Durante il Ventennio Mussolini dichiarò talvolta di essere «figlio dell’ultima civiltà contadina».1 Questa orgogliosa rivendicazione era vera solo in parte e sarebbe stata più giustificata se fatta da Rachele e dalla sua famiglia.2 Certamente, nel gennaio 1910, l’ultima cosa che Mussolini aveva in mente era di legarsi organicamente alla terra. Tornato a Forlì era più che altro interessato a far parlare di sé come intellettuale, promuovendo tanto i suoi ideali rivoluzionari quanto la sua persona. Non sembra che esista una particolare necessità di separare questi due aspetti, e gli storici che tentano di farlo spesso peccano di anacronismo, perché cercano di presentare con eccessivo anticipo un capo del fascismo privo di contraddizioni (a patto che sia mai esistito). Nel 1910 le prospettive immaginate da Mussolini rimanevano eterogenee. Per esempio, prima di assumere la direzione della «Lotta di Classe», aveva presentato senza successo una domanda di assunzione al «Resto del Carlino», il famoso quotidiano liberalconservatore di Bologna,3 che presto avrebbe disinvoltamente accusato di essere «il magazzino delle bugie».4 Se a quel tempo fosse stato assunto, forse avrebbe trovato motivi validi per moderare le proprie idee socialiste. A Forlì, invece, era facile identificarsi con la rivoluzione; in quell’ambiente esistevano poche alternative per un giovane ambizioso della sua classe e della sua preparazione culturale.

Benito Mussolini, direttore editoriale della «Lotta di Classe» e di conseguenza principale esponente socialista di Forlì, non aveva ancora ventisette anni e ribolliva di energia politica, intellettuale e sessuale. Persone a lui vicine ricordavano che usava andare a letto alle tre o alle quattro del mattino, ma alle otto era sempre presente nella piazza cittadina ad attendere con impazienza l’arrivo dei giornali dal vasto mondo oltre i confini della città. Essere direttore responsabile di un giornale di quattro pagine – in realtà scriverlo per intero, essendone l’unico corrispondente affidabile – e dirigere il gruppo socialista locale non bastava a occupare a tempo pieno un uomo come lui. Mussolini passava buona parte della giornata presso l’edicola dei fratelli Damerini, stimati procacciatori di giornali e di «tutti i volumi nuovi d’arte, di scienza, di economia e di filosofia». Ogni volta che una nuova opera veniva esposta al pubblico, Mussolini la divorava immediatamente.5 Alle undici di sera occupava, non senza particolare ostentazione, il suo posto nel solito caffè della città e cominciava a redigere gli articoli che lo stavano rendendo famoso per l’intransigenza degli attacchi contro i misfatti altrui.6 La gente iniziava ad accorgersi che Mussolini era un critico attento, che poteva mettere in soggezione chi si esponeva al suo sguardo truce e autoritario, e le cui labbra carnose – così almeno affermavano i suoi ammiratori – esprimevano sicurezza ed energia. Nell’insieme, tutti concordavano sul fatto che fosse caratterizzato da «una straordinaria maschiezza». Presto si sarebbe concluso che Mussolini era un leader naturale, ma era chiaro fin da allora che possedeva «una straordinaria tempestività e fenomenale elasticità di giudizio», e che era «un giornalista di razza».7 A detta di alcuni era un Duce «in fieri»,8 benché a questa iperbole si possa contrapporre l’ipotesi altrettanto verosimile che all’epoca egli fosse nient’altro che un ambizioso provinciale dal destino ancora incerto.

In un primo tempo, dopo il ritorno dal Trentino, fu soltanto una figura marginale nel mondo del socialismo9 e della politica romagnoli. A Forlì il movimento repubblicano era forte almeno quanto quello socialista (e Mussolini dovette presto riconoscere l’influenza di un politico che egli definiva «il duce dei repubblicani» locali).10 In queste condizioni di relativo anonimato e di debolezza, il compito di Mussolini era combattere su tutti i fronti possibili: contro la borghesia e l’ordine costituito, naturalmente, ma anche contro i repubblicani e, per di più, contro chiunque nel movimento socialista dubitasse dei suoi ideali e dei suoi metodi. L’anticlericalismo poteva costituire parimenti un obiettivo degno di essere perseguito. Firmandosi modestamente «Vero Eretico», egli non tardò a informare i suoi lettori del caso deplorevole di Francisco Ferrer, libero pensatore giustiziato alcuni mesi addietro in Spagna dove, secondo Mussolini, l’Inquisizione continuava a regnare sovrana.11 Nel febbraio 1910 poté inoltre esultare per una vittoria legale, quando una causa in corso contro di lui dal dicembre dell’anno prima venne archiviata. Momentaneamente disoccupato, aveva organizzato una turbolenta dimostrazione in una chiesa della città, dopo l’annuncio che il battagliero sacerdote Agostino Gemelli intendeva tenere un’omelia sul carattere soprannaturale delle guarigioni di Lourdes.12

L’anticlericalismo, però, cominciava a non essere più di moda e persino Mussolini dovette riconoscerlo. I suoi articoli di fondo si sarebbero dovuti concentrare su altre questioni. Un capo socialista, per esempio, aveva il compito di registrare la storia del partito, ragion per cui dovette scrivere un dolente necrologio di Andrea Costa. Pochi mesi dopo, onorando le proprie radici, fece lo stesso per suo padre;13 corse la romantica voce che avesse giurato sulla tomba di Alessandro fedeltà eterna al socialismo.14

L’attività di giornalista, però, era anche fonte di scontento. In un articolo redatto meno di un mese dopo aver assunto la direzione del giornale, Mussolini si pronunciò con sarcasmo sul livello culturale medio di Forlì, con particolare riferimento ai gruppi socialisti. Entrando nella sede, ci si doveva aspettare di vedere rumorosi compagni intenti a giocare a briscola sotto l’immancabile, e presumibilmente corrucciato, ritratto di Marx. La città non aveva neppure una libreria decente, lamentava Benito, nonostante la sua frequentazione dell’edicola Damerini; per il momento si era costretti a frugare tra libri esposti disordinatamente in mezzo alle cartoline e ai profumi. Comunque, a che servivano i libri a Forlì? meditava amareggiato. Come si poteva discuterne con profitto? I cittadini non leggevano giornali seri; si contavano quattro abbonamenti alla «Voce» e nessuno a «Pagine libere», il foglio dei sindacalisti. La città era un luogo in cui «il popolo si smidolla fra bettole, ballo, postriboli e sport». L’autore concludeva che «gli interessi intellettuali passano a Forlì in ultima linea».15 Il Mussolini che ogni pomeriggio cercava di farsi notare nella piazza era del tutto scontento. Come trovare la strada verso una vita di maggiori soddisfazioni?

Emergere, rafforzare la retorica rivoluzionaria, farsi conoscere non solo a Forlì, ma in tutta la regione e oltre, fu la risposta. L’esperienza acquisita poteva aiutarlo a oltrepassare i confini della Romagna. Nella sua prima partecipazione come delegato al Congresso nazionale del partito a Milano, Mussolini si sforzò di presentarsi, sperando di attirare l’attenzione, come messaggero regionale della fazione che proponeva «intransigenza assoluta».16 Lo spirito romagnolo si manifestò nei panni di un giovane uomo pronto a dichiarare, senza mezzi termini, che «la Camera italiana è profondamente, irrimediabilmente corrotta»17 e a condannare i riformisti, ovunque fossero. Userà gli stessi toni aggressivi quando uno dei loro leader, Leonida Bissolati, nel marzo 1911 accetterà di incontrare Vittorio Emanuele al Quirinale, dandogli consigli sulla composizione del nuovo governo.18 Mussolini fu poi spietato negli attacchi a illustri colleghi del suo partito, per esempio gli avvocati, uomini che, al pari degli ufficiali dell’esercito e dei preti, erano – scrisse con ardita metafora – «le locuste che si gettano sul corpo della giovane nazione e ne spremono le migliori energie». Aggiungendo che non ci si può fidare degli avvocati e dei preti perché, per vivere, devono mentire, concluse che costoro non avrebbero mai potuto essere veri socialisti.19 Nemmeno i massoni erano buoni compagni e la loro onnipresenza a Milano faceva della vicina Ravenna una sede migliore per un congresso socialista.20 L’unico limite del socialismo contemporaneo, aggiunse, stava nei suoi sostenitori, non nelle sue idee (Mussolini era destinato a ritornare più volte sul tema dell’inadeguatezza umana). I veri socialisti potevano capire immediatamente che la lotta tra la borghesia e il proletariato era viscerale e avrebbe dovuto raggiungere quanto prima la sua espressione più alta: la «rivoluzione totale».21

Nemmeno Mussolini, malgrado tutto il suo disprezzo per la vita di provincia, poté evitare di essere banale. Il suo giornale, per esempio, pubblicò un prolisso servizio (probabilmente opera dello stesso Mussolini) sulla visita che quest’ultimo fece nel 1910 a Predappio, certamente su invito, ma anche per incitare la propria base locale. Parlò a lungo sul tema «Il movimento operaio e socialista». Fu una gran giornata. Il genio di Mussolini aveva brillato e Predappio poteva essere fiera di lui. Si era riunito un «pubblico addirittura imponente composto di ambo i sessi e di tutte le gradazioni sociali». I presenti non furono delusi. L’oratore, «il nome … così caro al nostro proletariato», superò ogni aspettativa con un discorso di quasi due ore: «Con parola convincente e smagliante, e con una vera foga oratoria, [seppe] incatenare l’attenzione del numeroso uditorio che spesso lo interruppe con irrefrenabili approvazioni. E lo salutò alla fine con uno scrosciante applauso durato parecchi minuti». L’evento, concluse l’entusiasta corrispondente, fu «una vera festa intellettuale». Tutti speravano che Benito Mussolini accettasse di tenere al più presto un altro discorso a Predappio.22

Venire idolatrato dalla popolazione della propria città doveva essere stato gratificante. Tuttavia, senza recidere i legami con la sua base – non lo fece mai del tutto –, Mussolini continuava a guardare fuori da Predappio e da Forlì, alla ricerca di spazi più vasti da conquistare. Potevano aprirsi prospettive nella direzione del giornale del partito, l’«Avanti!», il cui impatto era diminuito – lamentava Mussolini coniugando l’interesse politico a quello personale – forse a causa della faziosità e della debolezza direttiva. Dalle modeste pagine della sua «Lotta di Classe» egli cominciò a invocare una soluzione drastica per il quotidiano nazionale del partito: togliere il giornale da Roma, città che non aveva una vera classe operaia ed era parassitaria per definizione (qualunque cosa abbiano potuto dire i fascisti degli anni seguenti, l’anima del Duce non fu mai completamente romana). La cosiddetta «Città Eterna», dichiarò Mussolini esprimendo un’idea condivisa da tutti gli avversari del sistema liberale giolittiano, era una «città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati». Appena fuoriporta, osservò, le infelici famiglie dell’Agro Pontino sopravvivevano ancora miseramente in capanne di paglia, come esseri primitivi estranei all’Europa civilizzata.

Quindi, se non a Roma, dove? Forse a Milano, ma quella era la città dominata dalla Borsa e dai commerci. Firenze? La qualità dei suoi quotidiani era troppo scadente. No, la sede migliore per un giornale socialista era, superfluo dirlo, Bologna, capoluogo dell’Emilia-Romagna. Qui l’«Avanti!» poteva essere collocato «nel centro della vita proletaria nazionale … vicinissimo ancora alle terre rosse di Romagna che contano migliaia e migliaia di socialisti pronti a qualunque sacrificio».23 Se l’«Avanti!» fosse stato pubblicato a Bologna, rifletteva Mussolini, un giovane e aggressivo giornalista di Forlì – a cui era stato rifiutato un impiego nel giornale dell’establishment, «Il Resto del Carlino» – avrebbe ancora potuto farsi strada.

A quel punto, Mussolini stava accreditando se stesso come «l’estremista», il guerriero del socialismo romagnolo. Come rammentò non senza compiacimento nel maggio 1911 mentre riesaminava il suo lavoro in qualità di direttore della «Lotta di Classe», aveva combattuto con vigore non solo contro i repubblicani, ma anche contro i clericali, gli anarchici, i sindacalisti e la corrente principale dello stesso Partito socialista: «In questa libertà grande di critica è la mia piena giustificazione».24 Aveva aumentato la tiratura del giornale fino a venderne milleseicento copie, di cui «un migliaio circa» in abbonamento. Affermava con orgoglio che la maggior parte di quei lettori fedeli era formata da «veri lavoratori». Inoltre ogni domenica predicava il vangelo socialista a Forlì o nelle cittadine minori della provincia, in cui trovava con difficoltà le piazze e le sedi del partito, dopo aver arrancato su strade polverose.25 Pernottava spesso in modesti alberghetti; in uno di questi conobbe Leandro Arpinati, destinato a essere per un certo periodo il segretario del fascio di Bologna.26

Nel 1911 gli si doveva riconoscere di aver lavorato duramente e con efficacia. Amava la sua figlioletta e continuava a vivere con Rachele. Il suo incarico alla «Lotta di Classe» era già durato oltre la scadenza prevista al momento dell’impiego; la sua vita era improntata a quella gioia e a quelle promesse di felicità che erano mancate in passato. Forse era giunto anche il momento di smettere l’abituale asprezza nel trattare con il mondo, coltivando invece cordialità e senso dell’umorismo. Fu così che nel suo giornale raccontò l’amore dei romagnoli per la retorica, la violenza e il proprio campanile; essi rifiutavano l’emigrazione e sapevano soltanto che il loro paese occupava il centro del mondo.27 Forse voleva fare dell’ironia, ma l’articolo conteneva un messaggio ambiguo, in parte ostile, in parte amorevole e molto autobiografico. Mussolini si stava abituando a essere un uomo che contava a Forlì.

La sua prosa rimaneva brusca, sarcastica e plebea. Sorel, uomo che un tempo egli aveva ammirato ma la cui politica si era spostata a destra, veniva ora criticato come «questo pensionato frugatore di biblioteche», ammiratore segreto dell’Ancien Régime, nemico della repubblica, della democrazia e del socialismo francesi.28 Gli intellettuali che si erano uniti a Firenze e avevano costituito l’Associazione nazionalista italiana – e che presto sarebbero divenuti i suoi alleati cruciali nella causa fascista – erano i lacchè di «monarchia, esercito e guerra … tre parole, tre istituzioni, tre assurdi». Ammettendo il passato rapporto di amicizia con Prezzolini e i suoi colleghi della «Voce», che guardavano anch’essi con favore ai nazionalisti, Mussolini riconobbe di avere un tempo simpatizzato per il nazionalismo domestico e per l’idea di «un movimento democratico-culturale di miglioramento, di raccoglimento e di rinnovazione del popolo italiano». Ora non più; il suo socialismo era troppo solido per ulteriori tentennamenti.29 Nondimeno doveva riconoscere che c’erano posti peggiori dell’Italia, per esempio i lontani Stati Uniti, dove «la rapace e possente borghesia americana non conosce limiti, non ha gli scrupoli, le paure, le viltà della nostra borghesia. È violenta, assoluta, criminale. Se occorre si sporca le mani di sangue proletario. Non ha viscere umane. Vuole sfruttare e sfruttare».30 Né aveva rotto completamente i rapporti con Prezzolini. Nel marzo-aprile 1911 Mussolini chiese umilmente al direttore della «Voce» un anticipo sui suoi diritti d’autore per il saggio Il Trentino veduto da un socialista, che doveva essere pubblicato a Firenze sotto gli auspici di Prezzolini e con la sua revisione editoriale: la morte del padre, lamentava Mussolini, era stata causa di una momentanea difficoltà finanziaria.31 Ancora una volta, faceva capolino la possibilità che, da qualche parte sotto la superficie tempestosa della propria retorica, Mussolini avesse cara l’identità italiana e ponesse dei limiti alla dedizione al socialismo rivoluzionario e internazionalista.

Mussolini pilastro del Partito socialista? Mussolini patriota intellettuale? Mussolini uomo di grande fama? Ogni alternativa continuava a vivere nella sua mente. La sola prospettiva impossibile era quella di un Mussolini contento di sistemarsi in provincia. La sua affannosa ricerca di una linea ideologica estremista, e del credito che ne poteva derivare, non era cessata. Anche se dal punto di vista teorico minimizzava la valenza eretica di alcune sue iniziali prese di posizione, in realtà stava forzando la propria fede socialista verso il punto di rottura. Nell’aprile 1911, su sua iniziativa, il gruppo di Forlì si dichiarò autonomo e indipendente dall’organizzazione nazionale del partito. Mussolini pubblicò la difesa di questa decisione sotto il titolo caratteristico e sincero di Osare: «Non si tratta di innalzare una nuova bandiera politica, ma si tratta di salvare la vecchia bandiera socialista dalla profanazione di coloro che sotto le sue pieghe si erano raccolti». Essi tolleravano il compromesso e la corruzione dell’ideale; lui e il suo fascio, scriveva – forse usando per la prima volta questa parola, ma senza il suo significato definitivo – rappresentavano invece la purezza.32

Con questo passo verso lo scisma vero e proprio, Mussolini aveva anticipato i tempi (o forse li aveva soltanto rincorsi, poiché le posizioni della sezione di Forlì, con l’ipotesi di una repubblica socialista forlivese, potevano essere interpretate come ultracampanilistiche). Ben presto i suoi amici massimalisti si attivarono per farlo rientrare nei ranghi.33 Nell’estate del 1911 l’Italia stava affrontando importanti questioni interne ed estere e fu proprio il riflesso di questi eventi a rafforzare in Romagna la reputazione di Mussolini nel partito e a farne, nei diciotto mesi successivi, l’uomo di punta.

Gli anni 1911-12 rappresentarono uno spartiacque per l’Italia liberale giolittiana. La parte iniziale del XX secolo era stata positiva per un sistema politico che, dal 1898 al 1900, sotto la quasi dittatura del generale Luigi Pelloux, sembrava sull’orlo del collasso. L’assassinio del re Umberto I da parte di un emigrante anarchico rientrato dagli Stati Uniti non aveva avviato la reazione, ma piuttosto l’apertura del regime liberale verso i gruppi sociali emergenti. Sotto l’abile amministrazione di Giolitti (che fu primo ministro nei periodi 1903-05, 1906-09 e 1911 - marzo 1914) l’economia fu perlopiù fiorente, e i socialisti moderati come Turati ammisero che anche l’Italia era sede del «progresso». Nel «triangolo industriale» del Nord, comprendente le industrie di Torino, le banche di Milano e il porto di Genova, il paese stava raggiungendo rapidamente una modernità che in passato era stata privilegio di nazioni più ricche e potenti come la Gran Bretagna, la Germania e la Francia. In virtù di questo progresso, tanto quello sperato quanto quello reale, le celebrazioni nazionali programmate per il 1911, cinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, sembravano quasi giustificate. Il maestoso monumento a Vittorio Emanuele II, posto sotto il Campidoglio a rimarcare il retaggio della civiltà latina, fu inaugurato davanti a una folla plaudente. Nel marzo di quell’anno, anche Claudio Treves, direttore dell’«Avanti!», dichiarava, ma a denti stretti, la propria ammirazione verso quello che i veri socialisti deridevano come «il monumentissimo».34

Il malcontento di Treves esprimeva la consapevolezza che crescita economica e sviluppo sociale sono fenomeni univoci. Nel 1911 Giolitti, di nuovo primo ministro, affrontò una serie di questioni che minacciavano l’esistenza stessa dell’Italia in quanto nazione-Stato liberale. Tra le due parti del paese esisteva una frattura. Che cosa si doveva fare del Sud, che fino ad allora non aveva quasi conosciuto i benefici della crescita economica? E come provvedere alle altre numerose sacche di miseria e di «arretratezza»? In un panorama mondiale pericolosamente costituito da sistemi di alleanze sempre più strette in Europa e da un ostentato imperialismo fuori di essa, come si poteva salvaguardare o migliorare la posizione dell’Italia, ultima delle grandi potenze? Inoltre, che cosa si doveva o poteva fare per «nazionalizzare» il popolo italiano o, più precisamente, i popoli della penisola, ossia «delle Italie»? Come persuaderli che lo Stato italiano era anche il loro? E, soprattutto, come potevano i dissidenti – socialisti di ogni convinzione, cattolici, nazionalisti, intellettuali –, sempre più espliciti nei loro attacchi all’inadeguatezza o «corruzione» liberale, essere «conferiti» nel sistema esistente senza rivoluzione, guerra o tirannia?

Certamente Giolitti aveva una strategia ambiziosa per affrontare questi temi così importanti. All’estero progettò di impossessarsi della Tripolitania e della Cirenaica amministrate dalla Turchia; quei territori, a cui si sarebbe potuto dare l’antico nome di Libia, per quanto poveri fossero in realtà, avrebbero rassicurato i nazionalisti e incrementato il prestigio dell’Italia nel mondo. In patria il primo ministro combinò l’assistenza sociale (per esempio uno schema di assicurazione nazionalizzata) con un deciso allargamento dell’elettorato: alle elezioni del 1913, circa il 65 per cento dei cittadini italiani di sesso maschile ebbe il diritto di esprimere il proprio voto. Si trattava di una strategia all’apparenza perfetta, un liberalismo del tipo più lungimirante. All’atto pratico, però, si rivelò un disastro e segnò l’inizio dell’agonia dell’Italia liberale. Tra coloro che si rallegrarono dei guai di Giolitti, e acquisirono al tempo stesso un nuovo rilievo a livello nazionale, c’era Benito Mussolini.

Alcuni socialisti furono effettivamente tentati dalla formula del governo: i casi di Bissolati e Turati sono esemplari. Erano figure di rilievo nazionale che, al pari dello stesso Giolitti, ragionavano in una prospettiva nazionale. Dalla grande massa dei membri del partito la situazione era letta in modo diverso, ma non appariva meno drammatica, pur nel suo significato locale. In Romagna, per esempio, la relativa crescita economica del decennio giolittiano aveva inasprito il carattere della lotta di classe. La modernizzazione dell’agricoltura semplificava le differenze, un tempo intricate, tra le varie tipologie di contadini: proprietari terrieri grandi e piccoli, mezzadri con un tipo o un altro di affittanza, braccianti giornalieri. La vita nell’hinterland di Bologna e di Forlì si trasformava sempre più in un conflitto tra ricchi latifondisti e contadini che lottavano per la sopravvivenza. Non di rado la terra finiva nelle mani di società commerciali i cui anonimi proprietari vivevano in altre parti del paese, a Roma o a Milano, e i cui interessi erano curati da direttori stipendiati, tendenzialmente più rapaci e crudeli dei loro padroni. Per contro, il grande sindacato agricolo, la Federterra, continuava a crescere, reclutando nuovi membri nella classe contadina più povera, i salariati della terra. Anche i mezzadri, spesso in relativo declino economico a mano a mano che le pressioni del sistema capitalistico gravavano su di loro, erano perlopiù socialisti, così come lo erano numerosi operai delle città e gli intellettuali tipo Mussolini. Insieme formavano un’irrequieta coalizione.

Il radicalismo degli intellettuali e la fede socialista del mondo contadino furono momentaneamente rafforzati dal fatto che i proprietari terrieri, al pari degli industriali (che nel 1910 avevano creato la Confindustria, l’organizzazione di categoria dei datori di lavoro),35 stavano dando vita rapidamente ad associazioni finalizzate a tutelare ed espandere i loro interessi. Nell’aprile 1911 il Congresso nazionale agrario di Bologna fu sollecitato a respingere la politica del primo ministro sulla questione sociale, privilegiando invece «la solidarietà che unisce tutti coloro che, in settori diversi di attività, contribuiscono alla produzione e allo sviluppo della ricchezza nazionale in un periodo in cui tutti i principi di libertà e di giustizia sono minacciati dalla sovversione».36 In Parlamento Giolitti poteva predicare e anche praticare la moderazione, il compromesso e «l’unità nazionale», ma la realtà della provincia era più cruda. Sembrava che i ricchi diventassero ancora più ricchi e opprimenti, e i poveri ancora più poveri, ma più determinati.

Era la situazione ideale per la retorica estremista e l’ambizione personale di Benito Mussolini. Per diversi anni aveva plaudito agli scioperi e alle altre «attività sociali» della sua regione. Ora, all’improvviso, calcava il palcoscenico nazionale. L’impulso alla sua ascesa – come divenne sempre più chiaro nell’estate del 1911, mentre si succedevano le celebrazioni degli anniversari patriottici – fu la campagna che Giolitti aveva intenzione di lanciare contro Tripoli. Navi italiane salparono per le loro destinazioni prima ancora che un diplomatico presentasse alla Turchia, il 29 settembre, una dichiarazione ufficiale di guerra.

Secondo gli intellettuali di parte socialista, la guerra ingiusta, coloniale, imperialistica esigeva uno sciopero generale e una resistenza fino al limite estremo da parte di tutti i membri della classe lavoratrice. Mussolini era l’uomo adatto a promuovere, clamorosamente e senza riserve, questa azione. Nel suo primo articolo sulla questione libica, pubblicato il 23 settembre sulla «Lotta di Classe», condannò «gli eroici furori dei guerrafondai di professione» cioè quei nazionalisti il cui massimo ideologo, Enrico Corradini, aveva sostenuto per un certo periodo l’argomentazione – smaccatamente antimarxista – secondo cui l’Italia era una «nazione proletaria», che avrebbe dovuto evitare la lotta di classe e concentrarsi, invece, su una guerra contro le nazioni plutocratiche quali Francia e Gran Bretagna.37 Mussolini non sapeva con certezza se Giolitti fosse in combutta con quei ridicoli o pericolosi agitatori di spade ma, in caso di guerra, scrisse in modo altisonante, «il proletariato italiano deve tenersi pronto a effettuare lo sciopero generale».38

Quando giunse a Forlì la notizia che il governo era davvero intenzionato ad agire, anche Mussolini si diede da fare. Il 25 settembre, dietro sua esortazione, la sezione del partito votò all’unanimità a favore dello sciopero; galvanizzati dai discorsi di Mussolini e degli altri dirigenti locali, il 26 settembre i gruppi socialisti sabotarono il tratto ferroviario per Meldola, bloccando i treni che trasportavano le truppe e respingendo le cariche della cavalleria che tentavano di fermarli. Come Mussolini spiegò appassionatamente nella relazione degli incidenti sulla «Lotta di Classe», «il proletariato di Forlì ha dato un magnifico esempio. Lo sciopero generale è pienamente riuscito». Il riformismo, commentò sprezzante, ha dimostrato la propria pusillanimità e inconsistenza non facendo nulla per arrestare la pessima linea d’azione del governo. I veri socialisti, temprati dalla «nuova mentalità rivoluzionaria» esibita dai compagni della regione, devono continuare a sabotare la guerra. Che cosa era stata la grande Rivoluzione francese, aggiungeva Mussolini con un parallelo familiare e toccante ma storicamente impreciso, se non uno sciopero generale durato più anni? Gli avversari dello sciopero, che fossero soreliani, sindacalisti (alcuni di loro erano diventati patrioti durante la conquista della Libia), deputati socialisti al Parlamento, sindacalisti ortodossi della Confederazione generale del lavoro o riformisti di qualsiasi altro tipo, dovevano essere spazzati via.39 Questo valeva, ovviamente, anche per i clericali e per i loro amici reazionari.40 Adesso era il momento dei fatti; questa poteva essere l’ora della «rivoluzione».

La secca risposta da parte del governo a questa istigazione al disordine non tardò ad arrivare. Il 14 ottobre Mussolini e alcuni compagni, tra i quali il giovane Pietro Nenni, che negli anni Sessanta sarebbe diventato ministro degli Esteri socialista, furono arrestati. Un contemporaneo sostenne che in quella circostanza furono ancora rispettate certe formalità. Gli agenti di polizia trovarono Mussolini mentre beveva un caffè nel suo posto abituale. «Sa… professore…» dissero educatamente «il signor Commissario la prega di favorire un momento in ufficio…» Mussolini chiese se poteva prima finire il caffè, e gli fu rispettosamente assicurato di sì.41 Solo allora fu accompagnato in prigione. Il 18 novembre il professor Mussolini fu processato a Forlì, dove si difese brillantemente parlando di sé come di un eroe, «non di un malfattore, di un delinquente volgare, ma di un assertore di idee, di un agitatore di coscienze, di un milite di una fede», che chiedeva almeno il rispetto, se non la giustizia, dalle istituzioni del re.42 Gli ascoltatori furono colpiti dalla sua enfasi, ma la corte, impassibile, lo giudicò colpevole e lo condannò a un anno di reclusione. Tuttavia, la pena fu ridotta in appello e il 12 marzo Mussolini fu rilasciato, esultante e notevolmente cresciuto nella considerazione generale.43 Nella «Lotta di Classe», che teneva informati i lettori sul sacrificio del loro leader, l’autore di un articolo anonimo pubblicato in gennaio era stato colpito dal potere degli occhi di Mussolini (sempre «inquieti e profondi, mobili e saettanti»), dalla sua mente, dalle sue parole e dalla sua anima; aveva «la testa di Socrate»; era il «capo».44 «La Soffitta», giornale socialista pubblicato a Roma, esaltò in modo analogo la sua personalità; Mussolini, scrisse un corrispondente, data la sua profonda cultura è sicuramente diventato «una delle più simpatiche e spiccate personalità del partito».45 Infine, anche l’«Avanti!» pubblicò una lusinghiera relazione dell’evento: «Il compagno Mussolini è uscito stamani dal carcere più socialista che mai. Lo abbiamo visto nella sua modesta abitazione fra la famigliola che egli adora, e ci siamo trattenuti un po’ con lui. Egli non ha nulla sofferto, fisicamente, per la prigionia. Gli sono arrivati numerosi telegrammi di congratulazione e di plauso da ogni parte d’Italia».46 Mussolini, a quanto pare, meritava il banchetto offertogli dai membri forlivesi del partito nell’accogliente e rinomato Albergo Vittoria.47 A differenza del padre, era assurto alla ribalta politica nazionale grazie alla trasparenza delle sue azioni e alla chiarezza della sua ideologia.

Alla fine del banchetto Mussolini passò prontamente a pubblicizzare le sue recenti acquisizioni politiche. Gratificato dalla qualifica di corrispondente da Forlì dell’«Avanti!», informò i lettori della sua decisione di pubblicare «La Lotta di Classe» in formato più grande con una tiratura, quasi raddoppiata, di duemilaottocento copie, trasformandolo in «uno dei migliori e più diffusi giornali di Romagna».48 Assecondò anche le proprie ambizioni intellettuali cominciando a scrivere un ampio saggio sul teologo protestante boemo Jan Hus. Benché dotato di un’appendice documentaria, quando fu pubblicato nel 1913 Giovanni Huss il veridico49 si rivelò un’opera curiosa, da cui emerse con chiarezza che Mussolini, qualunque cosa fosse, non era uno storico. Come l’autore confessava candidamente nell’introduzione, nelle biblioteche italiane era difficilissimo trovare qualche libro su Hus, ed egli stesso non faceva parte del ristretto elenco degli italiani capaci di leggere la lingua ceca.50 Il libro era in massima parte un manieroso ritorno al periodo «mangiapreti» di Mussolini, che ritornò con piacere a scrivere storie di sesso nei conventi, di cospirazioni e crimini papali, oltre a esaltare Hus come nazionalista boemo che aveva resistito all’egemonia «tedesca». Nella versione mussoliniana, il precursore del protestantesimo era presentato come un padre del Risorgimento.51

Fortunatamente per Mussolini, la sua carriera non dipendeva da quel tipo di divagazioni. La situazione stava volgendo a suo vantaggio. L’8 luglio 1912 i delegati di tutta Italia si riunirono a Reggio Emilia per il tredicesimo Congresso del Partito socialista.52 Fu una circostanza sfortunata per i riformisti che, l’anno precedente, a Milano, erano riusciti a imporre la propria linea. Ma la crisi connessa con la guerra di Libia aveva acuito le tensioni sociali e trasformato Reggio in una fortezza della rivoluzione. L’8 luglio, quando Mussolini prese la parola, ancora circondato dall’aureola delle imprese eroiche compiute negli ultimi nove mesi, stava praticamente giocando in casa. Il suo discorso fu un trionfo. Con studiata determinazione comunicò ai fedeli del partito e al mondo intero che il giovane editore di Forlì era da considerare un’importante figura politica. L’orazione iniziò con un attacco radicale al Parlamento (e ai parlamentari socialisti), reso più forte da un’appropriata citazione di Marx. L’Italia, proclamò Mussolini, è il paese in cui «il cretinismo parlamentare … ha raggiunto le forme più gravi e mortificanti». Le riforme di Giolitti al suffragio non erano altro che un trucco per tenere in attività il Parlamento ma, per i veri socialisti, il «parlamentarismo non è necessario assolutamente». Tuttavia il curriculum di quasi tutti gli eletti alla Camera dei deputati sotto la bandiera del partito era desolante. Soltanto Turati – che stava tentando un compromesso tra le opposte fazioni, e al quale Mussolini non voleva contrapporsi come antagonista – era rimasto un socialista vero, per esempio nel sostenere l’assoluta ostilità del proletariato italiano alla guerra.

La soluzione del problema era semplice: espellere i maggiori riformisti, Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Angelo Cabrini e Guido Podrecca. In marzo un muratore romano aveva sparato al re («Vittorio Savoia», come lo chiamava con insolenza Mussolini, pensando di sicuro al 1792 e a «Luigi Capeto», e forse incoraggiato dall’idea che qualcuno lo vedesse come un nuovo Marat).53 Bissolati e gli altri condannarono pubblicamente l’attentato a Vittorio Emanuele. Ma, aggiunse Mussolini, pur non volendo essere inumani verso un proprio simile, si doveva riconoscere che al sovrano toccava subire «il fatto come un infortunio del mestiere del re». I cuori teneri, disse inoltre, avrebbero sicuramente sostenuto che la battaglia si doveva concentrare sulle idee e non sugli uomini. Ebbene, questo non era del tutto vero. L’argomentazione intellettuale aveva i suoi limiti e viene sempre un tempo in cui è «logico e umano» mettere sotto accusa gli uomini. «Noi facciamo il processo non all’idea, ma a determinati atti che cadono sotto la sanzione del nostro codice, e questo codice non l’abbiamo fatto noi» dichiarò Mussolini in veste di tribuno del popolo. «Il Partito socialista» aggiunse con una metafora che avrebbe recitato un ruolo sinistro nelle tragedie del XX secolo54 «pratica le espulsioni perché è un organismo. C’è la fagocitosi socialista come c’è la fagocitosi fisiologica scoperta da Metchnikoff. Se non corriamo sollecitamente alle difese, gli elementi impuri disgregheranno il Partito, allo stesso modo che i germi patogeni introdottisi nella circolazione del sangue … finiscono per abbattere l’organismo umano». Insomma, in Italia i partiti politici antagonisti si dovevano concentrare su un’unica questione, la necessità di abbattere il già caotico e incoerente sistema liberale «assaltandolo da ogni parte». Per questo c’era bisogno di un partito «numeroso e compatto»; era questo il motivo per cui egli proponeva «una lista di proscrizione», concluse Mussolini con uno dei suoi riferimenti classici che gli italiani trovavano così difficili da evitare. I veri socialisti non avrebbero voluto seguire i riformisti «né oggi, né domani, né mai».55

Per i delegati del partito era un discorso meraviglioso, colto (conteneva riferimenti a Cervantes e a Marx, mentre Bissolati era biasimato per aver mutuato troppo da Sorel), «scientifico» e populista al tempo stesso, una commistione che Mussolini prediligeva da molto tempo. Il rivoluzionario di Forlì aveva sostenuto la propria tesi nello spirito del momento: i deputati messi sotto accusa furono espulsi (e fondarono il loro scismatico Partito riformista). Costantino Lazzari, amico di Serrati, vecchio patrono di Mussolini, divenne segretario, mentre Angelica Balabanoff e lo stesso Mussolini furono eletti alla direzione del partito. I fatti di Reggio Emilia ebbero grande risonanza. L’esule Lenin56 espresse sulla «Pravda» il proprio compiacimento per il fatto che gli italiani avessero imboccato «la strada giusta». Il vecchio agitatore Cipriani scelse Mussolini per tributargli un elogio su «L’Humanité»: «Il suo rivoluzionarismo è il mio» dichiarò.57 Ma gli effetti di questo successo non si misurarono soltanto in apprezzamenti verbali. L’«Avanti!», ammisero gli estremisti del partito, non poteva rimanere sotto la direzione di Treves, ma doveva passare nelle mani dell’ala rivoluzionaria. Sarebbe dovuto subentrare un giornalista appassionato, dinamico, risoluto. Per Mussolini si stava profilando dunque una buona opportunità, anche se poche settimane dopo il ritorno da Reggio Emilia si era proposto timidamente per un altro incarico d’insegnante a Forlì.58 Fu questo l’ultimo segnale che avrebbe potuto far dubitare che il giornalismo e la politica sarebbero stati la sua professione. Venne presto annunciato che la scelta della fazione vittoriosa per l’incarico – ad interim – di direttore responsabile del quotidiano socialista era caduta su Mussolini. Nell’ottobre 1912 egli promosse la propria causa nel corso di un giro in Puglia, la sua prima visita a una regione del Meridione. Parlò e scrisse spesso in termini positivi di una possibile conversione socialista del mondo contadino: «È un popolo che ha la febbre del lavoro. Popolo dunque, non plebe».59 Il 1° dicembre 1912, poco più di sei mesi prima del suo trentesimo compleanno, Mussolini subentrò alla direzione dell’«Avanti!», dopo aver trasferito la sua famiglia a Milano, dove il giornale veniva pubblicato a partire dal 1911.60 Rachele e la piccola Edda portarono con loro nel modesto alloggio di via Castel Morrone anche Anna Guidi, rimasta sola dopo la morte di Alessandro. La famiglia allargata faticava a racimolare la pigione annuale di 1000 lire.61

Favorita dalla fortuna, l’ascesa di Benito Mussolini continuava a velocità sbalorditiva. Scrisse, in un primo editoriale, del suo orgoglio e della sua trepidazione per essere diventato il portavoce del «sacro patrimonio morale e materiale dei socialisti italiani». «Dopo il congresso di Reggio Emilia la frazione vittoriosa aveva ed ha il dovere di assumersi la responsabilità completa del proprio esperimento dinnanzi al Partito e al Proletariato», spiegò. Naturalmente avrebbe ascoltato i punti di vista di tutte le correnti, ma sarebbe anche stato «più rivoluzionario». «Promettiamo solennemente di dimostrare ai filosofi della borghesia reazionaria, al blocco dei partiti avversari, ai piccoli governanti della monarchia sabauda, che la vitalità del socialismo è perenne».62

Era questo, quindi, il Mussolini militante, puro e pronto a qualunque sacrificio per l’ideale. In uno scritto anonimo, intitolato L’homme qui cherche, aveva detto ai lettori del settimanale illustrato «La Folla» che i giornalisti di partito non si dovevano considerare intenti a fare carriera, bensì impegnati in battaglia (Paolo Valera, direttore del giornale, ricordava il suo corrispondente, «con quei suoi occhioni di fuoco», che viveva con Rachele, «buona donna di casa. Affezionata alla sua penuria»).63 Ciononostante, ancora una volta le cose erano semplici solo in apparenza. Nello stesso articolo Mussolini espresse una curiosa insicurezza: «Io sono un primitivo. Anche nel socialismo. Io deambulo nell’attuale società di mercanti come un esule. Non sono un businessman [sic]. Non ho il gusto dell’affare».64 Quasi contemporaneamente scrisse sull’«Avanti!» che Nietzsche era un nome che i socialisti non dovevano dimenticare.65 In linea generale egli era pronto ad affermare: «È la fede che muove le montagne perché dà l’illusione che le montagne si muovano. L’illusione è, forse, l’unica realtà della vita».66 Quanto «eroico», quanto «idealista» e «antimaterialista», chiedeva Mussolini a se stesso, poteva e doveva essere un socialista?

L’irrequietezza e la volubilità intellettuali e personali di Mussolini trapelano da una lettera che indirizzò a Prezzolini immediatamente dopo il Congresso di Reggio Emilia. Le sue frasi richiedono un’attenta valutazione perché, scrivendole, egli sperava di ingraziarsi il destinatario. Confessava: «Io mi sento un po’ dépaysé anche tra i rivoluzionari» (l’uso del mot juste francese indubbiamente manifestava il suo snobismo). «Certo la mia conoscenza religiosa [sic] del socialismo è molto lontana dal rivoluzionarismo filisteo di molti dei miei amici.» Rincarando la dose affinché Prezzolini fosse ancora disposto a essergli «amico» e patrono, aggiunse: «Ho bisogno di orientare e precisare le mie idee», anche se comprendeva che il conflitto del momento con i riformisti era «un episodio della lotta per l’esistenza» tra il partito e quelle sue organizzazioni che si preoccupavano soprattutto di paga e di condizioni materiali.67 «Qualche volta» spiegò in una lettera successiva a Prezzolini «ho la sensazione di urlare al deserto.»68 Un darwiniano? Un nietzschiano? Un blanquista? Un vociano? Un sindacalista? Un giornalista capace di scrivere un buon articolo su qualsiasi argomento?69 Recitare contemporaneamente i ruoli dell’intellettuale e dell’attivista non stava affatto diventando più facile ora che Mussolini aveva maggior fama, grande influenza e una più spiccata capacità di vedere o intuire il proprio vantaggio personale.

Adattare l’ideologia all’azione era un problema, ma lo erano anche la vita sociale e il sesso, specialmente dopo che i Mussolini si furono stabiliti nel gran mondo di Milano. La metropoli aveva molteplici attrattive e c’erano tante regole da imparare. Come direttore dell’«Avanti!» Mussolini si iscrisse alla prestigiosa Associazione lombarda dei giornalisti, circolo fondato nel 1890. Durante le riunioni si sforzava di mantenere un basso profilo, sebbene un collega commentasse sarcasticamente l’«imbarazzante» inadeguatezza della sua conversazione. Ricordava che Mussolini usava borbottare quasi tra sé e sé, e diventava sgarbato e aggressivo se lo si contraddiceva.70 Il più delle volte, comunque, il nuovo direttore si sforzava di inserirsi. Lo sgraziato cappello floscio che sfoggiava in passato era ormai sparito, sostituito dalla bombetta. Cercava inoltre di farsi vedere il più possibile in Galleria, il luogo di ritrovo milanese più famoso ed elegante, e cominciò anche a frequentare i bar e i ristoranti cittadini meno cari, soprattutto se a pagare era qualcun altro.71

Gli uomini che timidamente Mussolini frequentava in questo periodo non erano come i suoi compagni di Predappio o di Forlì. Le donne di Milano, poi, erano diversissime. La più famosa era Margherita Sarfatti, critico d’arte dell’«Avanti!», nata nel 1880, sposata con figli, ebrea, che si presentava come femminista e donna moderna. Suo marito, avvocato, era socialista (e sionista); suo padre, un reazionario, era stato assessore clericale al consiglio comunale di Venezia; le idee politiche della Sarfatti erano potenzialmente versatili come quelle di Mussolini. La loro relazione72 si trascinò fino a quando l’entrata in vigore delle leggi razziali costrinse Margherita a cercare rifugio (con l’aiuto dell’amante) a New York. La Sarfatti scrisse un’enfatica biografia del Duce e inoltre,73 anche se non bisogna esagerare il suo ruolo politico e la sua influenza su Mussolini, avrebbe acquisito una certa rilevanza nelle politiche culturali del regime.

Tuttavia, più emblematica fu la relazione di Mussolini con Leda Rafanelli. Scrittrice che orientava la propria ricerca del senso della vita spaziando tra l’anarchia e l’arabismo, romanziera, giornalista e attivista, vestì i panni della donna moderna con più costanza e convinzione della Sarfatti.74 Una serie di lettere meravigliosamente rivelatrici, indirizzatele dal futuro Duce, è sopravvissuta ai tentativi di distruzione compiuti sotto il regime75 ed è stata anche pubblicata una versione riveduta del resoconto della Rafanelli sulla loro relazione.76 Come Margherita Sarfatti, era nata nel 1880 (a Pistoia) ed era pertanto un po’ più vecchia di Mussolini (e aveva dieci anni più di Rachele). Circa ventenne aveva trascorso tre mesi in Egitto e forse aveva avuto una relazione con il pittore futurista Carlo Carrà.77 Tornata in Italia, si fece presto un nome grazie alle sue molteplici dichiarazioni, che spaziavano dalla denuncia della lascivia dei preti, specialmente nei confronti dei minori, all’opposizione al razzismo e alla considerazione dei negri come membri della società dotati di pari diritti, all’approvazione del «libero amore», anche se in realtà era convinta che il punto più alto della libertà si trovasse nel mondo musulmano. In modo più convenzionale, poi, auspicava che «l’uomo medio» fosse salvato dall’alcol e dai bordelli, e che «la donna media» non dimenticasse la maternità o non vi rinunciasse. Sosteneva che, promuovendo le condizioni spirituali e materiali della gente comune, un’élite consapevole e all’avanguardia poteva costruire il «quarto potere», ma al contempo criticava severamente chiunque avesse pensato di tradire la causa dei lavoratori per il denaro della borghesia.78

Anche se per tutta la vita fu il più ottuso dei patriarchi, il nuovo arrivato a Milano si convinse radicalmente di aver trovato l’anima gemella quando gli si presentò la Rafanelli, colpita dal suo appassionato discorso sulla Comune di Parigi. Il suo ego dev’essersi sentito ancora più lusingato quando la donna lo descrisse, sul settimanale anarchico «La Libertà», in questi termini: «È il socialista dei tempi eroici. Egli sente ancora, ancora crede, con uno slancio pieno di virilità e di forza. È un uomo!».79 Successivamente, in un suo romanzo, la Rafanelli delineò la figura di un giovane giornalista «con i suoi occhi grandi, neri, dallo sguardo un po’ folle». Spesso chiuso in un teso silenzio, questo personaggio era bello eppure in qualche modo brutale, ma sempre a disagio, prontamente conquistato dal profumo intenso della sua donna. In lui l’ambizione e la sensualità competevano in modo terribile tra loro; a venticinque anni sembrava consumato dai conflitti interiori. Il matrimonio con una donna bionda, giovane e bella non l’aveva appagato, né l’avevano fatto la musica o la scrittura, anche se «il giornalismo lo attraeva come la luce elettrica attrae le farfalle della notte». Questo giovane focoso voleva appassionatamente essere visto, ammirato, ma, per qualche motivo, la soddisfazione non arrivava mai. Solo il fascino misterioso di una donna in contatto con l’Oriente riusciva a condurlo sui sentieri incantati che potevano ancora portarlo alla felicità.80

Se questa fu l’interpretazione letteraria dell’amico elaborata da Leda nel 1913, mentre Mussolini tentava di costringere Milano a fermarsi e ad accorgersi della sua presenza, anch’egli da parte sua ebbe una vera e propria infatuazione per la donna. Il loro primo problema era come incontrarsi. Inutile provare l’ufficio del giornale, dove non sarebbero mai stati soli. Anche il caffè era un luogo inadatto, perché sarebbero stati circondati dalla folla. Unica possibilità era la casa di lei, dove Mussolini poteva recarsi ogni martedì alle tre del pomeriggio (l’abitudine italiana di dedicare il mattino al lavoro e il pomeriggio ad altre attività, a quanto pare, era adottata anche da lui). «Mi avete compreso» le scrisse con la banalità dell’innamorato «e in maniera ben diversa degli altri. Sento che fra noi è cominciato qualche cosa … O m’inganno? Me lo direte senza reticenze. Aspettatemi. Anch’io vi aspetto con una strana trepidazione.»81

E pochi giorni dopo in un altro messaggio:

Ho passato ieri, con voi, tre ore deliziose, rapidissimamente. Abbiamo parlato di tutto e di tutti. Abbiamo le stesse simpatie e antipatie, nella politica, nell’arte, nella filosofia, sul clima. Amiamo la solitudine. Voi la cercherete in Africa, io tra la folla di una tumultuosa città. Lo scopo è identico. Il vostro salotto è stato per me una rivelazione e una sorpresa. Non è come tutti gli altri. Mi avete dato l’illusione dell’Oriente misterioso e meraviglioso, con i suoi violenti profumi, con i suoi sogni folli e fascinatori.82

Mussolini il provinciale, con la polvere dell’edicola Damerini non ancora spazzolata dagli abiti, era evidentemente innamorato, almeno per il momento. «E mi sembrerà di essere lontano mille chilometri da Milano, dal giornalismo, dalla politica, dall’Italia, dall’Occidente, dall’Europa … Leggeremo Nietzsche e il Corano. Sentite: io sono libero tutti i giorni nel pomeriggio. Scrivetemi quando debbo venire da voi: sarò puntuale e discreto.» 83

Ma sperimentare le altezze dell’amore, se questo era ciò che i due fantasticavano, era complicato. La vita di Mussolini era più attiva di quanto le avesse accennato e presto dovette scusarsi per essere costretto ad andare a Roma o a Zurigo, o per essersi ammalato. Quando si incontravano, però, era il paradiso: «Mi pareva di essere tornato dieci anni addietro, quando commettevo le follie di tutti». In compagnia della sua Leda si arrendeva a «un sentimento che cerco di definire e non voglio definire … Io lascio i miei giorni nelle mani del Destino».84

E così la relazione continuò. Fu un errore da parte di Leda presentarsi senza preavviso a una delle sue riunioni, ma lui fu dispiaciuto di non averla accolta pubblicamente. Poteva farsi perdonare offrendole dei fiori, un sabato sera? Era uscito da casa di lei a mezzanotte, sentendosi ebbro di passione, «con i nervi deliziosamente eccitati, col cuore che batteva con una irregolarità inconsueta, col tumulto nel cervello», e aveva bevuto un bicchiere di assenzio «per calmarsi».85 Le ore della notte erano quelle in cui poteva scrivere per lamentarsi dell’assenza di lei: «Mezzanotte! Mi sento leggero. Pieno di desideri, di nostalgie. Vorrei comunicarti un po’ dell’elettrico che mi traversa il sangue. Chissà perché?». Anche se poi poteva subentrare la routine. Si doveva assentare per qualche giorno, a metà luglio: «Accompagno al mare la mia domestica tribù – due persone». Ma sarebbe tornato il sabato. Lei, «impenetrabile come un’araba», gli avrebbe scritto, consolando così la sua nostalgia?86

La situazione, comunque, pareva guastarsi: secondo fonti autorevoli, la Rafanelli avviò presto un’altra relazione con un tunisino, un correligionario, e non aveva alcuna intenzione di limitarsi a essere la donna di Mussolini.87 Ora questi si chiedeva se il loro amore fosse «morboso». Non gli succedeva ogni tanto, infatti, di ciondolare in una piazza aspettandola invano? «Voi mi fate tornare ragazzo, cioè ingenuo, cioè impaziente, cioè idiota.»88 Quando Leda gli annunciò che la loro relazione era finita, lui l’accettò come un «destino», promise di restituirle le sue lettere e chiese, inclinando al melodramma, che quelle scritte da lui fossero date alle fiamme.89 Eppure, quando nel febbraio 1914 lei gli scrisse di nuovo, Mussolini dichiarò di essersi confuso per l’ebbrezza procuratagli dal profumo della sua carta da lettere: «Voi sapete quale strano, magico potere eserciti su di me un profumo, il vostro profumo, così penetrante, fascinatore; così strano, lontano». E ancora: «Voi mi offrite ciò che non trovo altrove: un’ora di pace, di riposo. Una diversità». Giurò fervidamente che l’avrebbe attesa per sette volte sette anni. Nel frattempo sarebbe andato a sentire il Tristano per la prima volta; immaginò addirittura che il contatto con lei potesse metterlo nello stato d’animo adatto a comunicare con Wagner.90

Tornarono a litigare. Malgrado tutta l’abilità di lei nel «gioco spirituale», Mussolini temeva che Leda non avesse veramente compreso la sua natura: «Sono quello che sono. Anch’io ho una maschera, che deve difendermi dagli sguardi indiscreti, ma sotto la maschera c’è il mio vero “me”, che vi sfugge, perché non volete fermarlo».91 Ciononostante era ancora disponibile a un incontro: «Mia cara Leda, tu hai qualche cosa che mi attira, che mi fàscina, che mi perde». Alle due di notte poteva riannusare il suo profumo e quel ricordo lo induceva a scriverle un ultimo biglietto prima di andare a casa.92 Sempre alle due di notte il pensiero di lei lo induceva a un’altra divagazione filosofica: voleva essere un uomo moderno, pertanto ancora più attratto da lei, che descriveva «straordinaria nei vostri gusti, nelle vostre bellissime manie, nelle vostre scoperte, nei vostri progressi in “arabismo”». Il suo fascino lo rendeva felice anche quando non capiva pienamente ciò che lei voleva dire. «Ma infine» continuava «voi mi piacete perché – con uno sforzo meraviglioso – siete riuscita a vivere in una finzione deliziosa.» Il coinvolgimento della Rafanelli era al tempo stesso seducente e degno di ammirazione. Lui, dopotutto, non era un cinico, e lei doveva capirlo.93

Purtroppo per Leda e per «B.», come Mussolini aveva cominciato a firmarsi, stava per scoppiare la prima guerra mondiale. Lei si dichiarava contraria e lo scrisse apertamente. Mussolini, invece, era indeciso. Intellettuali famosi come Livio Ciardi e Filippo Corridoni, lamentava, avevano cambiato idea e volevano che l’Italia partecipasse al conflitto. La guerra «è un contagio che non risparmia nessuno». Davanti alla sua sfida rivoluzionaria, il proletariato sembrava «sordo e confuso e lontano».94 Mussolini si trovava di fronte a un grave dilemma e la sua scelta avrebbe distrutto i suoi sogni d’amore bohémien e di vagabondaggio nell’avanguardia intellettuale.95 Leda non sarebbe più stata sua.

Che fare, dunque, della relazione? In età matura, Mussolini era solito proclamare che l’attività di uomo dalla cintola in giù riguardava esclusivamente lui.96 Tuttavia, i suoi rapporti con la Rafanelli non possono essere sottaciuti. Indubbiamente, quelle sopra riportate erano frasi di convenienza e, sotto sotto, egli mirava alla conquista sessuale o poco più. Ciononostante, le lettere esprimono bene la personalità del Mussolini appena approdato a Milano. Vi si trova il provinciale che cerca una sistemazione nella grande città; l’uomo che non aveva mai pensato che le donne avessero una mente, mentre ora un po’ desiderava e un po’ temeva il contrario; il dirigente socialista che aspirava quasi dolorosamente a essere riconosciuto come un vero intellettuale; il cinico romantico; l’amante morboso che sospirava per quello che sperava essere il vasto mondo dell’amore e dell’intelletto, ma che invece viveva un’esistenza monotona con Rachele, Edda e gli altri figli a venire, mentre avrebbe voluto entrare nell’élite dei politici. Nessuna delle altre sue donne avrebbe potuto essere eccitante o frustrante come Leda Rafanelli.

Vivere a Milano comportava una quantità di problemi. Per le finanze precarie di Mussolini il trasferimento nella grande città era stato costoso. Esiste una schietta corrispondenza con Cesare Berti, suo amico di Forlì, da cui si era fatto prestare 100 lire per sopperire al costo del viaggio in treno, dell’affitto e dei mobili, debito che non fu estinto fino all’ottobre 1913.97 Mussolini, nel marzo 1913, gli scrisse: «Qui io lavoro come un cane. Vivo solitario. Mi attaccano da tutte le parti: dai preti ai sindacalisti».98 Nell’insieme, aggiunse due mesi dopo, la sua caparbia devozione alla polemica aveva fatto di lui «l’uomo più odiato d’Italia» (frase destinata a ricorrere nei suoi discorsi quando parlava di sé).99

La solitudine, l’animosità, la temerarietà, l’incrollabile determinazione di essere pari agli altri che mal si conciliava con la propensione a trattare quasi tutti come inferiori: questi erano adesso gli atteggiamenti di un uomo sempre più certo di essere destinato a diventare un leader. Lavorò bene all’«Avanti!»; a dispetto dei suoi detrattori era in realtà un uomo d’affari valido e risoluto. Nel marzo 1913, dopo una serie di licenziamenti e qualche accorta alleanza, aveva eliminato tutti i rivali che aspiravano alla direzione del giornale. Al tempo stesso stava raddoppiando e quadruplicando la tiratura, fino a raggiungere le centomila copie alla vigilia della prima guerra mondiale. Migliorò la tecnologia dell’«Avanti!» e ne ridusse il deficit.100 Come disse a un collega: «Del giornale sono io il solo, unico e assoluto responsabile di fronte ai socialisti e al pubblico, e sono io che, senza preferenze o antipatie, distribuisco il lavoro ai redattori, a seconda delle esigenze del giornale».101 Mussolini non ebbe difficoltà ad assumere il ruolo direttivo. Instancabile e spietato, era veramente «un grosso giornalista, uno dei maggiori del suo tempo»,102 alquanto migliore nella parte distruttiva che in quella costruttiva della professione. Allo stesso modo in cui si può ipotizzare che, rimasto a Forlì, Mussolini sarebbe diventato un notabile locale, così, se non fosse scoppiata la prima guerra mondiale, egli avrebbe potuto far carriera nella sua professione, guadagnandosi una fama come opinionista modernizzatore, del tipo familiare alla Gran Bretagna dell’epoca, come Lord Northcliffe e Rothermere, o come, su un altro piano, i nostri contemporanei Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi.

Ma dirigere un giornale non gli bastava ed era ansioso di esibirsi su ben altri palcoscenici. La direzione del quotidiano socialista nazionale esigeva, per esempio, che commentasse i temi di politica estera che preoccupavano l’establishment europeo prima del 1914. Che l’argomento fosse il costo effettivo della guerra in Libia (secondo Mussolini quell’avventura imperiale si era rivelata un «grottesco» sperpero di denaro),103 l’espansione dell’industria degli armamenti,104 i particolari degli eventi che si verificavano nei Balcani105 o la politica coloniale francese in Algeria,106 egli sapeva esprimere un’opinione intelligente o perentoria.

Nello stesso modo riusciva in qualche misura a districarsi tra le fazioni del socialismo italiano in aspra lotta tra loro, comportandosi di volta in volta da sostenitore o da critico dei sindacalisti. Cercò di dimostrare la propria apertura intellettuale tenendo una serie di conferenze pubbliche sulla cultura socialista, nel corso delle quali presero la parola personalità tanto diverse come Gaetano Salvemini e Giuseppe Prezzolini. Gli incontri, rivolti inizialmente agli operai milanesi, ai quali Mussolini voleva far conoscere pensatori come Platone, Campanella e Babeuf,107 in seguito furono tenuti a Rovigo e Firenze, città che vide la partecipazione di oltre tremila persone.108 Nel 1913-14 Mussolini trovò anche il tempo di pubblicare una rivista di critica teoretica, destinata non alle masse ma agli intellettuali come lui. Era ottimisticamente intitolata «Utopia».109 Benché la testata proclamasse con coraggio di rappresentare il socialismo rivoluzionario italiano, la rivista puntava molto sul retaggio della Rivoluzione francese, tanto che nel primo numero vennero pubblicati brani tradotti degli scritti di Mathieu-Jules Guesde e Auguste Blanqui.110

Nel suo articolo di fondo Mussolini aveva spiegato che «Utopia» era stata creata non dal partito, ma per il partito. Lui voleva, precisò, essere sanamente settario. C’era «una gelosia per le idee», osservava, alla radice della diversità tra le correnti socialiste, perché «come le donne così le idee, più si amano quelle che più ci fanno soffrire».111 Più o meno nello stesso periodo disse ad Alceste De Ambris: «Certo, io sono un settario. Un’anima gretta, piccina, piena di fiele settario. È così. Non me ne vergogno … Oggi, domani, sempre».112 Nelle pagine di «Utopia», però, diventata una rivista quasi libertaria, pubblicò gli scritti di sindacalisti come Sergio Panunzio e Agostino Lanzillo, di liberali dissidenti quali Mario Missiroli e di amici come Margherita Sarfatti. Il Mussolini ora emergente era di nuovo «il professore» che lottava contro una serie di idee e, nel farlo, cercava di impressionare. Non a caso un altro articolo di fondo in «Utopia» sottolineò con compiacimento il fatto che la rivista fosse stata citata da Prezzolini nella pagine della «Voce». Come al solito, Mussolini si espresse con deferenza scrivendo dei suoi maestri culturali: «Sono … toccato dall’elogio di coloro che stimo intellettualmente e moralmente, anche se la politica o particolari ideologie ci dividono».113

«Utopia», comunque, non durò a lungo. Le sue uscite furono irregolari. La finalità ideologica della rivista era evidentemente inquinata dalla mania di grandezza del suo direttore. Si deve, però, riconoscere che Mussolini stava dando prova di un talento fuori dal comune. Era, fra l’altro, un oratore sempre più brillante e persuasivo. Benché avesse fallito, nel 1913, il suo primo tentativo di candidarsi al Parlamento – in seguito, a Forlì, era stato sconfitto dal candidato repubblicano –,114 nessuno dubitava che alla fine avrebbe trovato un posto nell’Assemblea nazionale. Certo si esercitava instancabilmente nell’arte oratoria, di solito con i seguaci del partito. Predicava perlopiù la rivoluzione anche se, come sempre, la sua visione di quell’auspicato evento era più appassionata che precisa. Rigurgiti di campanilismo emergono per esempio dalle parole pronunciate a Milano nel marzo 1914:

Io sono un municipalista convinto. Appunto perché socialista rivoluzionario, quindi, antistatale. Il municipio è l’ultimo baluardo che resta ormai al cittadino per opporsi all’invadenza sempre maggiore dello Stato.115

Più tardi un fedele collaboratore si sarebbe accorto della cura con cui Mussolini si preparava per ogni discorso o riunione. Benché apparisse spontaneo, si preoccupava di elaborare in anticipo le sue frasi e manteneva un ottimo controllo sia del testo sia delle proprie emozioni.116 Non si può sapere quanto questo approccio così studiato fosse diventato per lui un’abitudine, ma si può presumere che avesse imparato quelle tecniche quando era ancora socialista. Allo stesso tempo si stava abituando a essere accolto dagli applausi e dalla devozione. Era attento agli altri, almeno per ciò che riguardava il momento in cui venivano in contatto con lui, con la sua immagine e il suo carisma. Dopo il 1922 dichiarò che, come dirigente e dittatore, imparava dalla postura e dal linguaggio del corpo dei suoi interlocutori quanto dalle loro parole.117 Dal canto suo sperava di comunicare tanto in modo implicito quanto in modo esplicito. Più tardi i suoi seguaci ne avrebbero osservato il controllo dei «gesti … inimitabili e incomparabili»,118 mentre un propagandista del regime, cieco di guerra, avrebbe dichiarato il proprio incanto soltanto nell’ascoltare la dizione del Duce; il suo udito sensibile aveva colto «più di una voce, o piuttosto … quella varietà di timbri e di toni» – andavano dal dolce e intimo al poderoso e stridulo – «che riconferma la pluralità e la molteplicità della sua anima».119

Il carisma di Mussolini, indiscutibile e illimitato durante il regime, stava già nascendo quando era direttore responsabile dell’«Avanti!», e lui certamente non vi si opponeva. Il termine «Duce» era forse diffuso nel vocabolario dell’epoca, tanto che nel marzo 1914 fu persino associato, con intento sarcastico, al prosaico e meticoloso primo ministro Giolitti;120 ma è comunque significativo il modo in cui cominciò a essere associato a Mussolini. Qualsiasi fossero la forza e il contenuto della sua retorica sulla rivoluzione e sul socialismo, era la sua personalità a impressionare di più i contemporanei. Nel 1914 gli italiani aspettavano un «capo» per porre fine al compromesso, alla confusione e alla corruzione che vedevano dappertutto e, sia pure ancora da una cerchia ristretta, Benito Mussolini cominciava a essere visto come un potenziale candidato per quel ruolo. Il dinamismo incontenibile, l’ambizione sfrenata, la rapidità di pensiero, lo sprezzante rifiuto di arrendersi al fato, la sua insolenza, tutti questi particolari facevano di lui un giovane politicamente influente, soprattutto se il mondo nuovo era destinato, in qualche modo, a coinvolgere il destino delle masse.

Un anno dopo, con l’Italia in guerra e Mussolini non più socialista, Torquato Nanni, vecchio amico dai tempi di Predappio, compose su richiesta di Prezzolini diverse biografie encomiastiche del Duce. Con frasi forse ancor più scandite di quelle usate da Mussolini nei suoi discorsi,121 egli descrisse «una forza della natura», un «uomo d’azione per eccellenza» che «ha specorizzato il proletariato italiano».122 Se si deve prestar fede a Nanni, e con lui a Prezzolini e all’establishment intellettuale, già si riconoscevano a Mussolini le potenzialità per divenire il «Duce».

In realtà, quando l’opera fu pubblicata, si può dubitare che abbia avuto molti lettori o che questi fossero colpiti dalla sua tesi. Nel 1915 l’ascesa di Mussolini era stata, per il momento, rallentata dagli eventi. Inoltre, già molto prima che l’Italia partecipasse alla prima guerra mondiale, le vittorie lampo ottenute da Mussolini nel 1912-13 apparivano fragili. Certamente il Partito socialista, nel Congresso dell’aprile 1914 ad Ancona, aveva confermato la prevalenza della frazione rivoluzionaria, rafforzando la posizione personale di Mussolini tanto all’interno dell’«Avanti!» quanto nell’esecutivo del partito. Ma a quel punto diventava altresì evidente l’estrema vaghezza dei rivoluzionari sulla politica a lungo termine e il fatto che fondamentalmente non avessero alcuna idea su come attuare la rivoluzione e su ciò che essa avrebbe implicato.

Poco dopo si verificarono scioperi e disordini su vasta scala, particolarmente in Romagna, durante quella che fu chiamata la «settimana rossa». Gli editoriali di Mussolini prevedibilmente sollecitavano un’azione più drastica per disturbare il governo e le truppe nei loro tentativi di ristabilire l’ordine.123 Tuttavia, il malcontento popolare nasceva spontaneo, tanto da cogliere alla sprovvista Mussolini stesso e il resto del gruppo dirigente.124 L’inadeguatezza della preparazione e le incapacità più gravi di questi ultimi, nella tattica come nella strategia, non potevano essere nascosti. Nel giugno-luglio 1914 erano molti i motivi per credere che presto sarebbe stato ripristinato il vantaggio dei socialisti più moderati.

Altri eventi di maggiore portata avrebbero in realtà deciso la sorte dei socialisti. Il 28 giugno 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e sua moglie furono assassinati a Sarajevo. La loro morte segnò il crollo dell’Europa della belle époque precipitandola nella prima guerra mondiale. Tre anni prima il sindacalista romagnolo Angelo Oliviero Olivetti, discendente di una famiglia filorisorgimentale di Ravenna, aveva lamentato, nei modi tipici del momento, che la società intorno a lui in Italia moriva «per mancanza di tragedie».125 Molto presto gli italiani e altri popoli europei avrebbero vissuto tragedie sufficienti a estinguere ogni ragionevole sete.