro strinse la mano a pugno. «Fa’ sì che i miei ordini vengano eseguiti. Trova il maestro, ovunque si nasconda, e fatelo subito venire nella mia cabina.»
«Aye» Wulfe si allontanò zoppicando.
Victarion Greyjoy tornò a girarsi verso prua, passò in rassegna con lo sguardo la flotta. Una miriade di navi lunghe riempiva il mare, con le vele arrotolate e i remi a bordo, ferme all’ancora o tirate in secca sulla sabbia chiara. “L’Isola dei Cedri.” Ma dov’erano quei cedri? Annegati quattrocento anni prima, a quanto pareva. Victarion era sceso a terra una dozzina di volte, per andare a caccia di carne fresca, e non aveva visto neanche un cedro.
Il maestro che Euron gli aveva imposto in Occidente sosteneva che quel luogo un tempo era chiamato “Isola delle Cento Battaglie”, ma gli uomini che avevano combattuto quelle battaglie erano ormai polvere da secoli. “Avrebbero dovuto chiamarla Isola delle Scimmie, altro che.” C’erano anche dei maiali: i più grossi verri neri che qualsiasi abitante delle Isole di Ferro avesse mai visto, e un gran numero di maialini che squittivano nella boscaglia, coraggiose creature che non avevano paura dell’uomo. “Però stanno imparando.” Le stive della Flotta di Ferro si riempivano via via di prosciutti affumicati, carne sotto sale e pancetta.
Le scimmie invece… le scimmie erano una vera dannazione. Victarion aveva proibito ai suoi uomini di portare quelle demoniache creature a bordo, eppure, chissà come, metà della flotta ne era infestata, anche la sua Vittoria di ferro. In quel momento ne vedeva alcune saltare da un pennone all’altro, e da una nave all’altra. “Come vorrei avere una balestra!”
Victarion non amava quel mare né quei cieli sconfinati senza nuvole né il sole abbagliante che picchiava sulla testa e scaldava i ponti finché le tavole diventavano così roventi da scottare le piante dei piedi. Non gli piacevano quelle tempeste che parevano levarsi dal nulla. I mari intorno a Pyke erano spesso burrascosi, ma laggiù almeno si riusciva a fiutare il maltempo in arrivo. Quelle tempeste del Sud erano traditrici come le donne. L’acqua stessa era del colore sbagliato: un turchese luccicante vicino alla riva, e al largo di un blu talmente scuro da sembrare nero. Victarion sentiva la mancanza delle acque di casa: grigioverdi, con le onde incappucciate di spuma.
Non gli piaceva neanche l’Isola dei Cedri. La caccia poteva anche essere buona, ma le foreste erano troppo verdi e troppo silenziose, piene di alberi contorti e strani fiori variopinti che nessuno dei suoi uomini aveva mai visto. E c’erano orrori in agguato fra le macerie dei palazzi e le statue in rovina della Velos annegata, mezza lega a nord del punto dove la flotta era all’ancora. L’ultima volta che aveva passato una notte a terra, Victarion aveva fatto sogni oscuri e inquietanti, e si era svegliato con la bocca piena di sangue. Il maestro aveva detto che si era morsicato la lingua nel sonno, ma lui l’aveva ritenuto un segno del Dio Abissale, un avvertimento: se si fosse trattenuto lì troppo a lungo, sarebbe morto soffocato dal suo stesso sangue.
Il giorno in cui il Disastro colpì Valyria, si diceva, una muraglia d’acqua alta trecento piedi si era rovesciata sull’isola, travolgendo centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, senza lasciare nessuno a raccontare quello che era successo, tranne alcuni pescatori che erano per mare, e un piccolo gruppo di lancieri velosiani di guardia in una robusta torre di pietra sulla collina più alta dell’isola che avevano visto le colline e le valli sotto di loro trasformarsi in un mare infuriato. La bella Velos, con i suoi palazzi di cedro e marmo rosa, era svanita in un attimo. Sul promontorio settentrionale dell’isola, le antiche mura di mattoni e le piramidi a gradoni del porto schiavista di Ghozai avevano subito lo stesso destino.
“Con tanti annegati, il Dio Abissale qui sarà molto potente” aveva pensato Victarion, quando aveva scelto l’isola come punto di riunione delle tre parti della flotta. Lui però non era un sacerdote. E se fosse stato vero il contrario? Forse era stato proprio il Dio Abissale, furibondo, ad avere distrutto l’isola. Suo fratello Aeron avrebbe avuto una risposta, ma Capelli Bagnati era rimasto sulle Isole di Ferro, a predicare contro Occhio di Corvo e il suo dominio. “Nessun uomo senza dio dovrebbe sedere sul Trono del Mare.” Eppure, durante il concilio, i capitani e i re avevano acclamato Euron, preferendo lui a Victarion e ad altri uomini devoti.
Il sole del mattino brillava sull’acqua con increspature troppo abbaglianti. Victarion cominciò a sentire la testa pulsare, non sapeva se a causa del sole, della mano o dei dubbi che lo turbavano. Scese in cabina, dove l’aria era fresca e la luce soffusa. La donna dalla pelle scura capì quello che voleva senza che lui glielo chiedesse. Mentre Victarion si adagiava nella poltrona, prese un morbido telo bagnato dalla bacinella e glielo mise sulla fronte. «Bene» disse Victarion. «Bene. E ora la mano.»
La donna dalla pelle scura non rispose. Euron, prima di darla a lui, le aveva tagliato la lingua. Victarion non dubitava che Occhio di Corvo se la fosse anche portata a letto. Suo fratello era fatto così. “I regali di Euron sono avvelenati” aveva ricordato a se stesso quando la donna era salita a bordo. “Non voglio i suoi avanzi.” Allora aveva deciso che le avrebbe tagliato la gola e l’avrebbe buttata in mare: un sacrificio di sangue al Dio Abissale. Ma per una qualche ragione, non si era mai deciso a farlo.
Da allora avevano fatto molta strada insieme. Victarion poteva parlare con la donna dalla pelle scura. Lei non tentava mai di rispondere. «Cordoglio è l’ultima» le disse, mentre si toglieva il guanto. «Le altre navi sono disperse, in ritardo o affondate.» Fece una smorfia, quando la donna infilò la punta del coltello sotto la lurida fascia di lino avvolta intorno alla mano dello scudo. «Alcuni diranno che non avrei dovuto dividere la flotta. Stolti. Avevamo novantanove navi… un bestione ingombrante da guidare per i mari fino all’altro capo del mondo. Se le avessi tenute insieme, le navi più veloci sarebbero state ritardate da quelle più lente. E dove trovare provviste per sfamare così tante bocche? Nessun porto vuole un tale numero di navi nelle sue acque. In ogni caso, le tempeste ci avrebbero separato comunque. Come foglie sparse sul Mare dell’Estate.»
Lui invece aveva diviso le navi in flottiglie, inviandole, ciascuna per una rotta diversa, alla Baia degli Schiavisti. Aveva dato a Ralf Stonehouse il Rosso le navi più veloci, per seguire la via dei corsari lungo la costa settentrionale di Sothoryos. Tutti i marinai lo sapevano: era meglio evitare le città morte che imputridivano su quella torrida, soffocante costiera, ma nelle città di fango e sangue delle Isole del Basilisco, gremite di schiavi fuggiaschi, schiavisti, conciatori, puttane, cacciatori, uomini striati e peggio ancora, c’erano sempre delle provviste per uomini che non avevano paura di pagare il prezzo del ferro.
Le navi più grandi, più pesanti e più lente fecero rotta su Lys, per vendere i prigionieri prelevati sulle Isole Scudo, le donne e i bambini della città di lord Hewett e di altre isole, oltre a quel genere di uomini che aveva preferito arrendersi piuttosto che morire. Per questi infami, Victarion provava soltanto disprezzo. Eppure il fatto di venderli gli lasciava un gusto amaro in bocca. Prendere un uomo come schiavo o una donna come moglie di sale era giusto e appropriato, ma le persone non erano capre o pollame da poter essere comprate e vendute in cambio di oro. Fu lieto di lasciare quel mercanteggio a Ralf lo Zoppo, il quale avrebbe usato il conio per caricare le sue grosse navi di provviste per il lungo e lento passaggio a oriente.
Le navi sotto il comando dello stesso Victarion avevano seguito le coste delle Terre Contese per imbarcare cibo, vino e acqua dolce a Volantis, prima di deviare a sud e doppiare Valyria. Quella era la rotta più comune per l’oriente e anche la più frequentata, con bottini da prendere e piccole isole dove rifugiarsi durante le tempeste, riparare le imbarcazioni e, se necessario, rinnovare le scorte.
«Cinquantaquattro navi sono troppo poche» disse alla donna dalla pelle scura. «Ma non posso aspettare ancora. L’unico modo…» Emise un grugnito quando lei gli tolse la fasciatura, staccando anche una crosta. La carne sotto era verdastra e nera, là dove lo aveva colpito la spada. «… L’unico modo è cogliere gli schiavisti di sorpresa, come ho fatto una volta a Lannisport. Arrivare dal mare e sbaragliarli, poi prendere la ragazza e tornare a casa prima che i volantiani ci siano addosso.» Victarion non era un codardo, ma neppure era uno stolto: con cinquantaquattro navi non poteva sconfiggerne trecento. «Lei sarà mia moglie, e tu la sua ancella.» Un’ancella senza lingua non poteva lasciarsi sfuggire alcun segreto.
Sarebbe andato avanti a parlare, ma in quel momento arrivò il maestro, bussando timidamente alla porta della cabina, come un topo. «Entra» berciò Victarion «e sbarra la porta. Sai perché sei qui.»
«Lord capitano.» Il maestro aveva anche l’aspetto di un topo, con la sua veste grigia e i lunghi baffi castano scuro. “Crede forse che lo facciano sembrare più virile?” Si chiamava Kerwin. Era molto giovane, aveva forse ventidue anni. Disse: «Posso vedere la tua mano?».
“Che razza di domanda.” I maestri avevano la loro utilità, ma per quel Kerwin Victarion provava soltanto disprezzo. Con le sue guance lisce e rosa, le mani delicate e i capelli ricci castani, era più femmineo di molte ragazze. La prima volta che era salito a bordo della Vittoria di ferro aveva anche un sorrisetto furbesco, ma una sera, al largo delle Stepstones, aveva sorriso all’uomo sbagliato e Burton Humble gli aveva fatto saltare quattro denti. Poco tempo dopo maestro Kerwin era andato dal capitano a lamentarsi che quattro membri dell’equipaggio lo avevano trascinato sottocoperta e lo avevano usato come una donna. «Ecco come puoi porre fine a questa storia» gli aveva detto Victarion, sbattendo con violenza un pugnale sul tavolo fra loro due. Kerwin aveva preso il pugnale – troppo impaurito per rifiutarlo, pensò il capitano – ma non l’aveva mai usato.
«La mia mano è qui» disse Victarion. «Guardala pure quanto ti pare.»
Maestro Kerwin si inginocchiò per esaminare meglio la ferita. L’annusò anche, come un cane. «Dovrò far uscire di nuovo il pus. Il colore… lord capitano, la ferita non sta guarendo. Forse ti dovrò amputare la mano.»
Ne avevano già parlato. «Se mi tagli la mano, ti uccido. Prima, però, ti lego alla murata e regalo il tuo culo all’equipaggio. Procedi.»
«Farà male.»
«Come sempre.» “La vita è dolore, idiota. La gioia esiste solo nelle magioni sommerse del Dio Abissale.” «Fa’ quello che devi.»
Il ragazzo – era difficile pensare a un essere così roseo e molle come a un uomo – appoggiò la punta del coltello sul palmo della mano del capitano e incise. Il pus che sgorgò era denso e giallastro come latte inacidito. La donna dalla pelle scura arricciò il naso per l’odore, il giovane maestro quasi soffocò e perfino lo stesso Victarion si sentì rivoltare lo stomaco. «Incidi più a fondo. Fallo uscire tutto. Fammi vedere il sangue.»
Maestro Kerwin spinse il pugnale più in profondità. Questa volta fece male davvero, e insieme al pus venne fuori anche del sangue, così scuro che alla luce della lanterna sembrava nero.
Il sangue era bene. Victarion grugnì, approvando. Rimase seduto impassibile mentre il maestro, con delle pezze di morbida stoffa bollite nell’aceto, tamponava, drenava e rimuoveva il pus. Quando ebbe finito, l’acqua nella bacinella era una brodaglia ricoperta di schiuma. La sua vista avrebbe nauseato chiunque.
«Prendi quello schifo e vattene» disse Victarion. Con un gesto indicò la donna dalla pelle scura. «Ci penserà lei a fasciarmi.»
Il giovane scappò via, ma la puzza rimase. Ultimamente non c’era modo di sfuggirvi. Il maestro aveva suggerito che sarebbe stato meglio spurgare la ferita sul ponte, all’aria aperta e sotto il sole, ma Victarion non aveva voluto. Non era una cosa da mostrare all’equipaggio. Erano dall’altro capo del mondo, troppo lontani da casa per far vedere a quegli uomini che il loro capitano aveva cominciato a marcire.
La mano sinistra gli pulsava ancora, un dolore sordo, ma persistente. Quando strinse il pugno, aumentò, come se un coltello gli pugnalasse il braccio. “Non un coltello, una spada lunga. Una spada lunga impugnata da un fantasma.” Serry, così si chiamava. Un cavaliere ed erede di Scudo del Sud. “L’ho ucciso, ma lui continua a perseguitarmi anche dalla tomba. Dal centro infuocato del malefico posto dove l’ho spedito, mi conficca il suo acciaio nella mano e ce lo gira dentro.”
Victarion ricordava lo scontro, come se fosse avvenuto ieri. Lo scudo, ridotto a pezzi gli pendeva dal braccio, ormai inutilizzabile, così quando la spada lunga di Serry era calata come un lampo, lui aveva alzato la mano e l’aveva afferrata. Il giovane cavaliere era più forte di quanto non sembrasse. La sua lama aveva tranciato l’acciaio del guanto del capitano e trapassato l’imbottitura sottostante, fino alla carne del palmo. “Il graffio di un gattino” si era detto poi Victarion. Aveva lavato la ferita, vi aveva versato sopra dell’aceto bollente, l’aveva fasciata e non ci aveva pensato più, fiducioso che il dolore sarebbe svanito e che la mano, col tempo, sarebbe guarita da sola.
Invece la ferita si era infettata, finché Victarion aveva cominciato a chiedersi se la lama di Serry fosse stata avvelenata. Altrimenti perché il taglio non si decideva a guarire? Il pensiero lo fece infuriare. Un vero uomo non uccide col veleno. Al Moat Cailin i diavoli di palude scagliavano agli uomini frecce avvelenate, ma da creature così abiette c’era da aspettarselo. Serry era un cavaliere di nobile nascita. Il veleno era per i codardi, le donne e i dorniani.
«Se non Serry, chi?» chiese alla donna dalla pelle scura. «Non sarà stato quel topo di maestro? I maestri conoscono incantesimi e altri trucchi. Potrebbe averne usato uno per avvelenarmi, nella speranza che io gli permetta di mozzarmi la mano.» Più ci pensava, e più gli sembrava verosimile. «È stato Occhio di Corvo a farmi imbarcare quell’essere spregevole.» Euron aveva preso Kerwin a Scudo Verde, dove era al servizio di lord Chester, occupandosi dei suoi corvi e istruendo i suoi figli, o forse il contrario. E come aveva squittito, il topo, quando uno dei muti di Euron lo aveva portato a bordo della Vittoria di ferro, trascinandolo per la pratica catena che portava intorno al collo. «Se questa è la sua vendetta, il topo mi fa un torto. È stato Euron a insistere che lo prendessi, per impedirgli di combinare guai con i suoi corvi.» Suo fratello gli aveva anche dato tre gabbie di corvi, in modo che Kerwin potesse mandare notizie del viaggio, ma Victarion gli aveva proibito di liberarli. “Lasciamo che Occhio di Corvo si maceri nel dubbio e nell’incertezza.”
La donna dalla pelle scura gli stava fasciando la mano con delle bende pulite, girandole sei volte intorno al palmo, quando Acqualunga Pyke bussò alla porta della cabina per dire che il capitano della Cordoglio era salito a bordo con un prigioniero. «Dice che ci ha portato uno stregone, capitano. Dice che l’ha pescato in mare.»
“Uno stregone?” Possibile che il Dio Abissale gli avesse mandato un dono laggiù, dall’altro capo del mondo? Suo fratello Aeron avrebbe capito, ma lui aveva visto la maestosità delle magioni sommerse del Dio Abissale sotto il mare, prima di tornare in vita. Victarion aveva un reverenziale timore del suo dio, come ogni uomo dovrebbe avere, ma confidava nell’acciaio. Fletté la mano ferita, con una smorfia di dolore, poi si infilò il guanto e si alzò. «Andiamo a vedere questo stregone.»
Il capitano della Cordoglio aspettava sul ponte. Era un uomo di bassa statura, irsuto e brutto, Sparr per nascita. I suoi uomini lo chiamavano il Sorcio. «Lord capitano» disse quando vide Victarion «lui è Moqorro. Un regalo per noi, da parte del Dio Abissale.»
Lo stregone era una specie di mostro, alto quanto lo stesso Victarion e due volte più largo, con una pancia come un macigno e una selva di capelli bianchi come ossa che gli contornava la faccia, tipo la criniera di un leone. La sua pelle era nera. Non color noce come quella dei nativi delle Isole dell’Estate sulle loro navi cigno, neppure bruno rossastra come i dothraki signori del cavallo e nemmeno color antracite come la sua donna dalla pelle scura, ma proprio nera. Più nera del carbone, più nera del giaietto, più nera delle ali di un corvo. “Bruciato” pensò Victarion “come un uomo che è stato arrostito sulle fiamme finché la sua carne non è diventa croccante, staccandosi fumante dalle ossa.” I fuochi che lo avevano carbonizzato gli danzavano ancora sulle guance e sulla fronte: i suoi occhi scrutavano da una maschera di fiamme pietrificate. “Tatuaggi di schiavo” capì il capitano. “Marchi del male.”
«L’abbiamo trovato aggrappato a un pennone spezzato» spiegò il Sorcio. «È rimasto dieci giorni in acqua, dopo che la sua nave è colata a picco.»
«Se fosse stato dieci giorni a mollo, sarebbe morto o impazzito per aver bevuto acqua di mare.»
L’acqua salmastra era sacra. Aeron Capelli Bagnati e altri sacerdoti la usavano per benedire e ogni tanto ne mandavano giù qualche sorso per rafforzare la propria fede, ma nessun uomo mortale poteva bere per giorni dal mare profondo e restare in vita.
«Dici di essere uno stregone?» chiese Victarion al prigioniero.
«No, capitano» rispose il nero, nella lingua comune. La sua voce era talmente profonda che pareva giungere dal fondo del mare. «Sono solo un umile servo di R’hllor, il Signore della Luce.»
“R’hllor. Un prete rosso, allora.”
Victarion aveva visto uomini del genere in città straniere prendersi cura dei fuochi sacri. Quelli indossavano ricche vesti rosse di seta, velluto e lana d’agnello. Questo era ricoperto di stracci sbiaditi e macchiati di sale che si incollavano alle sue gambe grosse e gli pendevano a brandelli sul torso… ma quando il capitano li scrutò con maggiore attenzione, capì che forse un tempo erano stati rossi.
«Un sacerdote rosa» annunciò Victarion.
«Un sacerdote demone» disse Wulfe Un-orecchio. Sputò.
«Magari le sue vesti hanno preso fuoco e lui è saltato fuori bordo per spegnerle» suggerì Acqualunga Pyke, tra le risate generali. Anche le scimmie erano divertite. Vociavano in alto, e una lanciò una manata della sua propria merda a spiaccicarsi sulle assi.
Victarion Greyjoy diffidava delle risate. Quel suono lo lasciava sempre con la sgradevole impressione di poter essere il bersaglio di una battuta che non aveva capito. Euron Occhio di Corvo si burlava spesso di lui, quando erano ragazzi. Anche Aeron lo aveva fatto, prima di diventare Capelli Bagnati. Spesso le loro derisioni erano mascherate da elogi, e talvolta Victarion neppure si rendeva conto d’essere stato deriso. Finché non udiva le risate. Allora arrivava la collera, gli ribolliva in fondo alla gola e rischiava di soffocarlo con il suo sapore infame. Le scimmie gli facevano la stessa impressione. Le loro pagliacciate non strappavano mai neppure un sorriso al capitano, anche se il suo equipaggio rideva, schiamazzava e fischiava.
«Buttalo giù dal Dio Abissale, prima che ci tiri addosso qualche sventura» incitò Burton Humble.
«Una nave affonda e solo lui rimane aggrappato ai relitti» commentò Wulfe Un-orecchio. «Che fine ha fatto l’equipaggio? Quest’uomo ha forse evocato i demoni per farlo divorare? Che ne è stato della nave?»
«Una tempesta.» Moqorro incrociò le braccia. Non pareva spaventato, anche se intorno a lui c’era chi chiedeva la sua morte. Perfino le scimmie parevano non trovare simpatico quello stregone. Saltavano da una sartia all’altra, in alto, schiamazzando.
Victarion era incerto. “È emerso dal mare. Perché il Dio Abissale avrebbe dovuto portarlo a galla, se non per farcelo trovare?” Suo fratello Euron aveva i suoi stregoni prediletti. Forse il Dio Abissale voleva che anche lui ne avesse uno.
«Perché dici che è uno stregone?» chiese al Sorcio. «Io vedo solo un prete rosso cencioso.»
«Lo pensavo anch’io, capitano… ma sa diverse cose. Sapeva che siamo diretti alla Baia degli Schiavisti, prima che qualcuno glielo potesse dire, e sapeva che tu ti trovavi qui, al largo di questa isola.» Il Sorcio esitò. «Lord capitano, mi ha detto… mi ha detto che saresti sicuramente morto, se non lo portavamo da te.»
«Che sarei morto?» Victarion sbuffò. Era sul punto di dire: “Tagliategli la gola e buttatelo in mare”, quando una fitta gli risalì il braccio fin quasi al gomito, un dolore così intenso che le parole gli si mutarono in bile nella gola. Barcollò e si afferrò al bordo di murata per non cadere.
«Lo stregone ha maledetto il capitano» disse una voce.
Altri presero a gridare. «Tagliategli la gola! Uccidetelo prima che faccia scendere i suoi demoni su di noi!» Acqualunga Pyke fu il primo a estrarre il pugnale.
«No!» tuonò Victarion. «State indietro! Tutti quanti. Pyke, rinfodera l’acciaio. Sorcio, torna sulla tua nave. Humble, porta lo stregone nella mia cabina. Gli altri, tornate ai vostri posti!»
Per un breve istante dubitò che avrebbero ubbidito. Se ne stavano lì a borbottare, metà con un’arma in pugno, e si guardavano a vicenda incerti. Le cacche di scimmia piovevano intorno a loro. Nessuno si muoveva, finché Victarion afferrò lo stregone per un braccio e lo trascinò verso il boccaporto.
Quando il capitano aprì la porta della cabina, la donna dalla pelle scura si voltò verso di lui, silenziosa e sorridente… ma appena vide il prete rosso, arricciò le labbra, snudò i denti e ringhiò presa da una furia improvvisa, sibilando come un serpente.
Victarion le mollò un manrovescio che la gettò a terra. «Sta’ buona, donna. Vino per due.» Si rivolse all’uomo nero. «Il Sorcio ha detto il vero? Hai visto la mia morte?»
«Questo, e molto altro.»
«Dove? Quando? Morirò in battaglia?» Victarion aprì e chiuse la mano buona. «Se mi racconti delle menzogne, ti spacco la testa come un melone e lascio che le scimmie ti mangino il cervello.»
«La tua morte è già qui con noi, mio lord. Dammi la mano.»
«La mano. Che ne sai della mia mano?»
«Ti ho visto nei fuochi della notte, Victarion Greyjoy. Tu arrivi camminando tra le fiamme, arcigno e furente, con la tua grande ascia grondante sangue, cieco ai tentacoli che ti afferrano polso, collo e caviglia, quei neri fili che ti fanno danzare.»
«Danzare?» ripeté Victarion, rabbrividendo. «I tuoi fuochi della notte mentono. Io non danzo e non sono il burattino di nessuno.» Si tolse il guanto e mise la mano ferita davanti alla faccia del sacerdote. «Ecco. È questo che volevi?» Le bende nuove erano già lorde di sangue e pus. «L’uomo che mi ha fatto questo aveva una rosa sullo scudo. Mi sono graffiato con una spina.»
«Anche il più piccolo graffio può rivelarsi mortale, lord capitano, ma se me lo permetti, guarirò questa ferita. Avrò bisogno di una lama. Sarebbe meglio d’argento, ma andrà bene anche di ferro. Mi servirà anche un braciere. Devo accendere un fuoco. Farà male. Sarà un dolore terribile, come non hai mai provato. Ma quando avremo finito, la mano ti sarà restituita.»
“Sono tutti uguali, questi guaritori. Anche il topo mi aveva avvertito del dolore.” «Sono nato nelle Isole di Ferro, prete. Io rido del dolore. Avrai ciò che chiedi… ma se fallisci e la mia mano non guarisce, ti taglierò io stesso la gola e ti consegnerò al mare.»
Moqorro fece un inchino, una luce vivida guizzò nei suoi occhi scuri. «Così sia.»
Il capitano di ferro per quel giorno non si vide più, ma col passare delle ore l’equipaggio della Vittoria di ferro riferì di avere sentito una folle risata giungere dalla sua cabina, una risata forte, oscura e demenziale. E quando Acqualunga Pyke e Wulfe Un-orecchio provarono ad aprire la porta, la trovarono sbarrata. Più tardi si udì un canto, uno strano lamento in una lingua che il maestro disse essere alto valyriano. Fu allora che le scimmie abbandonarono la nave e si gettarono in acqua schiamazzando.
Arrivò il tramonto; mentre il mare diventava nero come l’inchiostro e il sole tumefatto tingeva il cielo di un cupo rosso sangue, Victarion Greyjoy tornò sul ponte. Era nudo dalla cintola in su, con il braccio sinistro insanguinato fino al gomito. Mentre l’equipaggio si ammassava, bisbigliando e scambiandosi occhiate, alzò la mano bruciata e annerita. Fili di fumo scuro si levarono dalle sue dita, quando il capitano indicò il maestro.
«Lui. Tagliategli la gola e gettatelo in mare, e i venti ci saranno favorevoli per tutto il viaggio fino a Meereen.»
Moqorro l’aveva già visto questo nei suoi fuochi. Aveva visto anche che la ragazza drago si era maritata, ma che importava? Non sarebbe certo stata la prima donna che Victarion Greyjoy avrebbe reso vedova.