Non c’è bisogno di leggere Jacques Derrida per rendersi conto che il rapporto tra un autore e il suo testo è complicato, e comporta sempre uno scarto. Quel che è certo è che il compito di riesaminare ciò che avevo scritto per questa edizione rivista della mia biografia di Mussolini si è rivelato al tempo stesso piacevole e fastidioso. Alcune cose sono semplici e ovvie, sicché ho corretto qualche errore. In uno degli ultimi momenti di ottimistica malevolenza prima della morte, Mussolini assaporò l’idea di lasciar fluttuare pericolosamente nell’Italia postbellica ciò che definiva «mine sociali». Se ci sia riuscito o meno è oggetto dell’ultimo capitolo della mia biografia. Ma sicuramente la minaccia equivalente nella scrittura di uno storico sono le inesattezze, difficili, se non impossibili, da eliminare del tutto eppure sempre da correggere con prontezza e una smorfia di vergogna quando l’autore ne venga messo al corrente.

In modo analogo ho aggiornato il testo quando il tempo intercorso ha portato alla luce nuove testimonianze sufficientemente significative da imporre che siano citate. Un esempio nel caso di Mussolini sono le ricerche condotte sul matrimonio bigamo con Ida Dalser e sul modo in cui il fratello Arnaldo trattò la Dalser e suo figlio, Benito Albino, crudelmente rinchiusi in manicomio fino alla loro morte. A tale proposito, e più in generale, ho rivisto la bibliografia per aggiungere importanti nuovi materiali su questo e altri aspetti della vita del Duce.

Infine, e soprattutto nell’ultimo capitolo, ho proseguito la storia del mito e della reputazione di Mussolini fino al 2010. Il risultato è curioso e salutare. Prima di avventurarsi a riassumerlo qui, un autore dovrebbe riconoscere che qualunque saggio storico, come ogni altro testo, rifletterà echi dell’epoca in cui è stato scritto. L’ambizione dello storico di professione di essere assolutamente empirico e limitarsi a riferire ciò che è accaduto nella realtà è immancabilmente destinata ad andare delusa. Il mio Mussolini è stato scritto nel 2000-2001 e reca l’evidente impronta della vittoria del neoconservatorismo negli Stati Uniti (seguita a ciò che era già accaduto nella mia patria australiana) e della formazione del secondo governo Berlusconi in Italia. Stavano iniziando processi che avrebbero portato, nel marzo 2003, all’invasione dell’Iraq da parte di un’alleanza di neoconservatori e imperialisti liberali, rappresentati al meglio dal primo ministro britannico Tony Blair.

La retorica di quella campagna faceva uso di paralleli storici risalenti al periodo tra le due guerre mondiali. Come aveva ammonito nel 1995 lo studioso (conservatore) americano Stanley Paine, Saddam Hussein «era arrivato più vicino di ogni altro dittatore» a ottenere una pericolosa «riproduzione del Terzo Reich». Payne concordava con il ritratto del dittatore iracheno dipinto nel 1990 da George H.W. Bush, il quale l’aveva definito «l’Hitler del nostro tempo».1 Ma io non ero soddisfatto di questa facile equazione, e neppure della posizione più generale, resa celebre da Samuel Huntington, la quale esigeva che l’«Occidente», vincitore della guerra fredda, riprendesse la battaglia globale contro un male che ben presto sarebbe stato chiamato «fondamentalismo».2 Già in un altro lavoro mi ero mostrato attento ai frequenti tentativi fatti dai politici di usare «la lunga seconda guerra mondiale» per scopi immediati e semplicistici.3 Più studiavo Mussolini, più si faceva strada in me la certezza che, per quanto feroce e distruttiva fosse stata la sua dittatura, egli non era una mera replica italiana del Führer. Hitler, l’antisemita e anticomunista fanatico (o «scientifico», come si riteneva lui), può benissimo essere stato un fondamentalista. Ma Mussolini non lo era.

Nel tentativo di spiegare questo punto di vista, optando per un’«interpretazione» del Duce (come ha sottolineato tempo fa E.H. Carr, sono le interpretazioni e non i fatti ciò che importa «davvero» nel lavoro storico), il mio era un compito delicato. Ormai da un decennio, dalla caduta del Muro di Berlino e dal conseguente collasso dell’assetto politico e culturale postbellico della Repubblica italiana, c’erano segnali allarmanti di un’ostinata persistenza o di una rinnovata ammirazione per il dittatore. Di lì a poco un giornalista inglese, Nicholas Farrell, avrebbe scritto un resoconto rivale del mio, il cui titolo in inglese suonava quantomeno malizioso (Mussolini: A New Life, “Mussolini, una nuova vita”) e nel quale esprimeva una certa speranza nella resurrezione del Duce.4 Ed è stato in una conversazione con Farrell che Berlusconi asserì che Mussolini non aveva mai ucciso nessuno.5 A ogni anno che passava, i revisionisti si facevano più arditi nell’affermare che, tutto considerato e soprattutto in confronto a ciò che sarebbe potuto accadere se il comunismo avesse preso il potere in Italia, la dittatura era stata un momento felice nella storia italiana.6

L’ultima cosa che volevo era unirmi al coro di quei revisionisti. In fin dei conti credo che, tra gli schemi della scienza politica per comprendere il periodo tra le guerre mondiali, il modello che richiama importanti parallelismi tra fascismo e nazismo mantenga buona parte del suo potere esplicativo. Inoltre, come sottolineato nel primo capitolo, l’aspetto imprescindibile della dittatura di Mussolini è il fatto che essa provocò la morte prematura di almeno un milione di persone. Chiaramente deve esserle assegnato un posto di rilievo nella lista nera del XX secolo. Eppure la «dittatura italiana», come avevo deliberatamente definito il regime in un libro precedente,7 non fu il prodotto di un unico uomo malvagio. Al contrario, scaturì in larga parte dalle forze e dalle debolezze della storia nazionale italiana a partire dal Risorgimento. Come faccio notare in questa biografia, grandi strutture politiche, culturali, economiche e sociali garantirono che il Duce «andasse incontro agli italiani» (di potere e influenti). La situazione di Mussolini non fu quella che Ian Kershaw ha messo in rilievo parlando di Hitler, nella quale il Führer poté contare sul fatto che i tedeschi «gli andassero incontro».

Nell’esplorare la personalità di Mussolini, il suo potere, gli effetti e i limiti di quest’ultimo, mi sono convinto che il Duce non fu soltanto il primo dittatore moderno ma anche, molto più di Hitler, il personaggio con cui misurare i moltissimi tiranni che dominarono tanti paesi europei tra le due guerre e, nel mondo in via di sviluppo, anche in seguito. In un parallelismo più complesso, Mussolini aveva qualcosa in comune pure con Stalin e i suoi epigoni successivi nell’Europa dell’Est, i quali, con un evidente ossimoro, governarono come leader comunisti. Lasciando da parte tale questione, troppo complessa per essere esaminata brevemente qui, vorrei invece sottolineare alcune delle differenze più evidenti tra Mussolini e Hitler. Il Führer tedesco era davvero un uomo solo, nonostante il matrimonio dell’ultimo momento con la sua amante, Eva Braun. Hitler era una persona cui mancò una vita privata «normale» nel senso che siamo soliti dare a questa espressione. Benché continui a preoccuparmi del fatto che la conclusione, sostenuta da Kershaw, secondo cui Hitler era «pazzo» rappresenti una pericolosa concessione alla costruzione dell’alterità e sia quindi tristemente disfattista sul piano intellettuale, è chiaro che il dittatore italiano, nonostante tutta la sua «cattiveria», rimane una figura umana familiare, un uomo che non può essere tacciato di follia. Questo Duce era un italiano il quale aspirava a farsi un nome tirandosi fuori dalla provincia e da origini di classe relativamente umili. Era accompagnato da una moglie formidabile e da cinque figli legittimi piuttosto irritanti. Mussolini era un patriarca che dovette fare i conti con un’ultima amante ancora più seccante, la quale registrava ossessivamente ogni «tradimento» e si aspettava dodici o più telefonate al giorno.8 In tutta la sua vita privata e in parte di quella pubblica questo dittatore replicò molte abitudini dei suoi colleghi e dovette far fronte a tanti dei loro problemi quotidiani. Laddove Hitler credeva fondamentalmente e in senso letterale alla scienza razzista, Mussolini potrebbe spesso sembrare integralista e di sicuro prese regolarmente posizione a favore dell’omicidio. Eppure, al tempo stesso, rimase capace di scetticismo, cinismo, analisi intellettuale, dubbi, contraddizioni, confusione, astiosa perplessità, tutti atteggiamenti che la «scienza» dei «terribili semplificatori» condanna e respinge. Qualunque cosa sia stato, Mussolini non era un «altro», irriducibilmente diverso dai politici e dirigenti suoi contemporanei o persino dei giorni nostri.

Il tema della razza è l’indizio più eloquente per distinguere il Führer dal Duce, sebbene la sua disamina debba essere intrapresa con la massima cautela. Come ha coraggiosamente sostenuto Peter Novick, negli ultimi decenni l’Olocausto si è ampliato fino a diventare la pietra di paragone etica di molti atteggiamenti politici.9 Ormai è la cartina di tornasole imprescindibile per giudicare la seconda guerra mondiale e, senza dubbio, l’esperienza europea dell’epoca postbellica.10 La profonda iscrizione nella memoria moderna dello spaventoso assassinio scientifico condotto su scala industriale degli ebrei è formalizzata nell’adozione del 27 gennaio, piuttosto ironicamente l’anniversario in cui l’Armata Rossa «liberò» Auschwitz nel 1945, come «giornata della memoria» in numerosi paesi, tra cui, a partire dal 2001, anche l’Italia. Come viene chiarito in questa biografia, l’Italia fascista si unì alla persecuzione degli ebrei e nel 1938 Mussolini in persona diede il via al processo legislativo mirante a cancellarli dal paese. Contrariamente a certe leggende, nella società italiana si annidava una buona dose di antisemitismo, che fosse nella Chiesa cattolica, tra i fascisti che ammiravano la Germania o ancora più diffuso, e né il dittatore né i suoi seguaci furono senza colpe nella sofferenza inflitta agli ebrei italiani, soprattutto durante la Repubblica di Salò, il regime debole e violento instaurato dopo il settembre 1943. Se fosse possibile immaginare una storia virtuale in cui i nazisti abbiano vinto la seconda guerra mondiale, allora l’alleato italiano si sarebbe necessariamente unito agli ulteriori tentativi di cancellare gli ebrei dalla faccia della Terra. Il fascismo non dovrebbe davvero essere assolto dall’orrore di Auschwitz.

Tuttavia non si può concludere che gli italiani o Mussolini siano stati «volenterosi carnefici» nel senso in cui lo furono i cittadini della Germania nazista. L’antisemitismo fascista fu di rado fondamentalista. Inoltre, non aveva messo salde radici il collegamento decisivo tra giudei e bolscevismo. Anche se Mussolini era salito al potere con lo scopo iniziale di distruggere il marxismo italiano, dopo il 1922 il suo regime adottò generalmente una linea politica realistica nei rapporti con l’URSS. Alla fine, si unì alla sua guida nazista nell’operazione Barbarossa, ma con scarsissimo entusiasmo. Non ci volle molto prima che Mussolini dimostrasse di non comprendere l’alleato quando in una serie di occasioni spronò Hitler a concludere una pace di compromesso a est allo scopo di affrontare il «vero» nemico, cioè le forze angloamericane a ovest. Riflettendo questa distinzione degli obiettivi razziali e ideologici all’interno dell’Asse, gli eccidi peggiori della dittatura italiana non avvennero sul suolo del paese contro gli ebrei quanto piuttosto in Libia, Etiopia e nei Balcani. Lì il massacro era diretto contro gli arabi, i neri e gli «slavi». Uno degli aspetti più problematici della politica e della cultura italiane contemporanee è il modo in cui i postfascisti sono disposti ad accettare la responsabilità per il ruolo giocato dall’Italia nell’Olocausto, rifiutando però qualunque seria valutazione critica del resto degli omicidi e della tirannia fascisti. Le ricerche degli studiosi sull’antisemitismo italiano diventano sempre più dettagliate. Per contro, manca una seria disamina delle radici della feroce versione italiana dell’orientalismo, dell’ossessione razziale bianco/nero o del pregiudizio antislavo. Non conosco nessuno che abbia riflettuto sulla triste ironia e le pericolose implicazioni legate al fatto che il più nobile uomo moderno, Primo Levi, abbia accettato il termine muselmann (musulmano) per definire gli ebrei di Auschwitz che andarono incontro alla morte senza protestare.11

Lo studio delle uccisioni perpetrate dai fascisti deve sottolineare un altro aspetto strutturale. Nella sua aggressione all’URSS e nel genocidio degli ebrei che l’accompagnò, la dittatura di Hitler era guidata sia dal proprio leader sia da una miscela di razzismo e nazionalismo decisi a riportare sotto l’ombrello del Reich i tedeschi sparsi fino al Volga. La volontà razzista dei nazisti di eliminare tutto il «sangue» straniero da quella regione come pure all’interno dei confini della Germania non contraddiceva l’idea di nazione. Ma la maggior parte dell’imperialismo di Mussolini fu di una pasta diversa, in parte «moderno» e fascista, in parte tradizionale e italiano, e improbabilmente collegato agli imperi informali degli italiani emigrati a New York e Buenos Aires. Bombardando i civili, usando armi chimiche e blaterando senza frutto di genocidio (quest’ultimo sempre lontanissimo dall’efficienza della pianificazione nazista), Mussolini e il suo regime commisero assassini in parte come «primi alleati» della Germania di Hitler e in parte come una nazione europea che, attraverso un imperialismo tardivo in Africa, sperava di mettersi al passo con Gran Bretagna, Francia, Belgio, Portogallo e così via. In quanto uomo bianco disposto ad accettare l’uccisione delle «razze inferiori», Mussolini era erede sia di Hitler sia di Cecil Rhodes, di re Leopoldo del Belgio e di Jean-Baptiste Marchand.

Allora, come è stato accolto il mio suggerimento secondo cui Mussolini dovrebbe essere inserito nel contesto della storia italiana ed europea? In modo gentile, è la risposta, anche se Mattia Feltri sul quotidiano neoconservatore «Libero» ha mostrato i limiti del significato di libertà in tali circoli ammonendo che un libro, scritto da qualcuno che l’autore ha bollato come «comunista australiano», disgraziatamente presentava delle critiche a Silvio Berlusconi – proprietario della Mondadori, la casa editrice della traduzione italiana del mio testo – come pure un’ingiustificata condanna di Mussolini.12 Oggi Feltri trae forse conforto dal trattatello del suo collega neocon americano, Jonah Goldberg, intitolato Liberal Fascism. Evidentemente Goldberg è convinto che l’ideologia di Mussolini abbia avuto la sua espressione più eloquente in una discendenza che andava da Woodrow Wilson a Franklin Delano Roosevelt a John Fitzgerald Kennedy a Hillary Clinton (Goldberg, che scriveva nel 2007, sembra aver sbagliato la sua puntata sul candidato che avrebbe vinto la nomination a presidente del Partito democratico).13

Se la stupidità del neoconservatorismo va ignorata come tale per rivolgere l’attenzione al mondo degli studiosi seri, allora devo ammettere che la mia versione di Mussolini e della sua epoca rimane controversa. Per alcuni dei miei colleghi sono troppo relativista nell’approccio al Duce. Nella loro ottica, minimizzo la sua determinazione guerrafondaia e devastatrice;14 sottovaluto la sincerità e/o profondità delle sue idee;15 fraintendo la forza propulsiva della sua volontà e dei suoi risultati nel portare una rivoluzione culturale o «antropologica» nella mente e nell’animo degli italiani.16

Mentre la democrazia sopravvive, la storia è, e deve essere, un dibattito. Sicuramente la discussione deve proseguire quando il passato continua a riecheggiare nel presente, come accade per la storia della vita e delle idee di Mussolini, sia in Italia sia, in modi disparati, nel mondo più in generale. In tali circostanze, difficilmente posso sperare che qualunque edizione della mia biografia sarà l’ultima parola decisiva capace di convertire tutti alla mia visione delle cose. Ma una questione andrebbe sottolineata. In qualche punto di questo dibattito sul passato fascista si intromette una differenza relativa al presente e in particolare una differenza di vedute su ciò che potrebbe costituire il fondamentalismo, come anche riguardo alla soluzione di continuità della «nostra» virtù. Forse il miglior esempio a questo proposito può essere tratto dall’opera estremamente dettagliata di David Roberts, The Totalitarian Experiment in Twentieth-Century Europe: Understanding the Poverty of Great Politics (2006). Nel suo saggio Roberts sostiene che la Germania di Hitler, l’URSS di Stalin e l’Italia di Mussolini devono essere accomunate in quanto regimi che tentarono di «fare storia» a un livello viscerale. In altre parole, erano determinati a trasformare i popoli che governavano in uomini e donne nuovi; desideravano profondamente essere gli ingegneri dell’animo umano. Il prezzo della loro arroganza, sostiene Roberts, fu l’orrore dell’Olocausto, dei gulag e della guerra, ed essi si diedero a queste azioni orribili con la più grande determinazione per via del nervosismo che accompagnava ogni loro ulteriore passo in acque inesplorate.17

Trovo l’argomentazione interessante, quantunque esagerata, forse la tipica reazione di uno storico sociopolitico concentrato sull’infinita varietà dell’esperienza umana e diffidente riguardo alle ambizioni nomotetiche dei costruttori di modelli. Eppure c’è un altro tema che mi pare cruciale. Quando Roberts stava pubblicando il suo libro, l’amministrazione di George W. Bush non faceva mistero di voler cambiare la storia del Medio Oriente. La speranza era di poter raggiungere un simile obiettivo con qualche bomba antibunker ben piazzata e l’eliminazione fisica del malvagio dittatore (o «cattivo soggetto», nell’ineffabile prosa di Bush), Saddam Hussein. Danni collaterali non potevano essere esclusi, fu ammesso, e si scoprì che erano di enorme portata, ma rimanevano comunque una presunta inezia di fronte all’importanza dell’ambizione di trasformare i cittadini di Iraq, Iran e del resto della regione in uomini e donne nuovi. Eppure, Roberts non sembrava per nulla intenzionato ad aggiungere i suoi compatrioti alla lista degli illusi forgiatori della storia.

Nello svelare la tracotanza contemporanea non sto cercando di sostenere la tesi assurda che Bush, Cheney e i loro amici e alleati siano fascisti convertiti. Quello che sto dicendo è che il dibattito internazionale su quanto serio e profondo possa essere stato il fondamentalismo di Mussolini ha un rapporto con la nostra epoca. La mia immagine del Duce come tiranno «ordinario» vuol mettere in guardia contro l’opinione troppo superficiale secondo cui i nostri avversari odierni sono «altri», «folli», irrevocabilmente votati alla guerra e al genocidio, ciascuno un novello Hitler, impossibile da ammansire, leader con cui non c’è modo di parlare. Di nuovo, il fatto che Mussolini sia stato un dittatore che represse molte libertà politiche e sociali, e più che disposto a indulgere in guerre di aggressione, ebbe un costo pesante sia per gli italiani sia per numerosi altri popoli. Nella sua crudeltà e nel suo egoismo, e nonostante l’evidente difficoltà a portare alle estreme conseguenze la tesi per cui un leader per essere tale deve sempre vincere o soccombere, Mussolini non merita la nostalgia che troppi italiani nutrono per lui nell’Italia berlusconiana. Tuttavia, nella sua miscela di caratteristiche, nei fallimenti come nei successi, nelle evidenti inadeguatezze, nella rabbia, la stoltezza, la vanità intellettuale, il sessismo, i pregiudizi razziali, la fiducia nell’autorità, il provincialismo, Mussolini rivelò peccati che non erano, e non sono, soltanto suoi. Il suo regime si vantava di star sviluppando con il fascismo l’«ideologia del XX secolo». Quello che invece stava succedendo era che Mussolini si avviava a diventare un modello per molti dittatori del XX secolo. Mentre cerchiamo di opporci a costoro e di tenere a bada la tentazione di prendere decisioni di governo dogmatiche o di ammirare quelli che lo fanno, vale ancora la pena studiare e riflettere sulla vita di Mussolini.

(2010)