Molti libri sull’era fascista hanno titoli splendidi, ma il migliore è Quando il nonno fece fucilare papà, un memoriale peraltro trascurabile di Fabrizio Ciano.1 L’evento che egli descrive si verificò alle 9.20 di mattina dell’11 gennaio 1944. L’esecuzione ebbe luogo appena fuori Verona, la città dell’Italia settentrionale che da molti secoli controllava l’accesso al passo del Brennero, situata al crocevia tra il mondo germanico e quello latino. Cinque alti dirigenti fascisti, giudicati colpevoli di aver tradito il Duce Benito Mussolini, massima autorità dell’Italia fascista, vennero fucilati da un plotone d’esecuzione composto da giovani militari italiani, alla presenza di tre osservatori delle SS tedesche.2 Tra i condannati, il più importante era Galeazzo Ciano, conte di Cortellazzo,3 genero del Duce. Mentre una cinepresa filmava l’evento a beneficio di un pubblico compiaciuto, Ciano si voltò per mostrare il viso agli esecutori, più dignitoso in quest’ultimo gesto di quanto lo fosse stato nella maggior parte delle azioni della sua vita. Sei mesi prima, tra il 24 e il 25 luglio 1943, mentre le forze anglo-americane sbaragliavano le demoralizzate difese fasciste di stanza in Sicilia e cominciavano a puntare verso l’Italia continentale, Ciano e altri diciotto membri del Gran Consiglio del fascismo avevano votato contro la permanenza di Mussolini al comando supremo delle operazioni belliche italiane. Era quello il «tradimento» di cui ora Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi pagavano il prezzo. Fu detto che il loro sangue avrebbe rappresentato il sacro simbolo dell’atto costitutivo della nuova Repubblica sociale italiana (RSI), fondata nel settembre 1943 per dare una forma di governo fascista all’Italia settentrionale. La questione, aveva ammesso il Duce in un momento di sincerità, era «politica» non «giudiziaria».4

Galeazzo aveva sposato Edda, la figlia maggiore del Duce, il 24 aprile 1930 con una fastosa cerimonia. Era figlio di Costanzo Ciano, a quel tempo ministro fascista delle Comunicazioni, ufficiale di marina, eroe di guerra, nazionalista, gerarca di Livorno e uomo di mondo, le cui speculazioni avevano procurato enormi profitti a lui e alla sua famiglia.5 Galeazzo Ciano, negli anni successivi al matrimonio, divenne il massimo esemplare della jeunesse dorée del regime fascista, considerato l’erede designato del Duce, diplomatico neofita in Cina, poi ministro della Cultura popolare, quindi degli Esteri e più tardi, dal febbraio 1943, ambasciatore presso la Santa Sede. Era uno yuppie del suo tempo, che si poteva incontrare tanto su una spiaggia alla moda quanto al bar del campo di golf dell’Acquasanta, le cui fairway correvano lungo l’acquedotto che un tempo portava l’acqua al primo Impero romano, ma anche seduto al tavolo di lavoro. Aveva conosciuto Edda all’Acquasanta.6 Era il prediletto delle «contessine», le giovani aristocratiche della Città Eterna, e correva voce che se le portasse a letto con frequenza addirittura superiore a quella con cui il Duce aveva realizzato il suo record di conquiste sessuali.7

Ogni tanto Ciano indossava la camicia nera e il minaccioso equipaggiamento della fanatica squadra denominata «La Disperata» (lui non ne aveva fatto parte, e anche la sua adesione al partito era stata retrodatata).8 Cercava di arringare come i migliori gerarchi, ancorché svantaggiato da una voce stridula.9 In quelle occasioni si dichiarava servitore e sincero devoto della «rivoluzione fascista». Ma Ciano era anche il fascista che il 4 novembre 1939, dopo aver partecipato alla pomposa cerimonia patriottica di Vittorio Veneto, anniversario della vittoria italiana nella prima guerra mondiale, si era imboscato al circolo del golf. In quella sede confidò a Giuseppe Bottai, Alessandro Pavolini ed Ettore Muti, dignitari fascisti suoi colleghi, di sperare ardentemente che fosse la Gran Bretagna, non la Germania nazista, a vincere la guerra. L’Inghilterra, spiegò in tono faceto, meritava la vittoria perché rappresentava «l’egemonia del golf, del wisky [sic] e del comfort».10

Benché non approvasse la frivolezza di Ciano, Bottai votò con lui il 25 luglio e dal gennaio 1944 visse alla macchia in attesa di potersi arruolare nella Legione straniera francese.11 Muti era morto, ucciso nell’agosto 1943 da ufficiali del governo reale mentre tentava di sottrarsi all’arresto.12 Per contro, Pavolini aveva appoggiato la Repubblica di Salò (come veniva generalmente chiamata la RSI, dal nome della cittadina sul lago di Garda in cui erano insediati alcuni suoi ministeri). Secondo uno storiografo simpatizzante, il motivo fondamentale della scelta di Pavolini era la sua ammirazione per il Duce.13 Di sicuro c’è che nel gennaio 1944 Pavolini, fiorentino, pari a Ciano per classe sociale e preparazione culturale, era diventato «superfascista»14 e chiedeva a gran voce che il suo amico d’un tempo fosse condannato alla pena capitale.15

Una Mussolini, però, tentò di opporsi a quella vendetta. Forse quello di Ciano con Edda era stato un matrimonio «aperto» e la coppia si era probabilmente lasciata travolgere dal gioco d’azzardo, dall’alcol e anche dalla cocaina,16 ma, durante la crisi del 1943-44, Edda dimostrò un forte attaccamento al suo uomo, il padre dei suoi due figli, il marito che lei continuava con affetto a chiamare «Gallo».17 Si infuriò e minacciò, rimproverando il padre per la sua mancanza di senso della famiglia, per la sua crudeltà e debolezza. Davanti alla primogenita, per la quale un tempo aveva provato più affetto che per gli altri suoi figli, il Duce chinò la testa, ma non fece nulla per cambiare la sorte di Ciano. Un testimone riferì di un uomo che sembrava «stanco, abbattuto»: il Duce di Salò si premeva lo stomaco per il dolore e si passava le dita intorno al colletto della camicia come se avesse difficoltà a respirare.18

Edda non ebbe miglior fortuna con le scenate isteriche di fronte alla madre. Rachele disprezzava da tempo Ciano, il signorino superprivilegiato, tanto effeminato da giocare a golf.19 Benché avesse vissuto vent’anni come consorte del «padrone» d’Italia, aveva conservato la propria immagine di donna del popolo. Questo atteggiamento, insieme alla semplicità, alla parsimonia e al buon senso, comprendeva la fedeltà al marito che, a quanto sapeva, era stato tradito nel 1943. La sua determinazione a essergli fedele era rafforzata dall’invidia e dal rancore nei confronti dell’alta società, dalla brutale accettazione dell’ineluttabilità della morte e dalla convinzione che i traditori avrebbero dovuto subire il loro destino. Poiché era il vero «duro» della famiglia, Rachele lasciava credere che non piangeva mai.20 I fascisti, quelli che come Pavolini erano passati per qualsiasi motivo alla Repubblica di Salò, concordavano con lei. Goffredo Coppola, rettore dell’Università di Bologna, espresse questa convinzione quando scrisse che il nuovo regime doveva essere cementato con il sangue, rinunciando alla passione per il compromesso a cui indulgevano «i rabbini, i massoni e le donne».21

Senza dubbio, gli alleati tedeschi e i protettori di Salò plaudivano ai sentimenti di Rachele. Avevano motivi particolari per condannare Ciano fin da quando, a partire dalla primavera del 1939, l’allora ministro degli Esteri si era mostrato scettico sull’ordine mondiale di stampo nazista e aveva accettato con riluttanza l’entrata dell’Italia in guerra. I nazisti erano inflessibili nel ritenere che Ciano e gli altri suoi accoliti caduti nelle mani della RSI dovessero essere giustiziati. Dovevano subire la condanna a morte come punizione per ciò che avevano fatto, ma anche come castigo per l’umiliante e disonorevole insuccesso dello sforzo bellico italiano fino a quel momento. In altre parole, dovevano essere liquidati perché il regime fascista, il sistema politico per il quale era stato inventato il termine «totalitario», in cui «tutto doveva essere per lo Stato, nulla contro lo Stato, nessuno al di fuori dello Stato», si era rivelato vacuo e falso. Sebbene nessuno lo dicesse apertamente (e la questione non è molto sottolineata nella storiografia italiana corrente),22 Ciano veniva fucilato al posto di Benito Mussolini, il dittatore fascista fallito come capo di governo totalitario, come leader della sua nazione e come guerriero del Nuovo Ordine nazifascista.

Nel 1944 coloro che biasimavano Mussolini per tutti quei disastri non parlavano delle colpe e dei limiti del loro dittatore perché la propaganda della Repubblica di Salò era già impegnata a costruire un nuovo Mussolini adatto a quei tempi terribili. Ancora oggi alcuni storici23 sostengono che, dopo l’8 settembre 1943, Mussolini si fosse coraggiosamente offerto come scudo per proteggere gli italiani dal furore degli alleati tedeschi e dagli orrori della guerra che continuava. Il Mussolini in carne e ossa, quello che viveva comodamente nella villa Feltrinelli a Gargnano, era una figura molto meno eroica. Era un uomo malato, stanco e depresso. La famiglia litigava intorno a lui. Suo figlio maggiore, Vittorio, fiacco e pretenzioso, definito «idiota» persino dal padre, esibiva tardivamente un interesse per l’alta politica24 e trovava appoggio in suo cugino Vito.25 Un buon numero di parenti più o meno lontani affluì nella regione (uno storico ne ha calcolati duecento).26 Come commentò sarcasticamente un osservatore, Mussolini era profondamente affezionato alla sua famiglia, ma preferiva che i parenti non invadessero il suo spazio operativo.27 Malgrado tutte le smentite, comunque, nella sua agonia il fascismo stava dimostrando, tramite i vari Mussolini e Guidi, che l’istituzione della famiglia non era caduta vittima del controllo totalitario.

Rachele, in cuor suo, forse si era chiesta se Benito era ancora un vero uomo, ma intanto si dava da fare, impressionando i visitatori con la sua operosità e i suoi modi cordiali. Rivelò a un burocrate che uno dei problemi di suo marito era quello di credere a tutte le persone con cui parlava, mentre lei non credeva a nessuno.28 Quando ne aveva l’occasione malediceva il marito per la relazione in corso con Claretta Petacci,29 la sua ultima amante, superficiale e appiccicosa, che, dopo una breve esperienza in carcere nell’agosto-settembre 1943,30 si era installata vicino ai Mussolini, nella residenza chiamata villa delle Orsoline, dall’ordine delle suore che un tempo vi avevano abitato. C’era poi il caso di Edda, venuta a fare un’ultima visita il 26 dicembre 1943. Aveva gridato che la guerra era persa, che tutti loro vivevano da illusi, che in simili circostanze non si poteva lasciar sacrificare Galeazzo,31 ed era partita verso la Svizzera per non vedere mai più suo padre, mai più scambiare una parola cortese con lui, dichiarandosi al contrario fiera di essere «la moglie di un traditore e di un ladro».32 Solo i figli più giovani, Romano e Anna Maria, colpita dalla poliomielite in tenera età e costantemente assorbita nel tentativo di superarne gli effetti devastanti, non erano motivo di irritazione. Il secondo figlio, Bruno, era morto in guerra, vittima di un incidente aereo.33 La vedova di Bruno, Gina Ruberti, completava la cerchia familiare di villa Feltrinelli e godeva della simpatia del Duce, che forse l’ammirava perché metteva apertamente in ridicolo ogni accenno alla possibilità che l’Asse potesse ancora vincere la guerra.34

Nel gennaio 1944 Mussolini cercava di farsi vedere il meno possibile. Perlopiù si nascondeva a se stesso mentre, da vero codardo, lasciava consapevolmente che Ciano andasse a morire al posto suo. La notte prima dell’esecuzione il Duce non considerò, deliberatamente e ignobilmente, la possibilità di concedere il perdono, come la sua posizione gli avrebbe consentito. Non agì perché si rendeva conto che i nazisti e i repubblichini si sentivano per il momento saziati dal sangue altrui, compreso quello del marito di sua figlia. Forse anche lui sperava che, una volta compiuto il sacrificio, essi avrebbero perdonato o ignorato le sue evidenti manchevolezze. Indubbiamente quelle motivazioni lo rendevano ancora più ansioso, a esecuzione avvenuta, di farsi raccontare da qualche testimone tutti i particolari di come erano morti il genero e i suoi colleghi d’un tempo. Poi, senza danneggiare il proprio interesse, poté dichiarare ipocritamente che le vittime non avevano meritato quella sorte.35 In modo ancora più patetico, Mussolini tentò di attribuire ad altri la colpa del suo rifiuto d’intervenire, dichiarando con aria afflitta che il 10 gennaio aveva passato una notte insonne (a Capodanno era stato a letto con febbre e mal di stomaco).36 Solo la malevolenza di qualcun altro aveva impedito che tutte le domande di grazia giungessero al suo orecchio comprensivo.37 Scrisse alla madre di Ciano una lettera in cui sottolineava la propria solitudine.38 Quando Edda affermò di non essere convinta dalla confessione delle sue sofferenze, dichiarò con straordinario egoismo a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo che «è ben singolare il mio destino di venire tradito da tutti, anche da mia figlia».39 Ancora nel marzo 1945 egli continuava a parlare dell’«agonia … atrocemente lunga» che aveva patito mentre Ciano andava al supplizio.40 Nel proprio narcisismo Mussolini tentava di ignorare la realtà del disastro che da qualche tempo aveva coinvolto il fascismo e l’Italia, e si ostinava a non vedere le Furie che si radunavano intorno a lui.

Nel dire a un interlocutore ciò che questi desiderava sentire, com’era sua abitudine, Mussolini dichiarò, sulla scia dell’esecuzione di suo genero: «Ora che abbiamo cominciato a far rotolare le teste, andremo diritto, sino in fondo».41 La storia d’Italia dal gennaio 1944 all’aprile 1945 fu veramente crudele, un periodo in cui il Nord era teatro sia della seconda guerra mondiale sia di lotte intestine e di stragi, un caos che si acquietò solo alcuni mesi dopo la conclusione formale del conflitto. Per contro, il Sud «liberato», sotto l’azione congiunta del governo militare alleato e dell’amministrazione fedele alla monarchia sabauda, subì le tradizionali angherie, più tollerabili, della classe dirigente nazionale e le discriminazioni regionali e sociali, nonché l’umiliante divario tra la povertà italiana e la potenza dei liberatori anglo-americani.42

Nell’Italia dei nostri giorni è diventato usuale, almeno da parte di alcuni, rimarcare la necessità di dimenticare e perdonare le colpe della Repubblica sociale. A quel tempo, ci assicurano, gli italiani,43 compresi alcuni eminenti storici della generazione successiva,44 scelsero di combattere per Mussolini spinti da motivi degni di comprensione e di rispetto. Durante una «guerra civile»45 in cui la virtù non era monopolio dell’una né dell’altra fazione, molti italiani credettero che l’onore e l’impegno della nazione fossero meglio rappresentati a Salò che dagli alleati democratico-liberali (e dai loro amici comunisti).

Rappacificarsi con il passato è un’ottima cosa. Indubbiamente fa bene a tutti noi confessare i nostri peccati e ammettere le nostre inevitabili e molteplici colpe. Tuttavia vale la pena ricordare che la RSI fu l’alleato-fantoccio della Germania nazista quando il più orribile degli Stati moderni continuava a sterminare gli ebrei d’Europa e si riprometteva, al tempo stesso – forse per trasformare magicamente in vittoria quella che nel 1944 era una sconfitta incombente –, di eliminare tutti i nemici ideologici o razziali. Franco, fascista solo a metà, quando le sue forze si rivelarono vittoriose nella guerra civile spagnola, massacrò almeno 100.000 suoi sudditi, ne esiliò a titolo definitivo altri 300.000, altri ancora ne lasciò morire di fame e represse ogni forma di libertà per un’intera generazione.46 Quali effetti avrebbe avuto una vittoria nazifascista nel complesso delle seconde guerre mondiali? Lo stesso Mussolini non sarebbe stato trascinato in una serie di atroci «conclusioni logiche», quali che fossero state le sue «effettive» intenzioni? Quando si scopre che un intellettuale apparentemente rispettabile come Giovanni Gentile scriveva, nel gennaio 1944, della necessità urgente per l’Italia di riscoprire la propria anima nel Duce che aveva alzato nuovamente la bandiera nazionale, aggiungendo poi la richiesta di «colpire inesorabilmente la pervicacia dei riottosi irriducibili»,47 le sue parole non possono essere separate dal contesto di un mondo impegnato in una guerra viscerale. Neppure possono esserlo quelle del suo collega Ardengo Soffici che, nonostante la sua notoria ricerca di fondi e di status nel corso di due decenni di fascismo,48 ora inveiva contro la «specie di grosso bubbone» della corruzione che, cresciuto chissà come sul corpo del fascismo, doveva essere spietatamente e definitivamente inciso, eliminando «la minima goccia di marcio».49 Si deve presumere che Gentile, Soffici e gli altri intellettuali che si radunarono intorno alla RSI caldeggiassero, consapevolmente, una fine terribile per i loro avversari politici. Forse avevano creduto che l’arrivo della pace avrebbe implicato, come sempre, compromessi per il momento inconfessabili ma, nell’aggrapparsi all’usato cinismo, non avevano scandagliato fino in fondo la natura dell’alleato nazista al quale erano legati, letteralmente, fino alla morte.

Senza dubbio il numero dei partigiani fu decisamente scarso fino alla primavera del 1945 e, soprattutto allora, le loro motivazioni non furono sempre limpide.50 Senza dubbio, anche la Resistenza contava degli assassini nelle sue file. Senza dubbio i bombardieri anglo-americani furono spietati nelle incursioni sulle città italiane e le forze armate alleate si comportarono in modo incoerente con gli italiani liberati.51 Senza dubbio non fu il bene, nel senso profondo del termine, a vincere nel 1945. Tuttavia, la vittoria dell’altra parte, inclusa quella del redivivo Benito Mussolini, avrebbe inaugurato un’epoca buia per l’Italia, per l’Europa e per il mondo.

Nel 1944-45, difficilmente Mussolini considerava una simile prospettiva e i problemi che avrebbe comportato. In fondo, né nel 1940 né nel 1935, quando l’Italia aveva aggredito l’Etiopia, egli aveva enunciato propositi di guerra. Come dittatore fantoccio, la sua massima priorità, dopo aver fatto uccidere il genero e altri ex colleghi, era la sopravvivenza.

Intanto, il territorio sotto il suo presunto controllo continuava a restringersi, malgrado la lentezza dell’avanzata degli Alleati lungo gli aspri Appennini. Napoli era caduta il 1° ottobre 1943, Roma il 4 giugno 1944, Firenze l’11 agosto dello stesso anno. Quasi altrettanto penoso era il problema di definire l’indipendenza lasciata dai tedeschi alla RSI. I confini nazionali dell’Italia erano una preda anche per loro. Una questione fondamentale era costituita dalle intenzioni tedesche nei confronti di Trieste e del Trentino, territori appartenuti all’Impero asburgico prima del 1918 e ritornati, dal settembre 1943, all’amministrazione provvisoria tedesca. Ciò fornì a Mussolini l’occasione per lamentarsi ostentatamente con i suoi gerarchi perché la Germania non lo aveva consultato, e per esigere che fossero gli italiani a governare gli italiani.52 In pratica soltanto Hitler, fra i maggiori dirigenti nazisti, era favorevole a una seria restaurazione dell’autorità di Mussolini su quanto restava dell’Italia fascista. Goebbels, più coerente rispetto al ripristino del controllo tedesco sulle terre che essi avevano governato in passato, sollecitava invece l’annessione di tutto il Veneto al Reich.53 Di lì a poco il ministro della Propaganda nazista avrebbe annotato nel suo diario ciò che lui e i suoi colleghi credevano da molto tempo: «Il fascismo e la repubblica social-fascista sono così impotenti che è quasi irrilevante sapere chi occupa i vari posti ministeriali nel Gabinetto di Mussolini».54 Per buona parte dei leader nazisti Mussolini era più un fantoccio che un dittatore.

Fu in questa atmosfera di disprezzo da parte dei tedeschi che, il 22 aprile 1944, il Duce si recò al castello di Klessheim presso Salisburgo per un altro incontro – il sedicesimo – con il Führer. Sebbene il maresciallo Rodolfo Graziani, comandante delle forze armate ufficiali di Salò, lo trovasse nervoso e sfuggente, all’apertura della discussione, Mussolini sostenne di essere prossimo alla costituzione di un vero governo in Italia.55 Benché poco convincente, fu inflessibile su una serie di altre questioni, compresa la necessità di migliorare le condizioni dei prigionieri di guerra italiani e dei lavoratori emigrati, che dal settembre 1943 erano tenuti in Germania come schiavi.56 Chiese inoltre a Hitler di chiarire le vere intenzioni tedesche riguardo a Trieste e alle altre terre di confine. «Il rafforzamento della Repubblica italiana» insisté «è interesse della Germania.»57 Mentre Hitler restava insolitamente silenzioso, Mussolini ritornò su quella che, a mano a mano che la guerra procedeva, era diventata la sua ossessione strategica. L’Inghilterra, dichiarò, era la vera nemica dell’Asse. Si poteva convincere l’URSS ad accettare i propri vecchi confini e a concentrare nuovamente tutti gli sforzi sul fronte occidentale?58

Insistendo sull’idea di un compromesso con Stalin, Mussolini denunciava la superficialità della propria partecipazione agli ideali razzisti e anticomunisti dell’Asse. Al tempo stesso esibiva la propria vistosa incomprensione del fanatismo che dominava la mente di Hitler e degli altri gerarchi nazisti. Nel 1944 la Germania combatteva nell’Est la sua vera guerra, la più fondamentale e fondamentalista di tutte le seconde guerre mondiali. Per un italiano, sperare ansiosamente, nel meschino interesse della propria nazione, che i nazisti potessero accantonare questa campagna era la più assurda delle illusioni.

Ciononostante, e malgrado la scarsa qualità della propria esibizione, il Duce fece di nuovo presa sul Führer, almeno fino a un certo punto. Alcuni tedeschi potevano commentare tra loro la debolezza di Mussolini come negoziatore e confrontarlo sfavorevolmente con il primo ministro di Vichy, Pierre Laval.59 Tuttavia, dopo le discussioni tecniche su come potenziare la resistenza militare italiana e qualche vago commento di Hitler sulla composizione «innaturale» dell’alleanza nemica e sulla perdurante certezza della vittoria dell’Asse, nel leader tedesco rinacque l’antica ammirazione per il Duce. Aveva deciso, disse seccamente, di non avere alcun altro contatto con l’Italia: «una volta per tutte» avrebbe «fatto affidamento» su Mussolini.60

Come segno del suo prestigio restaurato, al Duce fu concesso di visitare un accampamento in cui le truppe italiane della San Marco si addestravano con l’assistenza dei tedeschi.61 Fu ricevuto con grande entusiasmo e forse questo dovette sollevargli un po’ il morale. Tuttavia, in quello che definì un «dialogo quasi socratico», pubblicato immediatamente dopo il suo ritorno in Italia, fu più misurato nell’analisi del probabile futuro. La guerra, annotò con similitudine forzata, «è il grande esame comparativo dei popoli». In essa, una nazione non era tenuta a vincere sempre: «Si può perdere bene: si può vincere male».62 Ma ogni volta che osservava il fronte, l’ottimismo di Mussolini si affievoliva.

A Klessheim aveva chiesto con insistenza che Roma, «centro spirituale dell’Italia», fosse difesa fino allo stremo.63 In luglio, mentre Mussolini si preparava a un ultimo incontro con il Führer, la Città Eterna era già caduta, il che lo indusse a domandare pateticamente a un collega fascista se questo significava che il popolo di Roma lo aveva già dimenticato.64 Nel 1944 era diventato difficile in Italia trovare una folla plaudente; perciò, mentre si recava in treno al quartier generale di Hitler nella Prussia orientale, il Duce si fermò per arringare i militari addestrati dagli esperti nazisti. Il razzismo delle parole con cui cercò di incoraggiare quei giovani (e se stesso) forse non era abbastanza puro per i nazisti in ascolto. «Roma» proclamò «che durante trenta secoli della sua storia non vide mai africani se non incatenati dietro al carro dei consoli vincitori, oggi ha le sue mura profanate da queste razze incivili e bastarde.» «I nemici multicolori» dell’Italia dovevano capire che non avevano ancora in pugno la vittoria finale e che le truppe della RSI, come quelle a cui Mussolini si stava rivolgendo in quel momento, sarebbero state avversari tenaci.65

Resta da capire se il morale suo, o del suo uditorio, fu sollevato o meno da queste parole, con il loro sgradito messaggio implicito secondo cui l’America, l’antico paradiso sognato da generazioni di emigranti italiani, era adesso il vero nemico. Se non altro il suo discorso fu più appropriato di quello di Rodolfo Graziani, che evocò le legioni di Varo distrutte da Arminio nel 9 d.C., per poi rendersi conto di avere parlato di una guerra in cui i Germani avevano sterminato i Romani.66

Il viaggio in treno nell’estate del 1944 attraverso l’Europa nazista fu un’avventura rischiosa e il transito della delegazione venne ripetutamente ostacolato da bombardamenti aerei e da guasti sulla linea. Pertanto gli italiani non furono troppo stupiti quando scoprirono che, appena fuori Rastenburg, il convoglio aveva imboccato un binario morto. Rimasero là per un’ora senza ricevere comunicazioni di sorta su ciò che stava accadendo. Ma quando il treno arrivò faticosamente a destinazione e Mussolini scese a terra, il Führer, avvolto in una coperta, salutò alzando il braccio sinistro invece del destro.67 L’arrivo del Duce era stato ritardato a causa del tentativo di Klaus von Stauffenberg – e di ciò che restava della Germania conservatrice – di assassinare Hitler (e dare corso all’ambizione diplomatica di unirsi alle potenze occidentali in una grandiosa lotta contro il comunismo slavo, ossia proprio l’opposto della guerra desiderata da Mussolini).

Date le circostanze, una conversazione proficua tra i due malconci dittatori si rivelò impossibile, ma gli interpreti presenti descrissero per la posterità la scena che si svolse nella stanza in cui era esplosa la bomba dove, come due vecchi ridotti ad «aspettare Godot», Hitler stava appollaiato su una cassa capovolta e Mussolini su uno sgabello traballante.68 Il Führer, ovviamente, teneva di più a raccontare ciò che era accaduto, a minacciare una morte tremenda per i suoi mancati assassini e ad asserire che l’essersi salvato dimostrava che la Provvidenza lo stava tenendo in vita per la vittoria finale. Mussolini mormorò qualche banalità sullo shock e la sofferenza che provava, benché fosse segretamente compiaciuto nel vedere il leader tedesco con la cresta abbassata. «Non siamo più soli in quanto a tradimenti», disse a un corrispondente fascista quando rientrò dalla Prussia orientale.69 I due dittatori passarono frettolosamente in rassegna per l’ultima volta la situazione al fronte. Hitler insisté affinché Firenze, la città dei suoi sogni,70 fosse salvata. Mussolini chiese di nuovo che una parte delle truppe italiane trattenute in Germania fosse mandata a sud. Hitler, distratto, fu subito d’accordo.71 Con questa piccola concessione da parte del Führer ebbe fine ogni tentativo della RSI di conservare una politica estera,72 anche se, tornato in Italia, Mussolini trovò ancora molti motivi per litigare con l’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn.

Cinque mesi addietro, il Duce aveva esibito una certa spavalderia nel corso di una discussione con il suo tutore tedesco. In quella circostanza si era visibilmente compiaciuto nel dire a Rahn ciò che questi non desiderava sentire. «Molti dirigenti dell’industria italiana» aveva affermato «attendono a braccia aperte gli anglosassoni.» Molti altri, aveva aggiunto, erano responsabili dell’abbandono dell’alleanza tedesca da parte italiana avvenuto l’8 settembre 1943.73 Era tempo, spiegò, di controllare e disciplinare quelle forze sociali. Era tempo di realizzare l’aggettivo «sociale» attribuito alla Repubblica e di dare alla RSI una base popolare e «rivoluzionaria», del tipo dichiarato prima del 25 luglio 1943 ma troppo spesso tradito.

In questi mesi si parlò molto di «socializzazione» e Mussolini poté felicemente evocare il fascismo del 1919, i cui programmi contenevano progetti radicali per spingere la società verso l’uguaglianza. In fondo, egli era cresciuto come socialista e ora, entro certi limiti, rilanciava il vocabolario della sua giovinezza,74 benedicendo quelli tra i suoi seguaci che discutevano di portare in qualche misura l’Italia verso sinistra.75 Come affermò in seguito Bruno Spampanato, giornalista che era stato con Mussolini sin dagli anni Venti e che negli anni Trenta aveva vagheggiato l’idea di ricercare affinità ideologiche tra il fascismo e lo stalinismo,76 la socializzazione «non fu improvvisata. Fu una cosa serissima come legge e come realizzazione».77

Al tempo in cui sosteneva questa tesi, Spampanato aspirava a legittimare la storia del fascismo e a creare uno spazio politico per il neofascismo del dopoguerra. Durante la RSI la linea mussoliniana della rivoluzione sociale aveva vacillato, proprio come negli anni 1919-1920. In ogni caso, il potere e l’indipendenza del Duce dal controllo tedesco erano troppo deboli per far emergere una politica autenticamente radicale. Così, come spesso era accaduto nella sua vita, Mussolini arretrò e si mise al riparo, cercando di soddisfare oggi un interlocutore e l’indomani un altro. Disse a una parte della sua nuova élite che tutti i piani di cambiamento sociale erano secondari rispetto al bisogno di riportare la situazione alla normalità, ponendo fine alla violenza, e di far ritrovare alla nazione il suo onore.78 In altre occasioni invitò a stringere i tempi per procedere alla socializzazione, se non altro per fare dispetto alla Germania, che disdegnava l’implicita retorica anticapitalista.79 In evidente contraddizione con questa promessa di una società mobilitata ed egualitaria, diede istruzioni ai suoi ufficiali di non pretendere l’appartenenza al partito dalle persone che dirigevano le operazioni finanziarie nella Repubblica.80 Forse i veri sentimenti del Duce in merito a tutti gli sforzi per assicurare alla RSI «un posto nella storia» furono meglio riassunti nel suo amaro commento dell’agosto 1944: «La somma della credulità da accreditare a ciascun uomo, di qualunque condizione e di qualsiasi grado d’intelligenza, è sempre straordinaria». In ogni contesto, aggiunse, «il prestigio colorito e scintillante della menzogna vince sempre sulla povera, grigia e troppo semplice verità».81 Non stupisce il fatto che, poco dopo, la sua ipocrisia risultasse evidente quando disse a un pubblico di fedelissimi che la socializzazione della RSI incarnava una versione «italiana, umana, nostra, effettuabile» del socialismo, che avrebbe evitato in qualche modo il livellamento sociale.82

Sotto la sua retorica e le sue uniformi (Mussolini esigeva l’uso della divisa per evitare la diffusione di una «sciatteria di pura marca demosociale»),83 la RSI vacillava sull’orlo non tanto della rivoluzione sociale quanto dell’anarchia. La questione delle sue forze armate non fu mai risolta completamente: la creazione di una milizia di partito, la Guardia nazionale repubblicana, al comando di Renato Ricci, era in aperto contrasto con gli sforzi di Graziani di creare una forza armata «nazionale» e «apolitica» di tipo tradizionale.84 Soltanto nell’agosto 1944 la GNR venne finalmente incorporata nell’esercito,85 ma anche allora continuarono a nascere gruppi armati indipendenti. Con l’appoggio di Pavolini, segretario del partito, impegnato in una lotta personale con Guido Buffarini Guidi, ministro dell’Interno, le Brigate nere di volontari aumentarono di numero, a imitazione delle «squadre» dei primi anni dell’ascesa del fascismo al potere. Proprio come allora, le squadre furono spesso un’emanazione dello spirito campanilistico, impegnate a sostenere il potere di un capo locale. Il loro ricorso alla violenza non era regolato da alcuna disciplina, a tal punto che le squadre potevano addirittura minacciare di spodestare lo stesso Mussolini. Il più noto dei capi semindipendenti era il principe Junio Valerio Borghese, comandante della cosiddetta X Mas (formazione militare autonoma)86 ed eroe della marina. Egli non esitò ad affermare che il carisma del Duce era sepolto nel passato87 (gli uomini di Gargnano, dichiarò a gran voce, erano soltanto «folclore»)88 e a perseguire una politica estera indipendente cercando protettori nel gruppo dirigente nazista, il cui intervento servì a farlo uscire di prigione dopo il suo arresto nel gennaio 1944. Nei primi mesi del 1945 Mussolini era ancora turbato dal pensiero che Borghese potesse tentare di organizzare un colpo di Stato, pertanto cercò di neutralizzare il suo potere promuovendolo capo di stato maggiore della praticamente inesistente marina militare di Salò (e tenendo una registrazione segreta dei suoi numerosi adulteri).89 Dal canto loro i giornalisti della RSI non riuscirono a trovare un’unanimità ideologica e si diedero invece a litigare e complottare l’uno contro l’altro.90 La dichiarazione più sincera di Mussolini sul problema delle forze armate, dell’ordine pubblico e dell’opinione della stampa nell’ambito della Repubblica di Salò venne quando deplorò la morte di Arturo Bocchini, l’uomo che era stato a lungo il suo capo (apartitico) della polizia, avvenuta nel 1940. «Non si governa senza un capo di polizia» mormorò tristemente il Duce.91

Nel frattempo gli italiani subivano il terrore provocato dai tedeschi e da loro stessi. Nel marzo 1944 una bomba piazzata dai partigiani in via Rasella, a Roma, esplose vicino al palazzo in cui Mussolini aveva abitato in passato, uccidendo più di 30 soldati del Führer. Per rappresaglia, i tedeschi massacrarono alle Fosse Ardeatine, presso la via Appia, 335 uomini (compresi 77 ebrei) rastrellati a casaccio. In giugno la divisione Hermann Göring, per reazione a un attacco partigiano, uccise oltre 200 persone mentre si ritirava nella Val di Chiana, in Toscana.92 In settembre anche il piccolo paese di Marzabotto, alla periferia di Bologna, fu vittima di una rappresaglia analoga. I tedeschi indulgevano all’uso del terrore anche nelle città. A Milano l’esposizione pubblica in piazzale Loreto dei cadaveri di persone giustiziate provocò una protesta di Mussolini che, parlando con Rahn, deplorò l’effetto dannoso di quegli atti sul morale del popolo.93 Quanto ai territori di confine di Trieste e dell’Alto Adige, acquisizioni «nazionali» dell’Italia alla fine della prima guerra mondiale, l’amministrazione tedesca prometteva di annetterli alla Germania se a tali regioni fosse stata imposta la pace nazista (il comandante in capo delle SS, Odilo Globocnik, che vantava un’efferata carriera di sterminatore di ebrei, incarnava a Trieste quel possibile futuro).

Per tutta la vita, e certamente da quando era diventato fascista, Mussolini aveva seminato il vento della violenza. Adesso, lui e i suoi sudditi raccoglievano la tempesta. C’erano molti fascisti fanatici che uccidevano con lo stesso gusto dei tedeschi (così come c’erano molti fascisti scettici che cercarono solo di sfuggire alla minaccia che incombeva sull’Italia).

Le carenze del governo di Salò erano molto più pratiche. Nel 1944 i rifornimenti di generi alimentari erano scarsi, l’inflazione era in ascesa e il nuovo governo si dimostrava incapace quanto quello precedente di imporre un razionamento alimentare giusto, o almeno credibile.94 Distogliendo lo sguardo dalla catastrofe imminente, Mussolini si concentrò sull’autogiustificazione, pubblicando sul quotidiano milanese «Corriere della Sera» un articolo fortemente tendenzioso sulla propria caduta del luglio 1943.95 Se avesse potuto scriverne la storia, avrebbe avuto più probabilità di salvare la propria reputazione.

Tuttavia, alla fine del 1944 Mussolini tentò un ultimo raduno di massa in cui la sua oratoria potesse stupire ed entusiasmare il popolo, come in passato era immancabilmente riuscito a fare. Lasciandosi alle spalle il grigiore dei laghi, rientrò a Milano e tenne un discorso al Teatro Lirico. Parlò del tradimento perpetrato dal re Vittorio Emanuele e dal suo primo ministro, il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio; parlò anche delle divisioni che gli eventi del periodo luglio-settembre 1943 provocarono nel popolo italiano, i cui elementi migliori avevano comunque riconosciuto la necessità di continuare a combattere a fianco degli alleati tedeschi e giapponesi. La guerra, dichiarò, non era ancora perduta; il patto tra la plutocrazia e il bolscevismo non avrebbe tardato a spezzarsi. Il Duce intendeva ravvivare lo spirito dei primi giorni del fascismo ed era convinto quando parlava di socializzazione, anche se non mancò di evocare gli anni d’oro del regime che, disse, erano durati dal 1927 al 1935. Evocò di nuovo Mazzini quale profeta dei tempi. Il nuovo ordine, affermò, avrebbe favorito un’Europa unita in cui «noi ci sentiamo italiani in quanto europei, ma ci sentiamo europei in quanto italiani». Questo amalgama garantiva che gli italiani avrebbero resistito al socialismo internazionale e al cosmopolitismo massonico-giudaico, la «mostruosa» accozzaglia dei loro nemici.96 Quali che fossero le frustrazioni del passato, la RSI avrebbe cercato una «terza via».

Tanto il Duce quanto il suo uditorio si lasciarono trasportare da queste parole e dalla gradita rievocazione di un tempo più felice, quando si era parlato di guerra ma non la si era fatta. La tristezza, però, non tardò a ritornare. Mussolini aveva provato a impegnarsi nell’amministrazione e, visto con occhi benevoli, ai suoi consiglieri sembrava un dirigente capace, «scrupoloso, diligente, attento».97 Ugualmente, in qualche occasione, egli poteva ancora elogiare la capacità e la devozione del buon burocrate, così indispensabile per qualsiasi amministrazione.98 Però, quando sedeva al tavolo di lavoro, la magia svaniva: persino un osservatore ben disposto pensava che somigliasse a un avvocato o un medico di provincia nell’ambiente sciatto del suo ufficio di Gargnano, lontano dagli splendori della sala del Mappamondo, il suo spettacolare ufficio a palazzo Venezia degli anni 1929-43.99 Protestava di essere stanco di ciò che restava del suo lavoro (e indubbiamente era stanco di sé).100 L’illusorietà della sua situazione era esemplificata da bizzarri tentativi di elaborare tardivamente una nuova Costituzione. Fingeva di interessarsi alla questione se un Duce doveva restare in carica per un massimo di due settennati oppure per due quinquenni.101 Avrebbe potuto fantasticare sulla sua fama se avesse rinunciato al potere nel 1936, quando le truppe italiane erano entrate trionfalmente a Addis Abeba?

Parzialmente consapevole del fatto che questo era il momento di passare in rassegna la sua vita, concedeva occasionalmente un’intervista, accalorandosi ancora quando parlava di giornalismo e ricordando che «creare il giornale è come conoscere la gioia della maternità».102 In altri momenti si abbandonava a considerazioni filosofiche. Aveva sempre preferito i gatti ai cani, diceva, forse pensando negativamente a Hitler, a Blondi e ai suoi Hundejahre, ai suoi «anni di cani».103 Aveva commesso degli errori, confessava il Duce, ma solo quando aveva obbedito alla ragione invece di farsi guidare dall’istinto.104 Adesso era diventato un prigioniero, un giocattolo nelle mani del destino. Però non temeva la morte, pensava piuttosto che sarebbe arrivata come un’amica.105 Riponeva poca o nessuna fede nel credo del fascismo, solo nella bontà del popolo italiano,106 almeno così sosteneva parlando con un intervistatore straniero. Per contro, se aveva di fronte un italiano, insisteva a dire che il fascismo doveva ancora essere riconosciuto come l’idea più grande del XX secolo. Alla fine, la storia avrebbe dimostrato che lui aveva ragione.107 A volte diceva che era entrato in guerra per frenare i tedeschi e che sapeva da molto tempo che gli Stati Uniti erano destinati ad affermarsi come la nazione più importante.108 Ogni tanto dichiarava anche di essere sempre stato socialista in cuor suo; aveva semplicemente adattato il pensiero socialista alla realtà, inventando così lo Stato corporativo.109 Si sforzava di negare, per l’ennesima volta, di essere responsabile dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, avvenuto nel 1924.110 La sua opera era stata disturbata da «un’ulcera allo stomaco che avrebbe atterrato un bue», ma la sventura peggiore era stata la morte del fratello Arnaldo, «un italiano di antico stampo: probo, intelligente, sereno, umano», il suo parafulmine di fronte al popolo. Per altre figure incontrate durante la sua lunga carriera, raramente aveva trovato motivi di rispetto. Dopotutto, l’egoismo era «la legge sovrana». Gli uomini appartenevano al regno animale. Graffiavano, uccidevano e si illudevano quando parlavano della propria anima.111

Sempre più sentenzioso e amareggiato, Mussolini si avviava verso la fine in un modo che potrebbe essere considerato la quintessenza della banalità, non fosse stato per il terrore inflitto ai popoli d’Italia e d’Europa in quegli ultimi giorni di una guerra che egli aveva contribuito a scatenare. Usando il più prevedibile dei paralleli, benché vistosamente inappropriato, il 15 aprile Mussolini disse a un ammiratore: «Sono crocefisso al mio destino. Si compia».112 Il giorno dopo il Duce spiegò, nell’ultima riunione del suo Consiglio direttivo, che sarebbe andato a Milano, ma solo brevemente, prima di proseguire per la Valtellina dove si stavano concentrando Pavolini e le sue Brigate nere.113 Aggiunse, senza convinzione, che sarebbe «andato un’ultima volta dal popolo».114 Il 18 aprile, senza consultare gli alleati nazisti, irritati da quel proposito,115 partì per la sua ultima visita a Milano (sebbene, data la sorte toccata al suo cadavere, forse quel viaggio potrebbe più correttamente essere definito la sua penultima presenza nella città). A Milano, in mancanza di una sede più appropriata, si stabilì nella prefettura dove sopravviveva una certa parvenza di governo. Ormai l’insonnia si era impadronita di lui. Come in altre occasioni della sua vita, Mussolini era vittima dei propri nervi e, indifferente al mondo circostante, non riusciva quasi più a mangiare.116 Anche se poteva ancora affermare meccanicamente che la guerra era «una grande tragedia» che poteva durare non cinque, ma piuttosto sei, sette o otto atti,117 aveva accettato da un pezzo l’idea che tutto era perduto. Con questa convinzione iniziò l’ultima settimana della sua vita, ridotto al ruolo di sonnambulo politico.

Dal settembre 1943 aveva parlato, ogni tanto, dell’eroica ultima resistenza che il suo regime avrebbe opposto se l’esito della guerra fosse stato contrario al nazifascismo. Nel febbraio 1945 si era chiesto se Trieste, con la sua antica reputazione di ricompensa per il nazionalismo italiano durante la prima guerra mondiale, ultima cittadella dell’italianità contro un mare di slavi (e di tedeschi), sarebbe stata il luogo della sua resistenza estrema. Ma i nazisti, inclini a credere che Trieste fosse tornata a fare parte del Reich, lo vietarono.118 Fu così che la sua scelta cadde sulla Valtellina, valle alpina al confine con quella Svizzera in cui il giovane Mussolini era emigrato due volte, abbastanza vicina a Milano ma per il resto priva di qualsiasi passato nazionale degno di fama. Come Mussolini disse a Graziani, altra persona immancabilmente pronta ad apprezzare ciò che udiva, «il fascismo doveva cadere eroicamente».119

In realtà, i piani per un serio sforzo militare in Valtellina non esistevano120 e il Duce non aveva alcuna intenzione di programmare una grandiosa conclusione della propria vita. Come commentò Spampanato: «Si parla di resistere, ma come, ma dove, non si capisce».121 Mussolini non arginò la confusione. Viceversa, il 24 aprile ammise con un certo sollievo: «Non ci sono ordini. Non posso dare più ordini». C’è un tempo nel percorso degli uomini, dichiarò, in cui si può solo essere spettatori. I suoi amici si dovevano concentrare sul ricordo di ciò che avevano fatto e non dolersi di ciò che era in arrivo.122 Nell’udire queste parole, Spampanato, a quanto racconta, s’inchinò a baciare la mano del suo capo.123

Simili momenti di pietà formale erano passeggeri. Ancora una volta Mussolini non rinunciò all’opportunità di dare la colpa ad altri. I tedeschi, disse a chi voleva ascoltarlo, l’avevano tradito come altre volte in passato,124 lasciando intendere che, in qualche modo, lui non aveva voluto l’alleanza con il nazismo né la guerra. O forse la responsabilità era al contempo dei tedeschi e del popolo italiano? Tutti lo avevano ingannato.125

Nel frattempo Mussolini tentò di prendere contatto con la Resistenza antifascista perché era decisamente pronto a parlare con i rappresentanti del Partito socialista, di cui aveva fatto parte prima della guerra del 1915-18. La speranza di un ultimo negoziato in cui mercanteggiare con successo con i rivali stentava ad abbandonare la sua mente. Fu stabilito un incontro alle ore 15.00 del 25 aprile 1945 nel palazzo del cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano.126 Questi, patriota e anticomunista, si era distinto nella gerarchia cattolica per la sua approvazione del regime di Mussolini. Aveva elogiato l’organizzazione giovanile dei Balilla, perché assicurava «un’educazione sana, cristiana e italiana».127 Sosteneva che la marcia su Roma aveva salvato la nazione dal bolscevismo e aperto la via ai Patti Lateranensi, la conciliazione firmata nel 1929 tra la Chiesa e lo Stato.128 Aveva celebrato la guerra imperiale fascista come l’opportunità di aprire le porte dell’Etiopia al cattolicesimo e alla civiltà romana.129 Non più tardi del 1937 Schuster aveva benedetto un’assemblea della Scuola di mistica fascista Sandro Mussolini, battezzata pomposamente con il nome del figlio del cattolico Arnaldo.130 Solo la svolta del regime verso un dichiarato razzismo, nel 1938, aveva costretto Schuster a dubitare della superiorità del fascismo sulle altre ideologie del peccaminoso mondo moderno.131 Sperando, a ragione, in un’accoglienza rassicurante, Mussolini si presentò puntualmente al palazzo vescovile. I capi della Resistenza invece erano in ritardo. Il cardinale e il Duce ebbero un’ora di tempo per conversare.

Schuster lasciò una relazione straordinariamente rivelatrice sull’ultimo incontro di Mussolini con un esponente della Chiesa cattolica romana.132 Rammentava di aver accolto il Duce ringraziandolo per il suo sacrificio e la sua disponibilità a passare «una vita di espiazione in prigione, in esilio, pur di salvare il resto d’Italia dalla estrema rovina», parole che in realtà possono aver reso più profonda la depressione di Mussolini.133 La Chiesa, aggiunse Schuster, non avrebbe mai dimenticato il servizio reso dal Duce con la firma dei Patti Lateranensi. Era un gran peccato che Mussolini fosse stato servito così male dai gerarchi del partito (il cardinale era un vecchio nemico del fascista radicale Roberto Farinacci134 e nel 1931 aveva messo in guardia Arnaldo contro l’empietà di quell’uomo).135 Dopo questa sequela di commenti iniziali, il cardinale si accorse che il suo ospite era demoralizzato e parlava poco. Come si addiceva a un caritatevole uomo di chiesa, offrì a Mussolini un bicchierino di rosolio e un biscotto. Poiché la conversazione procedeva a fatica, Schuster chiese al Duce se aveva visto la sua pubblicazione più recente, la vita di san Benedetto. Mussolini dovette confessare di non aver letto quell’opera pregevole. Il cardinale, sempre attento, consegnò al Duce quella che, a quanto disse, era la sua ultimissima copia, ripetendo con insistenza che quel libro l’avrebbe aiutato a vedere «il suo calvario come l’espiazione delle sue colpe innanzi a Dio». Con un atteggiamento che Schuster interpretò come di gratitudine, Mussolini, di nuovo senza parole, gli strinse le mani.136

Il tema di san Benedetto permise alla conversazione di soffermarsi sul triste fato di Montecassino e dell’abbazia in cui il santo aveva incontrato il re longobardo Totila. Il cardinale e il Duce sapevano che la famosa abbazia benedettina era stata ridotta in macerie dall’avanzata anglo-americana (Schuster non aveva mai revocato la propria condanna dei bombardamenti alleati).137 Nella sensazione fervidamente condivisa della malvagità altrui, Schuster, sempre più impegnato nel tentativo di salvare l’anima immortale di Mussolini, rievocò l’episodio secondo cui un sacerdote di Ponza, l’isola dove il Duce era stato brevemente confinato nell’agosto 1943, era riuscito in qualche modo a «ravvivare» il senso religioso di Mussolini. Questi, ancora a disagio sotto il fuoco di fila dialettico del cardinale e il suo tentativo di sondarne i pensieri più segreti, rispose prudentemente che «meditò assai» su una Vita di Cristo che gli era stata donata allora. Schuster non si spinse oltre su quell’argomento ma, in modo significativamente incidentale, colse l’occasione per rammentare al dittatore caduto la storia secondo cui Napoleone a Sant’Elena aveva trovato Dio.

Non fosse che per sfuggire all’insistente sondaggio dello stato della sua anima138 e a quelle terrificanti previsioni sul suo fato imminente di prigioniero ed esule, Mussolini disse che il giorno dopo avrebbe sciolto le forze armate della RSI e si sarebbe ritirato con 3000 uomini in Valtellina per un breve, ultimo combattimento. Poi si sarebbe arreso. Il cardinale interruppe questo discorso con il pungente commento che Mussolini sarebbe riuscito a raccogliere al massimo soltanto 300 uomini disposti a seguirlo e il Duce ammise con tristezza che quella valutazione era probabilmente esatta. Rendendosi conto di aver sferrato un altro colpo alla declinante fiducia di Mussolini in se stesso, il cardinale riportò il discorso sulle questioni religiose, interrogando l’ospite sul rito ambrosiano. Quindi si dichiarò stupito di scoprire che una persona responsabile dei destini della Chiesa italiana non conoscesse nel dettaglio questo tema fondamentale. Capendo che il suo atteggiamento stava creando ulteriore imbarazzo tra loro due, Schuster passò a un argomento più sereno, dichiarando la propria opinione secondo cui la Chiesa ortodossa orientale non avrebbe mai dovuto essere confusa con «la vera Chiesa di Cristo», cioè la Chiesa cattolica.139

L’inizio di una discussione che prometteva di trovare due uomini anziani d’accordo sulle colpe degli slavi e dei comunisti fu finalmente interrotto dall’arrivo dei negoziatori della Resistenza. Davanti a loro Schuster tacque con discrezione, ma non mancò di sentire Mussolini affermare che credeva soltanto nella storia antica, poiché la versione moderna era troppo distorta dalla «passione». Ricordava pure il Duce lamentarsi del fatto che i tedeschi «ci hanno sempre trattati come dei servi, ed alla fine mi hanno tradito». Alla fine dell’incontro, quando Mussolini si preparava a uscire, il cardinale gli consegnò nuovamente l’ultima copia della sua Storia di san Benedetto e dei suoi tempi, per timore che il Duce nella fretta e nella confusione dimenticasse di prendere con sé quel dono prezioso.140

Qualunque cosa avesse pensato sui tentativi del cardinale di catturare e salvare la sua anima, Mussolini cambiò di nuovo direzione. Praticamente non negoziò con il portavoce dell’antifascismo, insistendo invece sui crimini dei tedeschi. Era giunta la notizia che il generale delle SS Karl Wolff aveva accettato di porre fine alle ostilità contro le forze alleate alle ore 17. Con questa prospettiva imminente, la discussione cessò, ma Mussolini promise ai rappresentanti della Resistenza che avrebbe dato loro ulteriori notizie nel giro di un’ora. Invece, appena tornato alla prefettura, si preparò a fuggire con il suo entourage a Como, città più vicina alla frontiera svizzera. Fu un «si salvi chi può» non privo di somiglianze con il vergognoso comportamento del governo reale dopo l’8 settembre 1943, quando Vittorio Emanuele III e Badoglio avevano abbandonato Roma e il popolo italiano alla mercé dell’invasione tedesca e di quei fascisti che avevano scelto di stare con la RSI.

Durante le trentasei ore a Como la già sbrindellata autorità della Repubblica di Salò si sgretolò. In quel momento di crisi definitiva Mussolini e i suoi consiglieri non seppero decidere se recarsi in Valtellina o affidarsi alla compassione degli svizzeri. La mattina del 27 aprile, prima dell’alba, avanzarono lungo la riva occidentale del lago di Como, ma non si diressero né verso il tanto esaltato ridotto fascista né verso il confine. Rachele e i figli piccoli furono abbandonati a Como. Mussolini mandò alla moglie un’ultima, patetica lettera, in cui diceva: «Ti chiedo perdono di tutto il male che involontariamente ti ho fatto. Ma tu sai che sei stata per me l’unica donna che ho veramente amato. Te lo giuro davanti a Dio e al nostro Bruno in questo momento supremo».141

Malgrado le dichiarazioni di amore eterno per Rachele, nel convoglio c’erano Claretta Petacci e il suo scapestrato fratello Marcello (grossolanamente camuffato da console di Spagna) con la moglie.142 Diversi altri fascisti repubblichini, tra cui Pavolini, partirono da Como insieme a loro. Era presente anche Nicola Bombacci, costante compagno del Duce in quegli ultimi giorni. Si erano conosciuti nel 1910, quando Bombacci era un giornalista socialista a Cesena, dove Mussolini era impiegato a quel tempo. Bombacci si era dichiarato contrario alla prima guerra mondiale e, nel gennaio 1921, si era iscritto al neonato Partito comunista. Tuttavia, si era gradualmente avvicinato alla dittatura fascista, difendendo gli interessi della nazione durante la conquista dell’Etiopia e ricevendo sussidi statali per la sua attività di giornalista.143 Dopo il settembre 1943 si assicurò un posto nell’entourage di Mussolini e frequentò regolarmente villa Feltrinelli. Acquisì inoltre una certa rilevanza pubblica grazie alla sua insistenza nell’affermare che la nuova forma di fascismo era sincera nel proprio accreditarsi come una versione alternativa della socializzazione.144 In quel periodo turbolento divenne quasi un amico per il Duce,145 che aveva ripetutamente insistito nel dire che non voleva, e non poteva, aver bisogno di amicizia. La presenza di Bombacci in quello che sarebbe stato l’ultimo atto del fascismo rappresentava la sopravvivenza di un Mussolini le cui radici nei conflitti sociali e negli odi della Romagna non erano mai state completamente tagliate.

Tuttavia, in quel convoglio risiedeva un altro simbolismo meno facile da spiegare da parte dei nostalgici post 1945. L’autocolonna dei fascisti fu rinforzata da soldati nazisti in ritirata che, al comando del tenente Schallmeyer della Luftwaffe, speravano di rientrare in qualche modo entro i confini tedeschi. Per nascondersi meglio, Mussolini decise di viaggiare, lui solo, con gli alleati di un tempo. Indossò uno dei loro pastrani, ricevette un elmetto tedesco per nascondere i lineamenti fin troppo conosciuti e, in fondo al cassone di un autocarro, si avvolse in una coperta per proteggersi dall’aria di quella fredda primavera. I partigiani erano attivi in tutto il territorio tra il lago di Como e la Svizzera. La sera del 26 aprile, sotto una pioggia scrosciante, la 52a brigata Garibaldi aveva bloccato il lungolago appena a nord di un paese che, per ironia della sorte, portava il nome di Musso, e a sud del comune un po’ più grande di Dongo. A Puncett, dove il pendio verso il lago si faceva più ripido, i partigiani avevano sbarrato la strada con un grosso tronco, massi e altre macerie, e stavano in attesa.146 Diciotto mesi prima, quando si era stabilito per la prima volta a Gargnano, Mussolini aveva commentato in tono acido: «I laghi sono un compromesso tra il fiume e il mare: e io non amo i compromessi».147 Aveva letto correttamente gli auspici. Era destinato a morire presso un lago.

Alle 6.30 del mattino dopo, tra i partigiani corse la notizia che si stava avvicinando una colonna nemica. Dopo un breve scontro a fuoco in cui una pallottola vagante nazista uccise un povero stradino tranquillamente intento al proprio lavoro, i tedeschi chiesero di parlamentare.148 In un primo tempo Schallmeyer pensò di aprirsi il passaggio con la forza, ma i partigiani avevano mandato a chiamare rinforzi e furono ben presto informati che Bombacci, Coppola, Mezzasoma e Romano avevano tentato senza successo di mettersi sotto la protezione del parroco di Musso. Nel primo pomeriggio, quando Schallmeyer accettò di consegnare tutti gli italiani presenti nel convoglio, i partigiani avevano già individuato Francesco Barracu, fanatico sottosegretario della RSI, e sospettavano che ci fossero anche altri fascisti.149

Alle 15 la colonna cominciò a muoversi lentamente perché, per poter passare, ogni viaggiatore doveva presentare i documenti personali. Fu allora che un certo Giuseppe Negri chiamò da parte il comandante partigiano Urbano Lazzaro e, usando il dialetto locale che frustrava le pretese fasciste di rendere omogenea la nazione, disse: «Ghe chi el crapun!». Fece notare a Lazzaro, dapprima incredulo, una figura rannicchiata in fondo al cassone dell’autocarro. I tedeschi tentarono di far credere che quell’uomo fosse un loro commilitone ubriaco, ma Lazzaro, sollevata la coperta, capì subito chi aveva di fronte. «Camerata» cominciò a dire usando l’abituale appellativo fascista. «Eccellenza, Cavalier Benito Mussolini.» Solo dopo il secondo titolo ci fu una risposta. Lazzaro tolse l’elmetto all’uomo e a quel punto il Duce fu scoperto definitivamente.150 «Il suo volto è cereo e in quello sguardo fisso, ma assente, leggo un’estrema stanchezza, non paura» fu in seguito il ricordo di Lazzaro. «Mussolini sembra non avere più volontà, spiritualmente morto.»151 Una volta disarmato – aveva una mitraglietta e una pistola ma non tentò di usarle – Mussolini fu ufficialmente arrestato e condotto al municipio di Dongo. Passò la sua ultima notte nella caserma locale. La visita definitiva delle Furie nella sua vita sarebbe stata più prosaica dei vari scenari drammatici che il carismatico Duce aveva pronosticato.

Anche altri prigionieri furono portati a Dongo: i Petacci, che non parlavano lo spagnolo, non erano riusciti a far valere la loro pretesa di immunità diplomatica. Pavolini aveva tentato la fuga, ma era stato ripreso, ferito da schegge di granata e terrorizzato dal proprio destino.152 Quella sera, a Milano, Sandro Pertini, capo del Comitato di liberazione nazionale (CLN), presidente della Repubblica italiana dal 1978 al 1985, trasmise la notizia che il Duce era stato catturato. Egli non tentò minimamente di nascondere la sua convinzione, condivisa dai colleghi del CLN, che Mussolini dovesse essere abbattuto «come un cane tignoso».153

Una controversia di cattivo gusto aleggia sulle ultime ventiquattr’ore della vita di Mussolini. Uno dei motivi del contendere è la sorte toccata alla borsa di cuoio piena di documenti che il Duce aveva con sé quando fu fermato dalla 52a brigata Garibaldi (non risulta che qualcuno si sia chiesto se contenesse una copia letta dell’opera del cardinale Schuster La storia di san Benedetto e dei suoi tempi). Si è discusso invece se contenesse documenti di Stato trafugati dal Duce fino all’ultimo istante. Alcuni hanno insistito sulla presenza di lettere compromettenti di Churchill e altri che rifiutavano qualsiasi intesa postbellica con il fascismo.154 Questa ipotesi era sembrata assurda155 a tutti fuorché a coloro che amano la teoria delle cospirazioni, confortata o meno dall’esistenza di prove. Altri hanno messo in discussione l’ora esatta e la natura dei fatti del 27-28 aprile. La storia ufficiale affermava che Mussolini e la Petacci furono fucilati nel pomeriggio del 28 aprile nei pressi di via XXIV Maggio (per ironia della sorte, proprio il giorno del 1915 in cui l’Italia aveva deciso di partecipare alla prima guerra mondiale), appena fuori della frazione di Giulino di Mezzegra. I due amanti erano stati riuniti quella mattina in una vicina casa di contadini usata dai partigiani. Poco dopo erano arrivati da Milano alcuni comunisti con l’ordine di fare giustizia sommaria del Duce. In un primo momento Mussolini credette che Walter Audisio, il comandante del plotone d’esecuzione, fosse venuto a liberare lui e la Petacci, la quale salì con difficoltà sulla modesta Fiat 1100 di Audisio, impacciata com’era dalle scarpe di pelle nera dai tacchi altissimi. Ma quando fu scaricato davanti al cancello di villa Belmonte, luogo designato per l’esecuzione, il Duce «obbedì docile come un agnello».156 Allorché l’arma, al primo sparo, si inceppò, Mussolini – a detta di Audisio – tremò di paura, «la paura animale davanti all’ineluttabile».157 Infine cadde, crivellato dai proiettili.

Dell’episodio esistono parecchie versioni discordanti. Alcune affermano che i due furono in realtà uccisi prima, forse prima di mezzogiorno, e in circostanze diverse, e che erano già cadaveri quando furono colpiti dai proiettili a Giulino di Mezzegra, in seguito a una simulata esecuzione congiunta. Il politico e giornalista neofascista Giorgio Pisanò ha insistito in modo particolare sul fatto che i due morirono separatamente e che i comunisti e i loro amici partigiani distorsero la verità, secondo quello che egli considera il tipico e scellerato stile comunista.158 Era stata avanzata la teoria romantica secondo cui Mussolini si era lanciato in difesa di Claretta, che stava per essere seviziata, e, valoroso cavaliere fino all’ultimo istante, era rimasto ucciso nella mischia che ne era seguita.159 Stando a questa versione, Claretta fu uccisa più tardi, non secondo un programma ma perché non c’erano alternative. I principali punti deboli di questa ipotesi sono l’assenza di conferme dirette e il fatto che i suoi sostenitori più convinti hanno tutti i motivi di perorare una fine eroica per il Duce.

Vale la pena sottolineare che, in quei giorni, la morte di Mussolini non fu l’unica a turbare l’Italia. A Dongo i partigiani avevano appena giustiziato 15 persone catturate a Puncett o nei dintorni, tra cui Pavolini, Bombacci e Paolo Zerbino (ultimo ministro dell’Interno della RSI). Quando i cadaveri vennero trasportati a Milano per essere esposti in pubblico, a essi furono aggiunti quelli di altri otto camerati, tra cui Achille Starace, segretario del Partito fascista negli anni Trenta. Un calcolo informale delle vittime del fascismo – escluse quelle causate da due decenni di tirannia e da cinque anni di guerra –, iniziato nel corso del conflitto e continuato per parecchi mesi dopo la sua fine, stabilì un numero complessivo di circa 12.000 persone.160 La guerra, in cui Mussolini aveva così avventatamente impegnato l’Italia nel giugno 1940, sia pure con il sostegno del gruppo dirigente, era costata al paese oltre 400.000 morti, ai quali vanno aggiunti i nemici uccisi o resi invalidi dagli italiani durante lo stesso conflitto, nelle campagne «imperiali» di Libia e di Etiopia e nella guerra civile spagnola. In un contesto ancora più ampio si colloca il complesso di crudeli vicende connesse con la seconda guerra mondiale: i casi registrati dalla storia con i terribili nomi di «Auschwitz» e, dopo l’agosto 1945, di «Hiroshima» rappresentano la caduta dell’umanità in un abisso quasi senza fondo.

Consapevole di questi fatti, lo storico non rimpiange la morte di Benito Mussolini né vuole magnificare le circostanze che la circondano o esagerarne l’unicità. L’evidenza dice che, psicologicamente, moralmente e politicamente, il dittatore era morto molto prima che la sua vita fosse cancellata da quegli ultimi, definitivi spari. Tuttavia, una parte della macabra scena merita una riflessione. Nella fine di Mussolini, tanto a Mezzegra quanto nei successivi fatti di Milano narrati più avanti in questo libro, c’era molto di «normale» e di «tradizionale». Il dittatore fallito, che fuggiva chissà dove, era stato catturato come un topo dal suo popolo e da esso ucciso come punizione per i suoi crimini. Quanto diverso fu il destino di Hitler, che si suicidò tra le bombe e le fiamme nel suo bunker, nascosto sotto la città di Berlino, distante dalle terribili sofferenze dei cittadini e dagli sforzi penosi di coloro che la stavano conquistando. E diversa fu anche la fine di Stalin, morto a seguito di un attacco cardiaco nella sua dacia, fonte di terrore anche dopo la morte tanto per il popolo quanto per i suoi tirapiedi. Questi ultimi si raccolsero inquieti intorno al suo capezzale per cercare di capire se il loro capo fosse veramente defunto e se fosse preferibile darne notizia subito o in un secondo tempo. L’ultimo atto della vita di Hitler e di Stalin è intrecciato al tragico fallimento di un progetto di modernità (e all’acquisizione dello status storico di «uomini grandi e malvagi»).

Così non è della morte di Benito Mussolini, sebbene anche il fascismo si sia reso colpevole, da parte sua, di una grande quantità di sangue versato. Nella sua ascesa al potere e durante il consolidamento del regime fascista, attraverso le sue politiche interne spesso retrograde, in Libia e in Etiopia, nel suo intervento nella guerra civile spagnola e poi nella propria, particolare seconda guerra mondiale, la dittatura italiana di Mussolini si calcola abbia mandato prematuramente a morire almeno un milione di persone, e probabilmente di più. È una cifra crudele e garantisce il carattere consapevolmente antifascista di questa biografia. Devo però ammettere che, nell’elenco dei crimini, delle follie e delle tragedie dell’umanità che tanto si è allungato nel corso del Novecento, Mussolini occupa una posizione relativamente secondaria: egli non fu nulla di più del minore dei tiranni assassini che deturparono il volto dell’Europa tra le due guerre. Fu l’unico che rispecchiò veramente la sua nazione, la sua classe e il suo genere, mentre Stalin e Hitler possono essergli accostati su un piano «strutturalistico» piuttosto che «intenzionalistico», per usare una terminologia propria della storiografia. Con ogni probabilità il volere di Stalin e di Hitler – come quello di Mussolini – fu spesso costretto «in gabbia, in ceppi, in carcere»161 dalle società in cui operarono. Il mio compito, però, è quello di scrivere la biografia del Duce, non quella dei suoi due più illustri colleghi. Devo pertanto raccontare la storia dall’inizio, dalla nascita relativamente umile di un bambino in un’Italia che esisteva soltanto da una generazione, ponendomi questa domanda: quanto era diverso dagli altri il ragazzo Benito Mussolini?