L’ultima notte della sua prigionia, la regina non riuscì a dormire. Ogni volta che chiudeva gli occhi, la sua mente era assediata da timori ed elucubrazioni sull’indomani. “Avrò delle guardie” si diceva. “Terranno indietro la folla. Nessuno mi potrà toccare.” L’Alto Passero le aveva promesso almeno quello.
Eppure, aveva ugualmente paura. Il giorno in cui Myrcella era salpata alla volta di Dorne, quando c’era stata la rivolta del pane, i mantelli dorati erano stati disposti lungo tutto il percorso della processione, ma le orde avevano forzato gli sbarramenti, facendo a pezzi il vecchio, grasso Alto Septon e stuprando una cinquantina di volte Lollys Stokeworth. E se quella pallida creatura flaccida dalla mente incerta poteva eccitare gli animali pur essendo completamente vestita, che genere di lussuria avrebbe ispirato una regina?
Cersei camminava avanti e indietro nella sua cella, inquieta come i leoni in gabbia che vivevano nelle profondità di Castel Granito quando lei era bambina, un retaggio del tempo di suo nonno. Lei e Jaime solevano sfidarsi l’un l’altro a entrare nella loro gabbia, e una volta Cersei si fece abbastanza coraggio da infilare la mano tra le sbarre e toccare una di quelle grandi fiere dal pelo fulvo. Era sempre stata più temeraria di suo fratello. Il leone aveva voltato la testa, fissandola con i suoi enormi occhi dorati. Poi le aveva leccato le dita. La sua lingua era ruvida come una raspa, ma neppure allora lei aveva ritirato la mano finché Jaime non l’aveva presa per le spalle e allontanata dalla gabbia.
«Tocca a te» gli aveva poi detto Cersei. «Tiragli la criniera, ti sfido a farlo.» “Ma lui non l’ha mai fatto. La spada avrei dovuto portarla io, non lui.”
Camminava a piedi nudi, tremante, con una sottile coperta sulle spalle. Era in ansia per il giorno a venire. La sera sarebbe stato tutto finito. “Un breve tratto di strada e sarò a casa. Sarò di nuovo con Tommen, nelle mie stanze nel Fortino di Maegor.” Suo zio Kevan diceva che non aveva altro modo per salvarsi. Ma era vero? Non poteva fidarsi di suo zio, come non si fidava dell’Alto Septon. “Potrei ancora opporre un rifiuto. Potrei insistere sulla mia innocenza e affrontare i rischi di un processo.”
Ma non poteva permettere che a giudicarla fosse il Credo, come stava facendo Margaery Tyrell. Poteva andare bene per quella rosellina di Alto Giardino, ma Cersei aveva pochi amici tra le septa e i Reietti che attorniavano il nuovo Alto Septon. La sua unica speranza era un processo per duello, ma per questo doveva avere un campione.
“Se Jaime non avesse perduto la mano…”
Quella strada, però, non portava da nessuna parte: Jaime aveva perduto la mano della spada, e adesso si era perduto anche lui, svanito con Brienne chissà dove nelle Terre dei Fiumi. La regina doveva trovare un altro difensore, oppure l’ordalia di quel giorno sarebbe stata l’ultima delle sue fatiche. I nemici l’accusavano di tradimento. Doveva raggiungere Tommen, a ogni costo. “Tommen mi ama. Non rinnegherà sua madre. Joff era testardo e imprevedibile, ma Tommen è un bravo bambino, un bravo piccolo re. Farà quello che gli viene detto.” Se fosse rimasta lì, avrebbe finito per soccombere, e l’unico modo per tornare alla Fortezza Rossa era a piedi. L’Alto Passero era stato inflessibile, e ser Kevan non aveva alzato neanche un dito per contrastarlo.
«Oggi non mi accadrà niente di male» disse Cersei quando la prima luce del giorno sfiorò le sue finestre. «Sarà soltanto il mio orgoglio a soffrire.» Parole che però suonarono vuote alle sue orecchie. “Jaime potrebbe ancora arrivare.” Lo immaginò a cavallo nelle brume del mattino, con la sua armatura dorata scintillante ai primi raggi del sole. “Jaime, se mi hai mai amato…”
Quando le sue carceriere vennero a prenderla, le tre septa, Unella, Moelle e Scolera aprivano la processione. Con loro c’erano quattro novizie e due sorelle del silenzio. La vista delle sorelle del silenzio, con le loro tonache grigie, riempì la regina di un improvviso terrore. “Perché sono qui? Devo forse morire?” Le sorelle del silenzio si occupavano dei defunti.
«L’Alto Septon ha promesso che non mi verrà fatto alcun male.»
«E così sarà.» Septa Unella fece un cenno alle novizie. Le portarono del sapone caustico, un bacile pieno d’acqua calda, un paio di forbici e un lungo rasoio dritto. Alla vista di quella lama Cersei fu percorsa da un tremito. “Intendono rasarmi. Un’altra piccola umiliazione, l’ultimo acino d’uva sul mio porridge avvelenato.” Ma non avrebbe dato loro la soddisfazione di sentirla implorare. “Io sono Cersei della Casa Lannister, sono un leone di Castel Granito, la regina di diritto dei Sette Regni, figlia legittima di Tywin Lannister. E i capelli ricrescono.”
«Procedete» disse loro.
La più anziana delle due sorelle del silenzio impugnò le forbici. Barbiera esperta, senza dubbio: il suo ordine spesso ripuliva i cadaveri dei nobili caduti in battaglia prima di restituirli ai loro consanguinei, spuntare barbe e tagliare capelli rientrava in quelle mansioni. La donna mise innanzitutto a nudo il cranio della regina. Cersei rimase immobile come una statua mentre le forbici ticchettavano. Ciocche di capelli dorati fluttuavano sul pavimento. Reclusa in quella cella, Cersei non aveva potuto occuparsene come avrebbe voluto, ma perfino sporchi e arruffati, scintillavano dove venivano toccati dal sole. “La mia corona” pensò la regina. “Prima mi hanno preso l’altra corona, e adesso mi tolgono anche questa.” Quando tutti i suoi riccioli e boccoli furono ammucchiati ai suoi piedi, una delle novizie le insaponò la cute e la sorella del silenzio tolse con il rasoio gli ultimi peli rimasti.
Cersei sperava che questa fosse la fine del supplizio, invece no.
«Togliti la tunica, vostra grazia» ordinò septa Unella.
«Qui?» domandò la regina. «Per quale motivo?»
«Devi essere tosata.»
“Come una pecora” pensò. Cersei si sfilò la sottotunica dalla testa e la gettò per terra. «Fate quello che dovete.»
E si procedette di nuovo con il sapone, l’acqua calda e il rasoio. Poi fu la volta dei peli sotto le ascelle, sulle gambe. Da ultimo, la fine peluria dorata che copriva il suo monticello. Quando la sorella del silenzio si avvicinò tra le sue gambe con il rasoio in pugno, Cersei ripensò a tutte le volte che Jaime si era inginocchiato davanti a lei come stava facendo quella donna in grigio, disseminando di baci l’interno delle sue cosce, facendola bagnare. I baci di Jaime erano sempre caldi. L’acciaio del rasoio era freddo come il ghiaccio.
Una volta completate anche quelle operazioni, Cersei era nuda e vulnerabile come può esserlo una donna. “Nemmeno un pelo dietro al quale nascondersi.” Una piccola risata le uscì dalle labbra, tetra e amara.
«Vostra grazia trova tutto questo divertente?» chiese septa Scolera.
«No, septa.» “Ma un giorno ti farò strappare la lingua con delle tenaglie roventi, e allora sì che ci sarà da ridere.”
Una delle novizie le aveva portato una tunica, una morbida tunica bianca da septa affinché si coprisse mentre scendeva i gradini della torre e attraversava il tempio, per risparmiare ai fedeli la visione della carne esposta. “Sette Dèi, salvateci tutti: come sono ipocriti.”
«Mi sarà concesso di indossare dei sandali?» chiese Cersei. «Le strade sono sudice.»
«Mai sudice quanto i tuoi peccati» ribatté septa Moelle. «Sua alta sacralità ha dato ordine che tu ti mostri così come gli dèi ti hanno creato. Avevi forse i sandali ai piedi quando sei uscita dal grembo della lady tua madre?»
«No, septa» fu costretta a rispondere la regina.
«Pertanto, ecco la tua risposta.»
Una campana cominciò a suonare. La lunga incarcerazione della regina stava per concludersi. Cersei si strinse nella tunica, grata del suo calore, e disse: «Andiamo». Suo figlio l’attendeva dall’altra parte della città. Prima si fosse incamminata, prima lo avrebbe rivisto.
La pietra ruvida le raschiava le piante dei piedi, mentre Cersei Lannister scendeva gli scalini. Era arrivata al Grande Tempio di Baelor da regina, su un palanchino. Lasciava quello stesso tempio tosata e a piedi nudi. “Ma me ne sto andando. Questa è l’unica cosa che conta.”
Le campane della torre stavano suonando, chiamando l’intera città ad assistere alla sua umiliazione. Il Grande Tempio di Baelor era affollato di fedeli venuti per le preghiere dell’alba, le loro preghiere echeggiavano nella cupola sovrastante, ma quando comparve la processione della regina, calò un improvviso silenzio e mille occhi si voltarono a guardare mentre Cersei percorreva il corridoio centrale, superando il punto dove era stata esposta la salma del lord suo padre dopo il suo assassinio. Cersei camminava, senza guardare né a destra né a sinistra. I suoi piedi nudi schioccavano contro il freddo del marmo. Poteva percepire gli sguardi. Da dietro l’altare, anche i Sette Dèi la fissavano.
Nella Sala delle Lanterne, una dozzina di Figli del Guerriero stava aspettando il suo arrivo. Sulle loro spalle erano drappeggiati mantelli con i colori dell’arcobaleno, e i cristalli che ornavano i loro grandi elmi scintillavano nella luce delle lanterne. Le loro armature erano rivestite d’argento lucidato a specchio, ma sotto, come Cersei sapeva, indossavano una giubba imbottita. I loro scudi elaborati riportavano tutti il medesimo emblema: una spada di cristallo scintillante nelle tenebre, antico simbolo di coloro che la gente del popolo chiamava “le Spade”.
Il loro comandante s’inginocchiò davanti a lei. «Forse vostra grazia si ricorda di me. Sono ser Theodan il Sincero. Sua alta sacralità mi ha affidato il comando della tua scorta. I miei confratelli e io ti faremo attraversare la città senza pericolo.»
Lo sguardo di Cersei passò in rassegna gli uomini dietro di lui. Ed eccolo, Lancel Lannister, suo cugino, figlio di ser Kevan, che un tempo aveva spergiurato di amarla, prima di decidere di amare molto di più gli dèi. “Mio sangue e mio traditore.” Cersei non avrebbe dimenticato nemmeno lui.
«Puoi alzarti, ser Theodan. Io sono pronta.»
Il cavaliere si rimise in piedi, si voltò, sollevò una mano. Due dei suoi uomini si diressero verso i portali del tempio e li aprirono; Cersei varcò la soglia e uscì all’aperto, ammiccando alla luce del sole come una talpa strappata dalla sua tana.
Le raffiche di vento facevano schioccare l’orlo inferiore della tunica, spingendo la stoffa contro le sue gambe. L’aria del mattino era impregnata delle vecchie puzze familiari di Approdo del Re. Cersei inspirò gli odori di vino inacidito, pane appena sfornato, pesce marcio e pitali, fumo, sudore e piscio di cavallo. Nessun fiore aveva mai avuto un profumo così dolce. Avvolta nella sua tunica, Cersei si fermò in cima agli scalini di marmo, mentre i Figli del Guerriero si schieravano attorno a lei.
D’un tratto, le tornò in mente che era già stata esattamente in quel punto, il giorno in cui lord Eddard Stark aveva perso la testa. “Non avrebbe dovuto accadere: Joff avrebbe dovuto risparmiargli la vita ed esiliarlo alla Barriera.” Il figlio maggiore di Eddard gli sarebbe succeduto come lord di Grande Inverno, mentre Sansa sarebbe rimasta a corte come ostaggio. Varys e Ditocorto avevano preso gli accordi, e Ned Stark aveva ingoiato il suo prezioso onore e confessato il tradimento per salvare la testolina vuota di sua figlia. “Avrei dato a Sansa un buon matrimonio. Con un Lannister. Non Joff, ovviamente, ma Lancel sarebbe potuto andare bene, oppure uno dei suoi fratelli minori.” Petyr Baelish si era offerto di sposare lui la ragazza, ricordava, ma questo ovviamente era impossibile, Ditocorto era troppo di basso lignaggio. “Se Joff si fosse limitato a fare come gli era stato detto, Grande Inverno non sarebbe andata in guerra, e il lord mio padre si sarebbe poi occupato dei fratelli di Robert.”
Invece Joff aveva dato ordine di mozzare la testa a Stark, e lord Janos Slynt e ser Ilyn Payne si erano affrettati a ubbidire. “È accaduto proprio qui” pensò la regina, guardando quel posto. Janos Slynt aveva sollevato la testa mozzata di Ned Stark per i capelli, mentre il sangue fluiva lungo i gradini, e da quel momento non fu più possibile tornare indietro.
Quei ricordi ora sembravano così lontani. Joffrey era morto, tutti i figli di Stark erano morti. Anche suo padre, lord Tywin, era morto. Lei, invece, eccola lì, di nuovo in piedi sulla scalinata del Grande Tempio… solo che questa volta la folla stava fissando lei, invece di Eddard Stark.
La grande piazza lastricata di marmo davanti al tempio era gremita come il giorno della decapitazione di Eddard Stark. Ovunque la regina volgesse lo sguardo vedeva soltanto occhi. La folla sembrava essere composta in egual misura da uomini e da donne. Alcuni avevano i bambini sulle spalle. Mendicanti e ladri, tavernieri e mercanti, conciatori, guitti e stallieri, la più infima categoria di baldracche, tutta la feccia del mondo era accorsa a vedere una regina denigrata. E mescolati a loro, c’erano i Reietti: luride creature irsute armate di lance e asce, protetti da parti scompagnate di armature malconce, maglie di ferro arrugginite, cuoio fessurato, il tutto coperto da rozze sovratuniche ritinte di bianco e ornate dalla stella a sette punte del Credo. L’armata cenciosa dell’Alto Passero.
Una parte di Cersei continuava a sperare che Jaime apparisse per salvarla da quella umiliazione, ma suo fratello gemello non si vedeva. E nemmeno suo zio Kevan. La cosa non la sorprendeva. L’ultima volta che le aveva fatto visita, ser Kevan aveva espresso chiaramente la sua posizione: la vergogna di Cersei non avrebbe dovuto lordare l’onore di Castel Granito. Nessun leone sarebbe stato al suo fianco quel giorno. L’ordalia era sua, e soltanto sua.
Septa Unella era alla sua destra, septa Moelle alla sua sinistra, septa Scolera dietro di lei. Se la regina avesse tentato di fuggire, o avesse esitato, le tre megere l’avrebbero trascinata di nuovo nel tempio, e questa volta avrebbero fatto in modo che non lasciasse mai più la sua cella.
Cersei rialzò la testa. Oltre la piazza, al di là del mare di occhi famelici, bocche sdentate e facce luride, dall’altra parte della città, in lontananza si ergeva l’Alta Collina di Aegon, le torri e le fortificazioni della Fortezza Rossa parevano sfumate di rosa nella luce dell’alba. “Non è poi così lontano.” Una volta raggiunte le porte del castello, il peggio era passato. Cersei avrebbe avuto di nuovo suo figlio. Avrebbe avuto il suo campione. Suo zio glielo aveva promesso. “Tommen mi sta aspettando. Il mio piccolo re. Posso farcela, devo farcela.”
Septa Unella si fece avanti. «Una peccatrice si para davanti a voi» annunciò alla folla. «È Cersei dalla Casa Lannister, regina reggente, madre di sua grazia il re Tommen, vedova di sua grazia il re Robert, che si è macchiata di gravi menzogne e fornicazioni.»
Septa Moelle si spostò alla destra della regina. «Questa peccatrice ha confessato i propri peccati, implorando assoluzione e perdono. Sua alta sacralità le ha quindi comandato di dare dimostrazione del suo pentimento mettendo da parte tutto l’orgoglio e tutta la pompa, e presentandosi al cospetto della brava gente della città così come gli dèi l’hanno creata.»
Septa Scolera concluse. «Ecco che ora questa peccatrice viene a voi con cuore umile, senza segreti e sotterfugi, nuda davanti agli occhi degli dèi e degli uomini, pronta a percorrere il cammino del pentimento.»
Cersei aveva un anno quando era morto suo nonno. Il primo ordine che il lord suo padre aveva dato all’atto dell’insediamento era stato espellere da Castel Granito l’amante del defunto, una donna avida e di infimo lignaggio. Le sete e i velluti di cui lord Tytos l’aveva colmata e i gioielli di cui la donna si era impossessata le erano stati strappati di dosso, e fu costretta a percorrere le strade di Lannisport nuda, in modo che tutto l’Occidente potesse vederla per quello che era.
Anche se era troppo piccola per assistere a quello spettacolo, Cersei crescendo ne aveva sentito i racconti dalle bocche delle lavandaie e degli armigeri che ne erano stati testimoni. Raccontavano di come la donna avesse pianto e implorato, della disperazione con cui si era aggrappata ai suoi abiti quando le era stato ordinato di spogliarsi, dei suoi inutili sforzi di coprirsi i seni e il sesso con le mani mentre arrancava per le strade nuda e scalza verso l’esilio. «Prima era vanesia e impettita» ricordava di aver sentito dire da una delle guardie «talmente superba che pensavi avesse dimenticato che veniva dal fango. Ma una volta che le abbiamo tolto i vestiti di dosso, be’, era solo una puttana qualsiasi.»
Se ser Kevan e l’Alto Passero credevano che sarebbe successo lo stesso con lei, be’, si sbagliavano di grosso. In lei scorreva il sangue di lord Tywin. “Io sono una leonessa. E non intendo tremare davanti a loro.”
La regina si tolse la tunica.
Espose se stessa con un solo movimento fluido, senza fretta, come se si stesse spogliando per fare il bagno nei suoi appartamenti con solamente le servette presenti. Quando il vento freddo sfiorò la sua pelle, Cersei rabbrividì violentemente. Dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non cercare di coprirsi con le mani, come aveva fatto la puttana di suo nonno. Strinse la mano a pugno, le unghie affondarono nella carne. Tutti quegli occhi famelici la stavano guardando. Ma che cosa vedevano? “Io sono bella.” Quante volte Jaime glielo aveva ripetuto? Perfino Robert glielo diceva, quando si presentava nel loro talamo ubriaco fradicio, a renderle omaggio con il proprio uccello.
“Ma avranno guardato anche Ned Stark così?”
Doveva muoversi. Nuda, tosata, scalza. Cersei scese gli ampi gradini di marmo con lentezza. La pelle d’oca le risalì lungo le gambe e le braccia. Tenne alto il mento, come si addice a una regina, e la sua scorta si allargò a ventaglio attorno a lei. I Reietti spingevano indietro la gente, aprendo un varco tra la folla, mentre le Spade erano schierate ai lati della regina. Septa Unella, septa Scolera e septa Moelle la seguivano. Dietro di loro venivano le novizie in bianco.
«Puttana!» gridò qualcuno. Una voce di donna. Le donne erano sempre le più crudeli nei confronti delle altre donne.
Cersei la ignorò. “Ci saranno altri insulti, anche peggiori di questo. Queste creature non hanno gioia più grande nella vita che ringhiare contro chi è meglio di loro.” Cersei non poteva farli stare zitti, per cui doveva far finta di non sentire. Avrebbe tenuto lo sguardo fisso sull’Alta Collina di Aegon, dall’altro capo della città, sui torrioni della Fortezza Rossa illuminati dal sole. Era là che avrebbe trovato la salvezza, se suo zio Kevan aveva tenuto fede all’accordo.
“È stato lui a volere questo. Lui e l’Alto Passero. E anche la rosellina Tyrell, non ho dubbi al riguardo. Ho peccato e devo fare penitenza, devo esporre la mia vergogna davanti agli occhi di ogni mendicante della città. Loro pensano che questo spezzerà il mio orgoglio, che segnerà la mia fine, ma si sbagliano.”
Septa Unella e septa Moelle avanzavano al passo con lei, septa Scolera arrancava dietro di loro, suonando una campanella. «Vergogna» ragliava la vecchia megera. «Vergogna, peccatrice! Vergogna, vergogna!»
Ma da qualche parte a destra, un’altra voce le faceva da contrappunto, il grido del garzone di un fornaio. «Pasticcio di carne, tre soldi, pasticcio di carne caldo!»
Il marmo sotto i piedi era freddo e viscido, e Cersei doveva avanzare con cautela, per non scivolare. Il tragitto li portò oltre la statua di Baelor il Benedetto, alto e sereno sul suo plinto, il volto era uno studio di benevolenza. Osservando quei lineamenti di pietra, non avresti mai immaginato che stolto era stato in realtà. La dinastia Targaryen aveva generato buoni re e cattivi re, ma nessuno era benvoluto come Baelor, il pio e gentile re septon che amava in egual misura il popolino e gli dèi, anche se imprigionò entrambe le sue sorelle. Era un miracolo che la sua statua non si fosse sgretolata alla vista dei seni nudi della regina. Tyrion diceva sempre che re Baelor era terrorizzato dal suo stesso cazzo. Una volta, ricordò Cersei, Baelor aveva espulso tutte le baldracche da Approdo del Re. Le cronache narrano che pregava per loro mentre venivano spinte fuori dalle porte della città, ma non le volle vedere.
“Meretrice!” gridò una voce. Un’altra donna.
Qualcosa volò dalla folla. Della verdura marcia. Marrone e grondante, passò sopra la testa di Cersei finendo sui piedi di uno dei Reietti. “Io non ho paura. Io sono una leonessa.” Continuò ad avanzare. «Pasticcio di carne caldo» berciava il garzone di un fornaio. «Venite a mangiare il pasticcio di carne caldo.» Septa Scolera suonava la sua campanella, ripetendo: «Vergogna, vergogna. Vergogna, peccatrice! Vergogna, vergogna!». I Reietti aprivano la strada, spingendo indietro la gente, creando uno stretto passaggio con gli scudi. Cersei avanzava, con la testa rigida, gli occhi fissi in lontananza. Ogni passo la portava più vicina alla Fortezza Rossa. Ogni passo la portava più vicina a suo figlio e alla salvezza.
Sembrò volerci un secolo per attraversare la piazza, ma finalmente il marmo sotto i piedi di Cersei fu sostituito dall’acciottolato, le botteghe, gli stallatici e le case si strinsero attorno a loro mentre iniziavano la discesa della Collina di Vysenia.
Qui la processione rallentò. La strada era ripida e stretta, la folla fittamente ammassata. I Reietti respingevano quelli che bloccavano il passaggio, solo che non c’era abbastanza spazio, e quelli dietro rispondevano alle spinte con altre spinte. Cersei cercava di tenere alta la testa, ma finì per scivolare su qualcosa di viscido, che le fece perdere l’equilibrio. Sarebbe caduta, se septa Unella non l’avesse presa per un braccio, tenendola in piedi. «Sua grazia deve guardare dove mette i piedi.»
Cersei si divincolò. «Certo, septa» rispose con voce mite, ma dentro era così rabbiosa da sputarle in faccia.
La regina continuò a camminare, vestita solo di pelle d’oca e orgoglio. Cercò con lo sguardo la Fortezza Rossa, ma il grande castello adesso era celato, nascosto dagli alti edifici in legno che si susseguivano su entrambi i lati della strada. «Vergogna, vergogna» ragliava septa Scolera, scuotendo la campanella. Cersei cercò di accelerare il passo, ma ben presto si ritrovò a ridosso delle Spade che la precedevano e dovette rallentare di nuovo. Proprio davanti a lei, un uomo con un carretto vendeva degli spiedini di carne, e la processione si fermò mentre i Reietti lo facevano spostare. Le sembrarono fatti con carne di ratto, ma il loro aroma impregnava l’aria e, prima che il carretto si spostasse, metà della gente stava masticando con il bastoncino in mano. «Ne vuoi un pezzo anche tu, vostra grazia?» gridò un uomo. Era un tizio grande e grosso, con gli occhi porcini, il ventre prominente, la barba nera arruffata che le ricordò quella di Robert. Distolse lo sguardo con disgusto; l’uomo le lanciò lo spiedino, che le rimbalzò contro la gamba e rotolò per strada, ma la carne mezza cruda le lasciò striature di grasso e sangue sulla coscia.
Le urla lì risuonavano molto più forti che nella piazza, forse perché la gente era più vicina. “Puttana” e “peccatrice” erano gli appellativi più frequenti, ma spesso si sentiva anche “chiavatrice di tuo fratello”, “fica immonda” e “traditrice”, e ogni tanto Cersei udì qualcuno gridare anche il nome di Stannis e di Margaery. I ciottoli erano sudici, e c’era così poco spazio per muoversi che la regina non riuscì a evitare di camminare in una pozzanghera. “Nessuno è mai morto per i piedi bagnati.” Voleva credere che fosse solo acqua piovana, ma sapeva che doveva trattarsi di piscio di cavallo.
Altro pattume piovve dalle finestre e dai balconi: frutta mezza marcia, secchiate di birra, uova che spaccandosi sul selciato emanavano un odore di zolfo. Poi qualcuno lanciò un gatto morto contro i Reietti e i Figli del Guerriero. La carcassa batté così forte sul lastricato che si squarciò, lordando la parte inferiore delle gambe della regina con viscere e vermi della putrefazione.
Cersei proseguì. “Io sono cieca e sorda, quelli sono solo dei vermi.” «Vergogna, vergogna!» ripeteva la septa. «Castagne, castagne calde arrosto!» urlava un venditore. «Alla regina Succhiacazzi» proclamò con solennità un ubriaco da una balconata, sollevando la coppa in un brindisi di scherno. «Inchiniamoci tutti alle tette reali!» “Le parole sono vento. Le parole non possono farmi del male.”
A metà discesa della Collina di Vysenia la regina cadde per la prima volta scivolando su qualcosa che potevano essere feci notturne. Quando septa Unella la rimise in piedi, Cersei aveva un ginocchio escoriato e sanguinante. Una sonora risata percorse la folla; in parecchi si offrirono di baciare la ferita per farla guarire. Cersei guardò indietro. Poteva ancora vedere la possente cupola e le sette torri del Grande Tempio di Baelor sulla sommità dell’altura alle sue spalle. “Ho dunque fatto così poca strada?” Ma la cosa peggiore, cento volte peggiore, era avere perso di vista la Fortezza Rossa. “Dove… dove?…”
«Vostra grazia.» Il capitano della scorta si avvicinò. «Devi continuare.» Cersei non ricordava più il suo nome. «La folla sta diventando inquieta.»
“Già” pensò “inquieta.” «Io non ho paura.»
«Invece dovresti averne.» Il cavaliere la prese per un braccio, trascinandola per un tratto.
Cersei barcollò giù per la collina, giù, sempre più giù, socchiudendo gli occhi a ogni passo, lasciandosi sostenere da lui. “Dovrebbe esserci Jaime al mio fianco.” Lui avrebbe snudato la sua spada dorata e aperto un solco diritto in quella folla infame, strappando gli occhi dalla testa a tutti gli uomini che avessero osato guardarla.
Le pietre della pavimentazione erano rotte, sconnesse, scivolose e ruvide sotto i piedi delicati di Cersei. Qualcosa di appuntito le perforò il tallone: una pietra oppure un coccio. Cersei emise un grido di dolore. «Avevo chiesto dei sandali» sibilò a septa Unella. «Avreste potuto darmeli, o era chiedere troppo?» Il cavaliere la tirò per un braccio, come se fosse stata una serva qualsiasi. “Ha forse dimenticato chi sono?” Lei era la regina dell’Occidente, quell’uomo non aveva il diritto di metterle le mani addosso a quel modo.
Verso il fondo della collina, la discesa si fece meno ripida e la strada cominciò ad allargarsi. Cersei poté nuovamente vedere la Fortezza Rossa, che scintillava cremisi nel sole del mattino sulla cima dell’Alta Collina di Aegon. “Devo continuare a camminare.” Si liberò dalla presa di ser Theodan. «Non serve che mi trascini, ser.» Avanzò zoppicando, lasciando una fila di orme insanguinate sulle pietre alle sue spalle.
Camminò tra il fango e lo sterco, sanguinando, con la pelle d’oca, barcollando. Attorno a lei c’era una cacofonia di suoni. «Mia moglie ha delle tette più belle di quelle» gridò un uomo. Un trasportatore imprecò quando uno dei Reietti gli ordinò di spostare il suo carro. «Vergogna, vergogna. Vergogna, peccatrice!» salmodiavano le septa. «Guardate qui» gridò una puttana dal balcone di un bordello sollevando le gonne rivolta agli uomini in strada «questa non ha preso nemmeno la metà dei cazzi della sua.» Le campanelle suonavano, suonavano, suonavano. «Quella non può essere la regina» disse un ragazzo «è più flaccida di mia mamma.» “È la mia penitenza” si ripeté Cersei. “Ho gravemente peccato, e questa è la mia espiazione. Presto sarà tutto finito, sarà alle mie spalle, poi potrò dimenticare.”
La regina cominciò a vedere delle facce familiari. Un uomo calvo dai favoriti cespugliosi la guardava da una finestra, con la fronte aggrottata come suo padre, e per un istante assomigliò così tanto a lord Tywin che Cersei inciampò di nuovo. Una fanciulla sedeva sul bordo di una fontana, avvolta da una nuvola d’acqua nebulizzata, e la fissava con lo sguardo accusatorio di Melara Hetherstone. Vide Ned Stark, e al suo fianco la piccola Sansa con i capelli ramati e un cane grigio dal pelo arruffato che forse era il suo lupo. Ogni bambino che cercava di farsi largo tra la folla diventò suo fratello Tyrion, che sogghignava come la notte in cui era morto Joffrey. Ed ecco anche lui, suo figlio, il suo primogenito, il suo splendido ragazzo con i riccioli d’oro e il sorriso soave, aveva delle labbra così belle…
La regina cadde per la seconda volta. Quando la rimisero in piedi, tremava come una foglia. «Ti prego… Madre, abbi pietà. Ho confessato.»
«Certo» rispose septa Moelle. «Questa è la tua espiazione.»
«Non manca ancora molto» disse septa Unella. «Vedi?» indicò. «Ancora quella collina, e basta.»
“Ancora quella collina, e basta.” Era vero. Erano ai piedi dell’Alta Collina di Aegon, il castello incombeva sopra di loro.
«Puttana!» urlò qualcuno.
«Ti scopi tuo fratello» aggiunse qualcun altro. «Abominio!»
«Vuoi succhiare anche questo, vostra grazia?» Un uomo con un grembiule da macellaio tirò fuori il cazzo dalle brache, sogghignando.
Non aveva importanza. Lei era a casa. Era quasi a casa.
Cersei cominciò a salire.
Se possibile, gli scherni e le grida diventarono ancora più crudeli. Il cammino dell’espiazione non era passato per il Fondo delle Pulci, così i suoi abitanti si erano accalcati alla base dell’Alta Collina di Aegon per godersi lo spettacolo. Le facce che le sogghignavano da dietro gli scudi e le picche dei Reietti le sembravano distorte, mostruose, orribili. Porci e bambini nudi erano sempre in mezzo ai piedi, mendicanti storpi e tagliaborse brulicavano nella calca come scarafaggi. Cersei vide uomini i cui denti erano stati limati a punta, megere con gozzi grandi quanto la loro testa, una baldracca con un enorme serpente striato avvolto attorno ai seni e alle spalle, un uomo con le guance e la fronte coperte di piaghe da cui grondava del pus grigiastro. Tutti sogghignavano, si inumidivano le labbra e le ululavano dietro mentre passava zoppicando, con i seni che si sollevavano per l’affanno della salita. Alcuni gridavano proposte oscene, altri insulti. “Le parole sono vento. Le parole non possono farmi del male. Io sono bella, la donna più bella di tutto il continente occidentale, Jaime me lo dice sempre, e Jaime non oserebbe mai mentirmi. Perfino Robert, che non mi ha mai amato, vedeva che ero bella, e mi desiderava.”
Cersei, però, non si sentiva affatto bella. Si sentiva vecchia, logora, sudicia e imbruttita. Sul ventre aveva delle smagliature per via dei figli che aveva partorito e i suoi seni non erano più sodi come quando era giovane. Senza un corpetto a sostenerli, si afflosciavano. “Non avrei mai dovuto accettare. Io ero la loro regina, ma adesso hanno visto, hanno visto, hanno visto. Non avrei mai dovuto permettere che mi vedessero.” Vestita e incoronata, Cersei era una regina. Nuda, insanguinata e zoppicante era soltanto una donna, non molto diversa dalle loro mogli, molto più simile alle loro madri che alle loro graziose figliole. “Che cosa ho fatto?”
Aveva qualcosa negli occhi che bruciava e le offuscava la vista. Ma non poteva piangere, non doveva piangere, quei vermi non l’avrebbero vista piangere. Cersei si fregò gli occhi con il palmo della mano. Un soffio di vento freddo la fece tremare con violenza.
E all’improvviso la megera era là, in mezzo alla folla, con le sue tette cascanti e la pelle verdognola piena di verruche, sogghignante come gli altri, con la malvagità che scintillava nei suoi cisposi occhi giallastri. «Regina tu sarai» le sibilò la megera «fino a quando un’altra, più giovane e più bella, non arriverà ad abbatterti e a portarti via tutto ciò che ti è caro.»
E a quel punto fu impossibile fermare le lacrime. Scendevano lungo le guance della regina, brucianti come acido. Cersei lanciò uno strillo stridulo, si coprì i capezzoli con un braccio, portò l’altra mano davanti al sesso e iniziò a correre, aprendosi un varco tra i Reietti, piegata in avanti mentre risaliva la collina come un granchio deforme. A metà della salita inciampò e cadde, si rialzò, cadde di nuovo dieci passi più avanti. E poi si ritrovò a strisciare, arrancando su per la collina a quattro zampe come un cane, con la gente di Approdo del Re che le faceva ala, ridendo, incitandola e applaudendo.
Tutto d’un colpo, la folla si aprì e parve come dissolversi, e davanti a lei c’erano i portali di un castello e una fila di lancieri con i mezzi elmi smaltati e i mantelli cremisi. Cersei udì la voce dura e familiare di suo zio Kevan ringhiare degli ordini, e intravide dei lampi bianchi ai suoi fianchi quando ser Boros Blount e ser Meryn Trant le vennero incontro con le loro armature bianche e le cappe candide come la neve.
«Mio figlio!» Cersei urlava. «Dov’è mio figlio? Dov’è Tommen?»
«Non qui. Nessun figlio dovrebbe assistere all’umiliazione di sua madre.» La voce di ser Kevan era aspra. «Copritela.»
Poi Jocelyn si chinò su di lei, avvolgendola in una morbida coperta di lana verde, per celare la sua nudità. Un’ombra scivolò su di loro, oscurando la luce del sole. La regina sentì il gelido acciaio sotto il suo corpo, e un paio di grandi braccia protette dall’armatura la sollevarono da terra, librandola nell’aria con la medesima facilità con cui lei alzava Joffrey quando ancora era un infante. “Un gigante…” pensò Cersei, confusa, mentre veniva trasportata a grandi passi verso il corpo di guardia. Aveva sentito dire che i giganti esistevano ancora nelle terre senza dio a nord della Barriera. “Ma quella è solo una leggenda. Sto forse sognando?”
Non stava sognando. Il suo salvatore era reale. Alto otto piedi, o forse più, con le gambe grosse come un tronco d’albero, un torace largo come quello di un cavallo da tiro e delle spalle che avrebbero fatto impallidire un toro. Sopra una maglia di ferro smaltata, indossava un’armatura a piastre d’acciaio, anch’essa smaltata di bianco e splendente come le speranze di una vergine. La celata dell’elmo nascondeva il suo volto. Sulla cresta ondeggiavano sette piume di seta nei colori dell’arcobaleno del Credo. Il suo mantello era fissato all’altezza delle spalle da una coppia di fermagli dorati a forma di stella a sette punte.
“Un mantello bianco.”
Ser Kevan aveva rispettato l’accordo. Tommen, il suo delicato piccolo Tommen, aveva nominato il campione di Cersei della Guardia reale.
La regina non vide da quale parte arrivò Qyburn, ma d’un tratto era lì accanto a loro, facendo del suo meglio per tenere dietro alla poderosa falcata del campione.
«Vostra grazia» disse «lieto di averti di nuovo tra noi. Posso avere l’onore di presentarti il membro più recente della Guardia reale? Ser Robert Strong.»
«Ser Robert» sussurrò Cersei mentre superavano il portale della fortezza.
«Se compiace vostra grazia, ser Robert ha fatto il giuramento del silenzio» continuò Qyburn. «Ha giurato di non proferire parola fino a quando tutti i nemici di sua grazia non saranno morti, e fino a quando il male non sarà stato sradicato dal reame.»
“Sì” pensò Cersei Lannister. “Oh, sì!”