Lo scoppio della prima guerra mondiale gettò il governo e le istituzioni italiane in un grave imbarazzo. Il 3 agosto 1914 fu finalmente annunciato che per il momento l’Italia, stretta tra l’appartenenza alla Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria da una parte, e la «tradizionale amicizia» con la Francia e la Gran Bretagna dall’altra, optava per la neutralità. Considerata la debolezza militare della nazione e la relativa fragilità dal punto di vista economico e industriale, tenersi fuori dalla guerra era senza dubbio una decisione saggia. Fu comunque una scelta che approfondì ulteriormente le numerose crepe nella struttura politico-sociale dello Stato liberale.

Favorevole alla neutralità era la netta maggioranza degli italiani,1 compresi Giolitti, capo del governo, il re, grandi settori dell’esercito, importanti uomini d’affari, la massoneria, ampi settori dell’apparato burocratico, i socialisti, molti cattolici, tra cui il nuovo papa Benedetto XV, la maggior parte del mondo contadino e quasi tutte le donne italiane. Alcuni di questi individui e gruppi si dividevano sul se, o quando, fosse possibile accettare l’entrata in guerra dell’Italia; persino Giolitti, la cui carriera sarebbe stata intralciata da accuse di vile neutralismo, vedeva di buon occhio la presenza dell’Italia al fianco dei vincitori, non appena fu chiaro chi sarebbero stati. Tuttavia, il primo ministro non voleva, per il momento, forzare la situazione. Dimostrando un buon senso insolito tra gli europei dell’epoca, molti italiani non credevano all’illusione della «guerra breve» e contestavano le previsioni secondo cui il conflitto sarebbe terminato prima di Natale.

Alla fine, però, la volontà di coloro che si opponevano alla prematura entrata in guerra dell’Italia non ebbe più peso. I gruppi che con più determinazione sostenevano l’urgenza dell’impegno erano due: il primo era costituito dallo stesso esecutivo, un governo di minoranza, più conservatore di quello di Giolitti, diretto dall’avvocato meridionale Antonio Salandra. Questa amministrazione, che sembrava destinata a una breve esistenza, era fortemente ispirata dal moralista toscano Sidney Sonnino, divenuto ministro degli Esteri dopo il 1914. Per più di una generazione egli aveva coniugato le istanze di una maggiore disciplina interna – nonché la richiesta di porre fine alla politica giolittiana del compromesso – con l’inclinazione all’espansionismo. La guerra fornì a Salandra e Sonnino una straordinaria opportunità: ora potevano finalmente «dare il benservito ai conservatori», indebolire la maggioranza parlamentare giolittiana durata così a lungo e, come dichiararono con presunzione, «entrare nella storia».2

A sostegno di questa linea di condotta c’era un altro gruppo piuttosto influente, sebbene non molto vicino al governo. Era formato da quegli intellettuali, appartenenti soprattutto alla nuova generazione, le cui idee erano tendenzialmente espansionistiche e oltranziste, ma che venivano riconosciuti come gli esponenti di un nuovo rampantismo senza il quale un’Italia sana e «moderna» non poteva prosperare. Mentre si consumava il cosiddetto «intermezzo» e le trattative dell’Italia con le potenze centrali e la Triplice Intesa diventavano sempre più complesse, questi intellettuali chiedevano a gran voce la fine delle esitazioni. Tra loro spiccava Benito Mussolini.

Renzo De Felice sostiene che, nel periodo compreso tra il manifestarsi degli effetti dovuti all’insuccesso della settimana rossa e l’inizio della crisi di luglio, Mussolini aveva previsto il futuro. «Solo Mussolini» scrive De Felice «si rendeva conto che una nuova era stava cominciando e che il socialismo non doveva continuare a perdere il passo con i tempi.»3 Allora, e nei mesi successivi, Mussolini fu il socialista che mantenne il contatto con il paese.4 È una curiosa affermazione da parte di uno storico, poiché è chiaro che l’Italia veniva manipolata, o meglio spinta in guerra «a suon di parole», da una piccola minoranza della popolazione. In ogni caso non c’è dubbio che Mussolini, come la gran parte dei suoi contemporanei, tardò a capire dove avrebbe potuto portare la crisi di luglio. Da buon giornalista diede notizia dell’assassinio di Sarajevo il giorno dopo. L’evento, poi, era abbastanza grave da farlo riflettere sul suo significato. La morte di Francesco Ferdinando, argomentò, dimostrava che il conflitto tra gli Asburgo e il «mondo slavo» era davvero profondo; i Balcani erano scossi da «un’esplosione di odio nazionale». Come aveva appreso dalle sue passate esperienze nel Trentino, l’amministrazione austriaca era «odiosa e odiata». Mussolini, però, non elogiava nemmeno il nazionalismo serbo, concludendo solennemente il suo articolo con il commento che l’uccisione dell’arciduca «appare come un episodio doloroso ma spiegabile di quella lotta tra nazionalismo e potere centrale che è la forza e la rovina di questo tormentato paese [Austria-Ungheria]».5

Durante il mese successivo non modificò questa sua valutazione, benché manifestasse la propria preoccupazione per l’avventurismo greco nell’ambito di un più generale timore, non nuovo ad altri giornalisti anche in epoche diverse, che i Balcani potessero «incendiarsi» in qualunque momento.6 La sua apprensione principale, tuttavia, continuava a essere rivolta ai fatti italiani dal momento che, nel tentativo di dare una connotazione positiva alla settimana rossa, ritornò su quegli avvenimenti affermando che la «rivoluzione» era tuttora imminente: «L’Italia ha bisogno di una rivoluzione e l’avrà».7 Solo dopo l’ultimatum dell’Austria alla Serbia la sua attenzione ritornò alla scena internazionale. Ogni guerra, commentò, sarebbe stata combattuta sotto il comando del «partito militare austriaco». Mentre cresceva la sua rinnovata ostilità verso il regime asburgico, Mussolini continuò a condannare quelle che temeva fossero le clausole segrete della Triplice Alleanza, insistendo affinché l’Italia adottasse una posizione di rigorosa neutralità verso qualsiasi conflitto. Il proletariato italiano non doveva versare nemmeno una goccia di sangue per una causa non sua. La politica socialista nei confronti delle macchinazioni diplomatiche doveva insistere sulla linea «non un uomo, non un soldo» per la guerra.8

Durante la prima settimana di agosto, quando gli allarmi nei Balcani si trasformarono in conflitto europeo, Mussolini rivolse il proprio biasimo non più al governo austriaco ma a quello della Germania imperiale. Deplorò l’invasione del Belgio e la considerò come l’evento che avrebbe potuto unire «tutta l’Europa» contro «il blocco tedesco». La Germania, aggiunse, si comportava in modo «inaudito e brigantesco». «Coll’aggressione al Belgio, la Germania ha rivelato le sue tendenze, i suoi obiettivi, la sua anima.» «Il militarismo prussiano e pangermanista» aveva una ben triste storia; dal 1870 la Germania si era comportata come «il bandito appostato sulle strade della civiltà europea».9 Erano parole forti e non c’è dubbio che riflettessero un autentico sdegno di Mussolini contro le potenze centrali, e un apprezzamento verso la Francia. Le sue riserve mentali, così come il bagaglio culturale di molti italiani, non necessariamente di sinistra, gli dicevano di guardarsi dall’Austria, tiranno dichiarato del Risorgimento, e ammirare la Francia, «sorella latina», come spesso era chiamata con un affetto misto a gelosia e tenerezza.

Certo, nelle frasi di Mussolini non si deve cercare una grande coerenza con ciò che sostenne in futuro. Sino alla fine di agosto egli temette che le clausole della Triplice Alleanza potessero ancora spingere il governo italiano a entrare in guerra con le potenze centrali.10 Quando fu chiaro che il governo simpatizzava per la parte opposta, Mussolini scrisse ancora ripetutamente a favore della linea ufficiale socialista di «assoluta neutralità». Sapeva, come un dogma insegnatogli dal partito, che la guerra beneficiava soltanto la borghesia. «Il proletariato non è disposto a battersi per una guerra di aggressione e di conquista, dopo la quale egli sarebbe non meno povero e sfruttato di prima.»11 Eppure faticava ad attenersi a questa linea. L’occupazione di Bruxelles da parte dei tedeschi era brutale, riferì. Era convinto che le truppe imperiali avessero fucilato ostaggi e usato proiettili dum-dum. Forse la Triplice Intesa poteva vantare una maggiore legittimità, ma aveva davvero bisogno che l’Italia entrasse in guerra? Non era sufficientemente aiutata dalla sua neutralità? Trieste poteva essere etnicamente italiana, ma era circondata da slavi, e la soluzione più corretta per il suo futuro era probabilmente l’internazionalizzazione.12 I pensieri di Mussolini tendevano a spaziare liberamente e il nuovo conflitto aveva contribuito a rafforzare questa inclinazione. Tuttavia, al di là del profluvio di parole cominciava a capire che la guerra avrebbe potuto fornire l’opportunità di sovvertire il vecchio ordine e immaginarne uno nuovo.

Sotto la spinta di queste considerazioni, nel settembre 1914 il consenso di Mussolini alla linea ufficiale della neutralità si fece meno deciso ed egli, ancorché convinto dell’adesione del partito al neutralismo,13 iniziò pian piano a manifestare una decisa simpatia per la causa della Triplice Intesa. Sapeva, inoltre, che molti influenti intellettuali, parecchi dei quali politicamente orientati a sinistra, si erano impegnati in una campagna per l’entrata in guerra dell’Italia contro le potenze centrali. Prezzolini e «La Voce», i democratici radicali meridionalisti e lo storico Gaetano Salvemini con il suo giornale «L’Unità», sindacalisti come De Ambris e Corridoni,14 il suo vecchio direttore Cesare Battisti, voce dopo voce stavano tutti collegando la guerra al concetto di modernità. Essi prospettavano il conflitto come l’opportunità di sbarazzarsi delle pastoie logore e corrotte dell’era giolittiana e costruire un futuro in cui le persone sarebbero state più felici (e le loro capacità meglio riconosciute). Come poteva il professor Mussolini non essere tentato dalla loro causa?

Fu così che, gradualmente, cominciò ad allontanarsi dall’ortodossia socialista. Il 13 settembre spiegò che aveva deciso di pubblicare sull’«Avanti!» un articolo di Sergio Panunzio perché, dopotutto, «sarebbe ridicolo infatti e illiberale altresì di costringere al silenzio» coloro che appoggiavano la partecipazione dell’Italia alla guerra (sebbene ne rivedesse scrupolosamente le argomentazioni per dimostrare che erano errate).15 Il 30 settembre scrisse un articolo di fondo sui sentimenti, identici ai suoi, che avevano spinto il proletariato italiano ad appoggiare la causa dell’Intesa, pur negando rabbiosamente che quegli stessi sentimenti potessero convertire i lavoratori in «guerrafondai».16 Cinque giorni prima aveva scritto in privato ad Amadeo Bordiga, ingegnere napoletano e intellettuale destinato a dirigere il Partito comunista italiano, della sua sensazione che la neutralità e il riformismo costituissero alleati meschini e scellerati. La scelta di restare immobili al cospetto di eventi grandiosi era, a suo avviso, tipica di coloro che si erano «esiliati dalla storia».17 Nel profondo della mentalità marxista era impressa l’idea della «locomotiva della storia», cioè la convinzione che la società fosse in movimento e che l’individuo accorto avrebbe dovuto essere capace di leggerne correttamente l’itinerario e gli orari. Di certo, nella mente di Mussolini la tensione tra la passività del neutralismo e il dinamismo dell’intervento stava raggiungendo il punto di rottura.

Così il 18 ottobre pubblicò sull’«Avanti!» un articolo cruciale intitolato Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. La sua pazienza, spesso limitata, si era esaurita. La politica del Partito socialista era «comoda» proprio perché così intransigentemente «negativa». «Ma un partito» spiegò con parole che ne rispecchiavano la personalità «che vuol vivere nella storia e fare – per quanto gli è concesso – la storia, non può soggiacere – pena il suicidio – a una norma cui si conferisca valore di dogma indiscutibile o di legge eterna, sottratta alle ferree necessità dello spazio e del tempo.»18 A tutti gli effetti, la politica della neutralità aveva già favorito l’Intesa ed era stata «spiccatamente austrotedescofoba».19 Dunque era assurdo per l’Italia astenersi da un conflitto a cui partecipava il resto dell’Europa. I socialisti di Francia, Belgio e Gran Bretagna avevano riconosciuto il significato del «problema nazionale».20 Come potevano gli italiani non fare altrettanto?

E come citazione conclusiva Mussolini scelse Marx, rammentandone il messaggio secondo cui «chi compone un programma per l’avvenire, è un reazionario».21 La neutralità assoluta, concluse, era per definizione antiquata e immobilizzante. «Abbiamo avuto il singolarissimo privilegio di vivere nell’ora più tragica della storia del mondo. Vogliamo essere – come uomini e come socialisti – gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne – in qualche modo e in qualche senso – i protagonisti?» Sarebbe tragico salvare la lettera del partito, concludeva, se ciò significava distruggerne lo spirito.22

Quell’editoriale fece ovviamente scalpore, almeno tra i socialisti e i loro simpatizzanti.23 I sentimenti ben poco ortodossi che Mussolini aveva espresso non erano assolutamente rari, anzi appartenevano a molti altri socialisti, specialmente intellettuali. Persino Antonio Gramsci, che sarebbe diventato un martire comunista del fascismo, ebbe la stessa tentazione.24 Giuseppe Prezzolini, non socialista ma uomo onorato e ammirato da Mussolini, si affrettò a far pervenire le proprie congratulazioni a quel vecchio abbonato della «Voce».25 L’articolo, fra l’altro, ebbe anche altre implicazioni. Il 19 ottobre il consiglio direttivo del Partito socialista si riunì a Bologna. Ebbe luogo un dibattito appassionato, con Mussolini che sottolineava come il suo nuovo punto di vista si basasse su solidi princìpi, reiterando la convinzione che l’attacco mosso contro di lui dall’interno del partito fosse «ridicolo, ridicolo tutto». Ciononostante, la frattura era troppo evidente, e Mussolini rassegnò le dimissioni dalla direzione dell’«Avanti!».26

A causa della lentezza della burocrazia passò un altro mese prima che venisse ufficialmente espulso dal Partito socialista. Le parole che pronunciò durante la sua ultima difesa furono drammatiche: «Voi oggi mi odiate perché mi amate ancora. … Ma voi non mi perderete: dodici anni della mia vita di partito sono, o dovrebbero essere, una sufficiente garanzia della mia fede socialista. Il socialismo è qualche cosa che si radica nel sangue». Era, dichiarò, ancora nemico della borghesia. Quando il tempo avrebbe dimostrato che aveva ragione a proposito della guerra, profetizzò, «voi mi vedrete ancora al vostro fianco».27

Mussolini non fu ovviamente l’unico dissidente a uscire dal partito, soprattutto durante la prima guerra mondiale. In molti paesi, il grande conflitto impose una scelta tra gli ideali del socialismo internazionalista e quelli della nazione. Né fu Mussolini l’ultimo dei defezionisti, o «topi», come spesso venivano chiamati dai loro nemici, a scoprire che un dissidio, in passato giudicato significativo ma tutto sommato superabile, poneva in realtà fine a una carriera socialista. Nella loro insicurezza e debolezza i partiti socialisti erano inclini al rancore e non era certo difficile immaginare la prima accusa che avrebbero contestato a un oppositore. Con ogni probabilità il «topo» era definito venale, un Giuda che era stato comperato e venduto dai numerosi, ricchi e potenti nemici del socialismo. Così, mentre la stampa interventista plaudiva alla conversione di Mussolini al patriottismo, e i grandi giornali borghesi come il «Corriere della Sera» e «Il Secolo» chiedevano interviste al nuovo patriota,28 tra i seguaci del partito si diffuse una domanda accusatoria: «Chi paga?».29

Nel caso di Mussolini, l’interrogativo era giustificato. Il 10 novembre, in un’intervista concessa al «Resto del Carlino», giornale di Bologna appartenente ai commercianti di zucchero e diretto da Filippo Naldi, fece una rivelazione: non era pronto – dichiarò con la consueta truculenza – a ritirarsi a «vita privata». Al contrario, incoraggiato dal francofilo Cipriani e da altri interventisti schierati a sinistra, stava lanciando un giornale a favore della loro causa. Si sarebbe chiamato, con riferimento mazziniano più che marxista, «Il Popolo d’Italia».30 Il primo numero esibiva sulla testata due motti, uno di Blanqui: «Chi ha del ferro, ha del pane» e uno di Napoleone: «La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette».31 «Il Popolo d’Italia» sarebbe stato, dall’ottobre 1922, l’organo ufficiale del regime fascista.

Sebbene alcune prove siano tuttora oggetto di discussione, è chiaro che già prima di novembre Mussolini si era impegnato su un doppio fronte.32 Era in rapporto con Naldi, famoso sostenitore degli interessi dell’élite terriera locale, che aveva conferito personalmente con i più alti personaggi del governo, compreso l’aristocratico ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano.33 Naldi era noto per i suoi contatti. I contemporanei sottolineavano la stravaganza del suo stile di vita e il modo in cui il suo giornale sembrava oscillare tra il collasso imminente per debiti e improvvise fiammate di prosperità, che il gaudente Naldi festeggiava con «torrenti di champagne».34 Come risultato dei loro scambi di idee, a Mussolini fu assicurato il finanziamento del nuovo giornale. Naldi promise pure che la provenienza di qualunque sovvenzione sarebbe stata tenuta segreta perché fosse «un denaro che io possa accettare», come Mussolini aveva dichiarato.35 I due si incontrarono all’albergo Venezia di Milano, dove Mussolini colpì l’interlocutore per il «volto pallido, segnato da un paio di occhi neri, brillanti e fissi come quelli di una bambola di porcellana».36

In seguito i due si recarono in Svizzera a cercare finanziamenti presso i servizi segreti francesi, in un viaggio nel corso del quale furono rispettate le differenze di classe. L’elegante Naldi, infatti, alloggiò come sempre nel migliore albergo, mentre Mussolini divise con un suo conoscente, Mario Girardon, la camera di un alloggio più modesto. Naldi fu abbastanza generoso da offrire ai due una serata trascorsa a bere, mangiare, ballare e andare a donne. Quindi un po’ di denaro cambiò di mano e vennero fatte promesse di ulteriori finanziamenti. Quella sera Girardon, dopo aver tentato invano di discutere con il suo amico delle idee di Sorel, concluse: «Ma Mussolini non ama invischiarsi in complicazioni dottrinali: quando gli piace una teoria, l’accetta in blocco così come è, e la rende popolare». Tornato nella camera d’albergo constatò che la biancheria di Mussolini era lisa e i suoi polsini sfilacciati, e che si radeva quasi con rabbia, con mosse frettolose e distratte. Confinati insieme com’erano, Girardon notò perfino che Mussolini aveva i piedi grossi.37

Come va letta questa storia di corruzione? In passato Mussolini non era sembrato avido, anche se aveva chiesto denaro a chiunque fosse stato disposto a prestargliene e aveva speso per sé e a suo piacimento tutto ciò che aveva racimolato. Neppure in seguito, durante il suo regime, fu corrotto nel senso in cui lo fu il generale Franco38 o come in effetti lo furono molti politici fascisti, anche se non fu poi così disinteressato quanto amava dichiarare la propaganda ufficiale. Nell’accettare il tipo di finanziamento che ora gli veniva offerto – inclusi i sussidi dell’ambasciata francese39 e, dopo il 1917, di quella britannica40 –, Mussolini infrangeva inesorabilmente i codici del movimento socialista, ignorando le invettive appassionate della Rafanelli e di molti altri compagni che si erano scagliati contro gli effetti inquinanti dell’oro dei padroni. Qualsiasi fosse il tenore delle sue proteste rivoluzionarie, non sarebbe mai più potuto tornare indietro. Ma se abbandonava l’ortodossia socialista, forse poteva ritrovare un’identità come «professor Mussolini», cioè come intellettuale indipendente che aveva le proprie idee e che, con malcelata presunzione, dava per scontato che qualcun altro avrebbe pagato per la loro pubblicazione.

Se questa era la posizione di Mussolini alla fine del 1914, bisogna riconoscere quanto fosse precaria. I grandi e i potenti non avevano particolare bisogno di lui. Una significativa valutazione di questo fatto si trova nelle pagine del diario di Ferdinando Martini, allora ministro delle Colonie, liberale toscano ex governatore dell’Eritrea (dove aveva sconsideratamente incoraggiato il genocidio della popolazione locale) e che in seguito aveva tentato senza successo di scrivere libretti d’opera per Giacomo Puccini.41 Martini faceva parte del gran mondo. Fin dal 10 ottobre 1914 sapeva, forse dalle conversazioni avute con Naldi, che Mussolini, benché non ancora pronto a esporsi a favore della guerra, aveva dichiarato: «Ma se la guerra sarà necessaria, anche i socialisti faranno il loro dovere».42 Poco prima di Natale, Martini ebbe un altro incontro con un infastidito Naldi. Questi spiegò che aveva dato del denaro a Mussolini, sapendo che l’ex direttore dell’«Avanti!» avrebbe portato alla causa patriottica un intero gruppo di settentrionali di sinistra. Tuttavia lamentava di non poter sostenere da solo l’oneroso impegno finanziario di quell’impresa e per questo aveva parlato con un avvocato di Bologna che, a sua volta, aveva incontrato il deputato locale Luigi Fera. Questi, da parte sua, aveva promesso di sottoporre la cosa all’attenzione del ministro Vittorio Emanuele Orlando, che avrebbe indotto il primo ministro Salandra a occuparsi del caso. A un certo punto, però, la trafila si era interrotta. Naldi si rivolse perciò a Martini chiedendogli di intervenire, perché c’era urgente bisogno di una somma di almeno 25.000 lire.43 Che Mussolini potesse rallegrarsi del finanziamento e usarlo per sostenere la sua causa era ovvio, ma era altrettanto evidente che si trovava al fondo di una lunga e complessa catena di clientele, le cui regole erano ben note a tutti gli italiani. Il suo status, pertanto, non era ancora quello di un potenziale leader nazionale.

Sembra che, dopo l’appello di Naldi, Martini si sia dato da fare. Continuò a proteggere Mussolini anche se, nel 1916, lo considerava «esaltato» o addirittura «pazzo» per l’entità delle annessioni territoriali che esigeva per l’Italia nell’Adriatico. L’utilità di Mussolini, ricordava Martini, si misurava a livello nazionale.44 Carlo Sforza, un altro schietto esponente dell’élite italiana che, insolitamente, dopo il 1922 rifiutò di accettare le imposizioni del fascismo, scrisse anch’egli che il carattere di Mussolini era quello dell’«autodidatta un po’ pretenzioso».45 Il suo commento e l’atteggiamento di Martini dimostravano come Mussolini, uscito dal movimento socialista, si fosse avventurato in mari che per il momento era poco preparato a navigare. Malgrado l’asprezza e la frequenza delle lotte di fazione combattute nell’ambito del partito, il socialismo offriva ai suoi membri, se non altro, un gratificante senso di appartenenza, un posto nel mondo, una speranza per il futuro e un motivo di ottimismo. Questi aspetti erano tanto più consolatori quando il divario sociale tra un Martini o uno Sforza e un Mussolini era così vistoso. Un contemporaneo ricordava quest’ultimo diretto alle riunioni chiave dell’ottobre-novembre 1914 con il volto color cenere, tremante di rabbia.46 Il suo malumore era giustificato. Optando per la guerra aveva compiuto un passo molto pericoloso che, verso la fine del 1914, non prometteva certo di portargli gioia o serenità e che forse lo indusse in seguito a sostituire la speranza con un cinismo sempre più profondo sul senso della propria vita. I colleghi della sinistra che cambiarono bandiera insieme a lui e collaborarono ai primi numeri del giornale – Sandro Giuliani, Ugo Marchetti, Alessandro Chiavolini, Nicola Bonservizi, Ottavio Dinale, Margherita Sarfatti e Manlio Morgagni – non uscirono mai dal suo cuore,47 ma il prosieguo delle sue «amicizie» fu probabilmente alimentato tanto da una serie di sentimenti positivi quanto da un semplice senso di cameratismo perduto. Una parte del disdegno manifestato sempre più spesso da Mussolini verso i suoi collaboratori più vicini può essere scaturito dalla disperata consapevolezza che molti di loro fossero anch’essi dei «topi».

Qual era, dunque, la linea perseguita dal «Popolo d’Italia»? Il 15 novembre Mussolini proclamò che «in un’epoca di liquidazione generale come la presente» i destini del socialismo europeo erano legati ai risultati della guerra. I suoi avversari, nel loro vuoto intellettuale, parteggiavano per la morte. Perciò lui lanciava un appello ai «giovani d’Italia; giovani delle officine e degli atenei; giovani d’anni e giovani di spirito; giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di “fare” la storia»; per loro evocava «una parola paurosa e fascinatrice: guerra!».48 In un secondo editoriale si sforzò di essere più preciso. Era nel supremo interesse del proletariato che la guerra finisse rapidamente, e in questo dopotutto consisteva «l’illusione della guerra breve» di Mussolini. In caso contrario, l’odio reciproco avrebbe impregnato troppo profondamente le società. La Germania andava sconfitta e l’influenza della Russia sovietica sull’Intesa doveva diminuire. Bisognava agire, e subito. «Snazionalizzare il proletariato è una colpa, disumanizzarlo è un delitto», e questo era quanto proponeva una politica di neutralità assoluta.49

Nonostante l’urgenza di questi temi, Mussolini dedicò molte colonne del suo quotidiano anche alla polemica strettamente personale. Litigò ferocemente con coloro che l’avevano espulso dal partito. Erano stati loro a cominciare la lotta, dichiarò con decisione.50 In ogni caso, lui si sarebbe dimostrato un combattente vigoroso. Come disse a un vecchio amico di Oneglia, personalmente trovava conforto ed esempio nel motto «occhio per occhio, dente per dente».51 I suoi nemici gli avevano inferto «una pugnalata alle spalle»; erano la specie peggiore di vigliacchi, non migliori «di certe canaglie».52 Gli ex compagni di Forlì, poi, erano particolarmente colpevoli. «Piccoli istrioni» e «cannibali», potevano tentare di impedirgli di parlare, ma avrebbero fallito e comunque, disse, «io sono quello di ieri … Mussolini è … un soldato tenace e disinteressato di tutte le cause della libertà e della giustizia umana».53 Egli, prima o poi, avrebbe sconfitto i suoi spregevoli avversari.54 «Finché mi resta una penna in mano e un “revolver” in tasca, io non temo nessuno», dichiarò in tono melodrammatico ai lettori, probabilmente sbalorditi, del quotidiano conservatore «Il Giornale d’Italia» a cui aveva concesso un’intervista.55 In verità non era un’affermazione del tutto retorica. Il duello continuava a essere una pratica accettabile nel mondo intellettuale e politico di cui Mussolini faceva parte. Andrea Costa ne affrontò uno e nel 1898 il repubblicano Felice Cavallotti era morto nel corso del suo trentatreesimo «conflitto d’onore».56 Sebbene il «Popolo d’Italia» si preoccupasse di condannare il «disgustoso» duello di stile universitario tedesco,57 Mussolini era dotato del temperamento adatto per parteciparvi, e l’espulsione dalle schiere socialiste sbaragliò anche le sue ultime resistenze a farlo. Nel febbraio 1915 affrontò in tre assalti Lino Merlino; in marzo, si scontrò in otto assalti con Claudio Treves, suo predecessore all’«Avanti!». Mussolini fu ferito una volta, Treves tre, in uno scontro che, a quanto si disse, fu condotto con energia e veemenza insolite; la disputa si concluse senza una riconciliazione da gentiluomini.58 Duelli a parte, i contemporanei notarono che Mussolini cambiò i suoi abituali ristoranti con posti più esclusivi, cominciò a coltivare il costoso hobby dell’equitazione e, infine, a guidare l’automobile.59

Nei momenti in cui non si dava ai piaceri della vita borghese, cercava di reclutare nuovi adepti per la propria causa; tra i recenti associati c’era Dino Grandi, mazziniano, studente di giurisprudenza e saltuariamente giornalista per «Il Resto del Carlino».60 All’inizio di dicembre del 1914 Mussolini stava già propugnando la costruzione di quelli che chiamava Fasci d’azione rivoluzionaria.61 Il 6 gennaio 1915 il «Popolo d’Italia» pubblicò una bozza di statuto per gli aderenti. Non si trattava di un partito, sottolineò Mussolini con quella che sarebbe diventata una fraseologia caratteristica, ma di «liberi aggruppamenti di quei sovversivi di tutte le scuole e dottrine politiche». Raggruppamenti di natura repubblicana.62 Segretario dei Fasci fu nominato il calabrese Michele Bianchi (anch’egli sarebbe diventato segretario del Partito fascista). Nel direttivo figuravano il contatto sindacalista di Mussolini, Alceste De Ambris, e Giovanni Marinelli, destinato a essere, un decennio più tardi, un importante fascista della prima ora.

I Fasci, proclamò Mussolini, volevano insegnare ai «lavoratori» che solo l’intervento bellico poteva produrre la «rivoluzione sociale», perché tale decisione avrebbe legato l’Italia alla Francia, «culla di cento rivoluzioni», alla Gran Bretagna, «presidio di ogni libertà politica» e al «generoso e eroico» Belgio.63 Spiegò pure come quello che lui definiva già «il movimento fascista» avrebbe potuto contribuire a diffondere gli ideali «di sovversivi, di rivoluzionari, di anticostituzionali» proprio perché non lo vincolavano «le regole e le rigidità di un partito».64

Da principio, questo slancio retorico conquistò ben pochi adepti e anzi, con il passare dei mesi, i problemi di Mussolini aumentarono. Nei dibattiti sull’opportunità per l’Italia di intervenire o meno, il «Popolo d’Italia» non riusciva a trovare un proprio spazio politico e intellettuale. Ai lettori del giornale fu detto che i fondi stavano finendo.65 Il 15 marzo Mussolini confessò a Prezzolini che il giornale contava solo milleseicento abbonati, che in maggioranza pagavano per un mese, non per l’anno intero.66 Era certo una bella cosa discettare sul modo in cui la guerra avrebbe inserito «il popolo italiano» nel processo storico (Mussolini ripeteva ora la didattica affermazione di Prezzolini secondo cui vincere una guerra era, per una nazione, come superare un esame),67 tuttavia «il popolo» non sembrava interessarsi troppo a questa causa e la sua maggioranza, come la maggior parte dei membri del Parlamento, continuava a preferire la neutralità alle altre alternative.

In questi frangenti, Mussolini era caratterialmente portato a inveire contro l’apparente calo di entusiasmo per l’entrata in guerra. Prima dei cosiddetti «giorni radiosi» del maggio 1915, quando sembrò per un momento che Giolitti dovesse tornare al governo, spingendo le folle nazionaliste a mobilitarsi a Roma e in altre città contro questo temuto evento, l’eloquio di Mussolini si distinse per l’estremismo. Sul giornale scrisse che «bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati». «Io credo» aggiunse «con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia il bubbone pestifero che avvelena il sangue della nazione. Occorre estirparlo.»68 Anche la monarchia, se non favorirà la guerra, «deve pagare».69 A Prezzolini che, come sempre, non batteva ciglio di fronte alla ferocia verbale del giovane intellettuale, disse che il modo migliore di trattare con Giolitti era ficcargli «cinque palle di revolver nello stomaco».70 Nella «prima grande guerra del popolo italiano», incalzava, la nazione deve adottare la politica «occhio per occhio, dente per dente». I tedeschi tentano contro di noi una guerra di sterminio, ma a una guerra di sterminio «bisogna rispondere con una guerra di sterminio».71

Quale che fosse la fede di Mussolini nel nazionalismo prima dell’ottobre 1914, di sicuro ora gli riusciva facile pronunciare frasi d’impronta nazionalista. Del tipo: gli svizzeri di lingua tedesca dominavano la Svizzera ed erano «prussiani» in cuor loro, gli italiani dovevano tenere presente questo fatto;72 gli stranieri vedevano altezzosamente gli italiani come «dei suonatori ambulanti, dei venditori di statuette, dei banditi calabresi», bisognava invece farli inchinare davanti alla «nuova, grande Italia».73 Ancora sensibile agli attacchi dei socialisti, Mussolini respingeva tuttavia la loro accusa di essere diventato un imperialista. Il suo eroe del momento era il grande unificatore dei popoli, Giuseppe Garibaldi, che il «Popolo d’Italia» chiamava «il Duce».74 Mussolini non vedeva alcuna necessità che l’Italia annettesse il Canton Ticino, la Corsica e Malta, benché non ne spiegasse il motivo se non affermando caritatevolmente che «come tutti i principi, anche quello di nazionalità non deve essere inteso e praticato in senso “assoluto”, ma in senso relativo». In Dalmazia voleva opporsi alla «slavizzazione» di città «veramente italiane» come Zara (Zadar), Spalato (Split) e Ragusa (Dubrovnik), ma poteva ancora prendere in considerazione una soluzione di compromesso con la Serbia su questo problema.75 Per il Trentino e Trieste, invece, la questione era diversa, dal momento che erano «italiani, geograficamente, storicamente, moralmente italiani».76

Di sicuro Mussolini, allora, era convinto delle proprie argomentazioni, per quanto oggi possano apparire dubbie. Ma stava ingannando se stesso se credeva, come proclamava, di essere ancora schierato dalla parte della rivoluzione. Il 24 maggio 1915, giorno in cui l’Italia dichiarò finalmente guerra all’Austria-Ungheria, scrisse sul suo giornale che, per lui e per tutti gli italiani, «l’Italia è una personalità storica, vivente, corporea, immortale».77 Egli poteva anche non aver firmato per la reazionaria Associazione nazionalista, ma il messaggio che comunicava, malgrado il suo passato socialrivoluzionario, era molto lontano dall’internazionalismo e dal materialismo socialisti.

Alla fine del maggio 1915 l’Italia era in guerra, un conflitto molto singolare dal momento che il governo Salandra-Sonnino cercava di limitarlo alla sola Austria, decidendo di estendere le ostilità alla Germania soltanto nell’agosto 1916.78 Le peculiarità dello sforzo bellico italiano non sempre sono state capite dai non italiani, per molto tempo inclini a ignorare la guerra, oppure a presumere che ciò che era vero sul fronte occidentale dovesse esserlo anche nel «siparietto italiano». Dal punto di vista militare, quella italiana fu soprattutto una guerra di montagna,79 anche se la grande disfatta di Caporetto dell’ottobre-novembre 1917 (che coincise grosso modo con la rivoluzione bolscevica in Russia) portò le truppe austro-tedesche nella pianura settentrionale che si estende fino a Milano.80 Tra il 23 e il 26 ottobre di quell’anno i contingenti delle potenze centrali fecero prigionieri circa 300.000 soldati del Regio esercito.81 Tra questi servitori dello Stato costretti a fuggire verso sud c’era Arnaldo Mussolini.82 Alla fine, però, gli italiani, rinforzati dagli alleati, tennero la sponda del Piave a est di Venezia e nei mesi successivi respinsero gradualmente le potenze centrali prima della discussa «vittoria» finale di Vittorio Veneto. Il 4 novembre 1918, una settimana prima che terminasse la guerra sul fronte occidentale, le forze austriache si arresero.

A quella data circa cinque milioni di italiani, più o meno quanti avevano votato alle elezioni del 1913, avevano prestato servizio militare.83 Alla fine della guerra l’Italia aveva pagato un tributo di oltre mezzo milione di morti, con altrettanti invalidi o mutilati. Come sempre era successo in passato, le conseguenze peggiori della campagna furono subite dal mondo contadino, il gruppo sociale che prima del 1915 aveva abbracciato con meno entusiasmo il concetto di nazione. Nel 1919 si calcolò che circa il 63 per cento degli orfani di guerra apparteneva a famiglie contadine, mentre il professor Salandra aveva dato un magistrale esempio facendo in modo che nessuno dei suoi tre figli prestasse servizio in prima linea.84

Analogamente a quanto avvenne negli altri Stati coinvolti, il conflitto provocò richieste straordinarie sul fronte interno. Nel 1919 un soldato che aveva ricoperto ruoli di comando dichiarò che «nessuno governò in Italia la guerra»,85 ed è chiaro che nessun equivalente italiano di un Hindenburg, di un Clemenceau o di un Lloyd George emerse sugli altri nel panorama istituzionale della nazione. Nessun generale né alcun politico dominò il paese: il potere rimase distribuito tra le varie élite politiche, militari, industriali, terriere, massoniche e burocratiche. Per di più, i costi dello sforzo bellico incisero sulla società italiana come non era mai accaduto prima, e per molti fu un vantaggio. Con il governo nazionale che sborsò, nei tre anni e mezzo di guerra, più di quanto avesse speso in cinquant’anni di amministrazione ordinaria, quel periodo vide un forte incremento dell’apparato burocratico, dei profitti delle industrie integrate legate allo Stato e del numero dei lavoratori. Parecchi operai furono esonerati dalla chiamata alle armi perché la loro competenza in fabbrica non poteva essere sostituita. Ne risultò che questa categoria ebbe un’esperienza del tempo di guerra molto diversa da quella dei contadini.

Nel novembre 1918 l’Italia uscì dall’avventura militare con una vittoria ambigua. La successiva pace di Versailles, che trovò il ministro degli Esteri Sonnino particolarmente impreparato di fronte allo slancio ideale e all’ipocrisia della «nuova diplomazia» wilsoniana, dimostrò subito che la partecipazione alla guerra non aveva migliorato la situazione dell’Italia al cospetto delle grandi potenze. Inoltre, la società italiana era stata radicalmente sconvolta dallo sforzo bellico. Nel 1919 c’era un bisogno ancora più urgente, rispetto al 1914, di riuscire a legare le masse alla compagine statale. L’enorme divario tra politica e società era stato ulteriormente enfatizzato dagli eventi dell’ultimo anno del conflitto. Tra il 1915 e la sconfitta di Caporetto i governi che si susseguirono, per non parlare dei generali – reazionari e monarchici –, avevano cercato di condurre una guerra di tipo tradizionale. Come disse Salandra con la consueta asprezza, l’Italia stava combattendo per il suo sacro egoismo, vale a dire per la conservazione e l’accrescimento degli interessi delle élite al potere. Prima dell’ottobre 1917 queste ultime avevano fatto ben poco per spiegare o giustificare alle masse gli eventi che stavano vivendo. A differenza di tutti gli altri Stati in armi, l’Italia, dopo gli accordi segreti di Londra dell’aprile-maggio 1915, era entrata nel conflitto senza poter contare su nessuna union sacrée, ma piuttosto con la grande maggioranza della popolazione passivamente contraria all’intervento.

Una volta che l’Italia si ritrovò impegnata in battaglia, le necessità dovute al fatto di combattere una guerra di tipo moderno ridussero il divario tra le classi sociali. I soldati e le loro famiglie si videro infatti uniti, nel tentativo di assecondare lo sforzo nazionale, a quei nuovi gruppi sociali che erano stati economicamente avvantaggiati dalla guerra. Dopo il maggio 1915 la precedente maggioranza parlamentare giolittiana decrebbe a favore della parte più conservatrice dello schieramento liberale. Il povero Vittorio Emanuele dovette abituarsi a essere chiamato «il re soldato», nonostante la bassa statura e i modi semplici. Ma la vera mossa per propagandare la guerra e predicare l’appartenenza di tutti gli italiani alla nazione fu fatta solo negli ultimi dodici mesi del conflitto. Un uomo si unì a Mussolini in questa causa: Roberto Farinacci, già socialista riformista, poi interventista e soldato. Richiamato dal fronte per riprendere la sua professione di operaio specializzato delle ferrovie, divenne corrispondente del «Popolo d’Italia» a Cremona, sua città d’adozione.86 Da allora in poi si convinse che Caporetto aveva segnato il punto di rottura «tra la vecchia e la nuova Italia».87 Alla fine della guerra il processo di nazionalizzazione conservava una freschezza e un vigore che spesso, invece, vennero meno agli altri Stati che avevano combattuto. Ciononostante, l’effetto della propaganda nazionalizzatrice rimase circoscritto: non tutti gli italiani erano disposti a cedere la propria identità alla nazione. Piuttosto, nel 1919, gran parte della vita della società italiana fu caratterizzata da dispute sul significato della guerra e sulle sue implicazioni per il futuro.

La prima guerra mondiale di Mussolini ebbe due momenti: uno militare e uno politico. Non si era offerto volontario,88 ma aderì alla chiamata alle armi. Il 2 settembre 1915 celebrò il proprio reclutamento con un articolo sul suo giornale89 (da allora in poi affidato alla direzione di Manlio Morgagni).90 La storia di Mussolini soldato divenne parte integrante della costruzione fascista dell’immagine del Duce, forse l’elemento principale. Come si espresse un verboso propagandista, ogni «legionario» del nuovo Stato fascista era rigorosamente disciplinato ed entusiasticamente romantico perché, tra gli armati, la sua personalità si fondeva con quella del grande legionario Mussolini, il cui spirito onnipresente diventava «il creatore, l’animatore, la guida infallibile» di ogni soldato.91

Fonte essenziale di simile enfasi era il diario di guerra di Mussolini, orgogliosamente stampato nel 1923 dall’Imperia, casa editrice ufficiale del fascismo, e letto in seguito con riverenza dagli scolari italiani e dai sostenitori del regime.92 Dapprima pubblicato a puntate sul «Popolo d’Italia» tra il 1915 e il 1917, il diario ha goduto di tanta attenzione che è difficile leggerne le pagine senza collegarle al futuro mito del Duce, a quel tempo non ancora completamente consolidato. Tuttavia, esso contiene informazioni significative, dirette e indirette. Il bersagliere Mussolini credeva nel pragmatismo, esattamente come deve fare un soldato, ed esprimeva le proprie opinioni con frasi lapidarie. Era lieto di essere al fronte: «È tempo di guerra, si va alla guerra».93 «La vita in trincea è la vita naturale, primitiva» anche se a tratti monotona. «Pioggia e pidocchi, ecco i veri nemici del soldato italiano. Il cannone viene dopo.»94

«Guerra grigia» spiegò «guerra di rassegnazione, di pazienza, di tenacia.» I soldati «l’accettano come un dovere che non si discute». La politica in tempo di guerra era semplice. Mussolini diceva di non aver mai sentito parlare di neutralità o di intervento. I soldati contadini venuti dai villaggi più remoti probabilmente non avrebbero mai potuto capire queste parole così difficili e inconsuete.95 Gli emigranti rimpatriati, soprattutto quelli venuti dagli Stati Uniti, erano i combattenti migliori, pensava Mussolini (benché non comprendesse se la loro forza e il loro impegno derivavano dall’essere stati nazionalizzati e/o democratizzati all’estero).96 Gli abitanti dei piccoli paesi vicini all’Isonzo, per contro, erano ambigui sulla guerra: «Questi sloveni non ci amano ancora», annotò mentre liquidava il paese di Caporetto come una «piccola, squallida città slovena».97 La tecnologia e l’efficienza erano accettabili, ma i muli erano gli ausiliari più utili dell’esercito italiano.98 Sull’alto fronte alpino (la sua postazione era a quasi duemila metri d’altitudine), dove i soldati dovevano combattere su pendii con un’inclinazione dell’80 per cento e potevano muoversi solo legati in cordata, Mussolini trovò anche l’occasione di ammirare il paesaggio e divagare sulle sue attrattive.99

Per quanto riguardava le differenze di classe e di grado che vengono rilevate in altri diari di guerra, Mussolini aveva relativamente poco da dire. Nei primi tempi lamentò che un colonnello non riusciva a spronare i soldati perché insisteva a parlare loro come se fossero scolaretti, non uomini.100 Nello stesso modo, annotava come i soldati in prima linea sospettassero che, per colpa delle macchinazioni di una «camorra» tra caporali, le migliori razioni venissero trafugate prima di giungere a loro.101 Si esaltava per l’intrepida abilità dimostrata nel rubacchiare grandi quantità di cioccolato o di sardine per i camerati in trincea ogni volta che aveva l’occasione di entrare nel magazzino della compagnia.102 Ma soprattutto non cavillava sulle differenze di grado ed era anzi più disposto ad accettarle di quanto lo fosse stato a proposito delle differenze di classe nel mondo civile. Non mancavano momenti di vanità: gli piaceva essere salutato come «il giornalista interventista Benito Mussolini». Doveva comunque ammettere di essere l’unico soldato della sua brigata a leggere i giornali che arrivavano sporadicamente dalla pianura: le sole cose che contavano per i suoi camerati erano la neve e il freddo pungente.103

Certe volte si comportava in modo quasi deferente, qualità insolita per lui. Il 23 febbraio 1917 fu ferito dalla scheggia di una granata esplosa in anticipo durante un’esercitazione nelle retrovie. Un fedele biografo avrebbe affermato che un frammento diretto al cuore venne intercettato da un libro che Mussolini teneva su di sé,104 mentre il suo diario riferisce soltanto che aveva avuto più di quaranta di febbre.105 I critici sostengono però che il vero problema fosse la «neurosifilide» che si manifestava nell’«infiammazione del tessuto osseo dello stinco destro di Mussolini». Asseriscono che la faccenda fu nascosta grazie agli sforzi combinati di un medico amico di Leonida Bissolati, che agì come protettore politico, e del re. Quel che è certo è che dall’aprile all’agosto 1917 Mussolini trascorse un periodo di tempo sorprendentemente lungo ricoverato presso la Croce Rossa di Milano. Ciononostante, l’asserzione relativa alla sifilide rimane indimostrata, visto che – come abbiamo osservato nel capitolo primo – sia i medici tedeschi sia quelli americani negarono che Mussolini avesse mai avuto quella malattia, come fecero anche gli investigatori italiani nel 1925.106 Per quanto riguardava la propaganda più tarda, l’evento chiave si verificò quando Mussolini, in seguito al ferimento, fu presentato al re Vittorio Emanuele, in visita ufficiale all’ospedale militare di Ronchi. Si scambiarono delle banalità che, durante tutto il regime fascista, vennero ripubblicate come solenni e significative:

«Come sta, Mussolini?»

«Non troppo bene, Maestà.»

«Bravo Mussolini! Sopporti con rassegnazione l’immobilità e il dolore.»

«Grazie, Maestà.»107

In conclusione, il diario di guerra di Mussolini acquistò rilevanza soltanto dopo che il suo autore ascese al rango di dittatore. Naturalmente il soldato Mussolini era un patriota. Si commosse quando attraversò il confine del Trentino da cui le autorità austriache tempo addietro lo avevano espulso senza cerimonie. In una circostanza si rallegrò del fatto che la guerra fosse stata una sorta di crogiolo dei regionalismi, da cui si sarebbe potuta forgiare un’Italia autenticamente unita.108 In pari tempo l’esperienza bellica confermò la sua fede nel trionfo della volontà: «Vincerà chi vorrà vincere. Vincerà chi disporrà delle maggiori riserve di energia psichica volitiva».109 Senza dubbio queste idee sono difficilmente conciliabili con l’adesione del Mussolini prebellico al materialismo socialista. Tuttavia, sui vari fronti della prima guerra mondiale, non costituivano una fede o una scala di valori ben precise. Il caporale Mussolini era, sotto molti aspetti, un soldato come qualunque altro.

Questa normalità, spesso rifuggita in passato, trovava conferma nella sua stessa vita di famiglia. Il 17 dicembre 1915, dopo essere stato ricoverato in ospedale per un attacco di tifo (occasione nella quale ricevette due visite del fratello minore Arnaldo)110 a seguito del quale fece ritorno a casa in licenza, Mussolini sposò ufficialmente Rachele Guidi in una cerimonia civile. Nove mesi dopo, il 27 settembre 1916, la sposa diede alla luce un figlio a cui fu dato il nome, appropriato visto il momento, di Vittorio. Un secondo figlio, Bruno, sarebbe nato il 22 aprile 1918. Durante quella gravidanza Edvige Mussolini abitò per un certo periodo con Rachele.111 Esonerato come sempre dalle incombenze domestiche, Mussolini ogni tanto suonava «qualche esercizio del Liszt» insieme a Edda, la figlia prediletta e finalmente legittimata.112

Sistemare le questioni familiari era diventato opportuno, anche perché l’11 novembre 1915 Mussolini era diventato padre di un altro bambino, che la madre aveva chiamato Benito Albino. Anche questo Benito avrebbe rischiato di essere una vittima della seconda guerra mondiale.113 La madre della sfortunata creatura era Ida Irene Dalser, originaria del Trentino, proprietaria per un certo periodo di un salone di bellezza a Milano, chiamato pomposamente «Salone orientale d’igiene e bellezza Mademoiselle Ida». A quanto pare aveva conosciuto Mussolini all’«Avanti!» nel febbraio 1913 e lo aveva seguito al «Popolo d’Italia», vendendo il salone di bellezza nel novembre 1914 per contribuire al lancio del giornale. La Dalser era nata nell’agosto 1880 e si inseriva dunque nella scia di Margherita Sarfatti e Leda Rafanelli nell’essere un poco più vecchia del suo amante. L’ufficialità della relazione è dimostrata dal fatto che i superiori di Mussolini diedero notizia della malattia del bersagliere a lei, non a Rachele; ciò forse suggerirebbe che Ida e Benito avessero contratto una qualche forma di matrimonio religioso alla fine del 1914.114 Mussolini, da parte sua, riconosceva questo legame e versava a Ida una certa somma come «assegno familiare», a quanto sembra 200 lire al mese dal luglio 1916.

Quella bigamia bohémien, tuttavia – si dice che la Dalser portò il piccolo Benito al capezzale di Mussolini il 17 dicembre, ovvero il giorno dopo il matrimonio con Rachele –, non doveva essere accettata pubblicamente da un austero dittatore. Negli anni Venti, agendo come faceva così spesso tramite Arnaldo, Mussolini versava un capitale con un interesse del 5 per cento per sopperire alle spese di Benito Albino, anche se non si prese mai la pena di vedere il piccolo.115 Tuttavia, la guerra segnò la vittoria di Rachele, che prese a deridere la rivale chiamandola «la matta», attribuendole in tal modo proprio il nomignolo che altri avevano usato per descrivere suo marito. Dopo il 1922 quella parola doveva acquisire un significato più sinistro per Ida Dalser e il piccolo Benito Albino. Arnaldo Mussolini ebbe di nuovo un ruolo di primo piano nel separare madre e figlio nel 1924 e nel confinare la Dalser in un ricovero per pazzi a Pergine, vicino a Trento, nel 1926, dove lei veniva pesantemente drogata, anche se continuò a scrivere febbrilmente a Mussolini. Fuggì dal ricovero nel 1935 solo per essere rinchiusa a San Clemente, nella laguna veneta, dove morì il 3 dicembre 1937. Il figlio non fu più fortunato e morì anche lui in un istituto psichiatrico, nel suo caso a Limbiate, vicino a Milano, il 26 agosto 1942. Vi era stato mandato nel 1935 dopo essere stato rimpatriato d’urgenza dalle file della marina italiana in Africa orientale.

Il fatto che Rachele avesse avuto partita vinta nel matrimonio non tenne a freno i numerosi amori di Benito. Secondo i biografi, Mussolini era ancora innamorato di Margherita Sarfatti, la quale aveva superato i dubbi iniziali sulla guerra ed era diventata patriota. Il figlio maggiore di Margherita, Roberto, morì eroicamente in guerra e il suo sacrificio rafforzò le simpatie politiche tra la Sarfatti e Mussolini.116 Qualsiasi cosa rappresentasse questa relazione, gli eventi avevano dimostrato chiaramente che Rachele era a tutti gli effetti la moglie legittima di Mussolini e la persona che sovrintendeva all’andamento della casa. Nella visione patriarcale e mediterranea del Duce potevano esserci molte altre donne, ma la guerra confermava che c’era una sola Rachele.

Ora la vita domestica di Mussolini sarebbe anche potuta diventare un po’ meno bohémien, ma il grande conflitto stava complicando la sua esistenza in altri modi. Nel 1914 aveva raggiunto una grande popolarità tra i socialisti. Ma l’entrata in guerra dell’Italia, per quanto da lui caldeggiata, ne aveva effettivamente offuscato l’influenza politica e l’autorità. Durante l’intervento, poi, non aveva potuto competere con figure grandiose come l’esuberante poeta Gabriele d’Annunzio, autodefinitosi il più grande amatore del mondo, né con il facoltoso leader del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, o con una serie di nazionalisti affermati, dal filosofo Enrico Corradini al giornalista e deputato al Parlamento Luigi Federzoni. Al loro confronto, egli era certo un personaggio di minor spessore, emerso da una classe decisamente inferiore, dotato di una cultura che in quelli suscitava commiserazione. Nella valutazione di molti, Mussolini continuava a essere uno zotico provinciale. Non desta stupore il fatto che le autorità militari, persuase che non avesse accantonato il suo passato da sovversivo, decidessero di non ammetterlo al corso allievi ufficiali.117 La sua classe e la sua cultura, ne erano snobisticamente convinti, lo qualificavano piuttosto per i gradi di sottufficiale.

Nemmeno il «Popolo d’Italia» ebbe migliore fortuna mentre egli era al fronte. Nelle settimane precedenti la partenza Mussolini aveva associato violenti attacchi ai socialisti (persino Marx ed Engels, sosteneva ora, erano in cuor loro dei nazionalisti tedeschi)118 con la stridente affermazione che sarebbe stata la produzione a vincere la guerra. «Lavorare e combattere: in questa formula sta il segreto della vittoria.»119 Questa guerra, proclamò, era la guerra del popolo. Gli italiani potevano essere motivati a vincerla quanto lo erano stati i soldati rivoluzionari francesi a Valmy nel 1792.120 Ma non appena Mussolini ebbe lasciato la direzione del giornale, la potenza retorica del «Popolo d’Italia» svanì. Le persone che lo sostituirono mancavano della sua passione e capacità manageriale. Per esempio si diceva che il direttore Morgagni, anziché aumentare le vendite, spendesse tempo e denaro per pagare di nascosto i conti d’albergo di Ida Dalser e per altre spese straordinarie.121 Nel frattempo, i Fasci d’azione rivoluzionaria stavano perdendo credito, sebbene Mussolini scrivesse dal fronte sostenendo la loro utilità non appena fosse finita l’era dei «partiti “statici”».122 Nel 1917 il giornale piombò in una crisi finanziaria. Fu salvato per un po’ di tempo da Cesare Goldmann, uomo d’affari milanese di origine ebraica, e in seguito venne aiutato dal gigante dell’industria pesante, la società di costruzioni navali Ansaldo.123

Malgrado tutto, la ferita e il ricovero di Mussolini in ospedale caddero in un momento opportuno. I giornalisti superstiti del «Popolo d’Italia» avevano un’alta opinione del sacrificio del loro direttore. Scrissero che era il Duce, l’erede di Garibaldi e, come se quell’appellativo non fosse sufficiente, lo definirono «l’Ispiratore, l’Incitatore, il Nostro».124 Altri nella sua cerchia affermavano che era capace di animare una causa meglio di chiunque.125 Questo marcato servilismo sembrò tuttavia giustificato, nel giugno 1917, quando, non appena Mussolini tornò a occupare la poltrona direttiva del giornale, esso ritrovò prontamente la verve degli inizi. Ora egli insisteva affinché gli italiani scatenassero quella che sarebbe stata chiamata la «guerra totale». Benché la censura fosse severa, Mussolini, temerario come sempre, ne sfidò l’autorità chiedendo un governo «vero», che fosse soprattutto coraggioso e combattesse contro «i germanici», e in special modo, con grande impegno, i tedeschi imperiali.126 La pseudopacificazione di uomini deboli come «Sua Santità Papa “Pilato” XV» doveva essere ricusata.127 Occorreva una propaganda più efficace per accrescere l’indispensabile «salute morale» dell’esercito e dargli in tal modo «un’anima». C’era bisogno di un maggiore impulso per fornire «un contenuto “sociale” alla guerra».128 Il più delle volte il suo linguaggio era duro, ma in un’occasione Mussolini si lasciò sfuggire una visione utopistica: immaginò un arcadico mondo postbellico in cui all’odio sarebbe subentrato l’amore, alla sofferenza la tranquillità, alla distruzione la produzione. Con il ritorno della pace, meditò brevemente, non ci sarebbero più state «convulsioni», bensì «una “détente” degli spiriti e dei corpi».129

La battaglia di Caporetto pose fine a quei fantasiosi vagheggiamenti. Ora i più aspri moniti lanciati da Mussolini in passato sembravano giustificati, mentre l’Italia vacillava sull’orlo della completa sconfitta. Contro questa minaccia, proclamava, bisognava opporre una resistenza totale. «Per questo la Nazione oggi deve essere l’esercito, come l’esercito è la Nazione.»130 Gli italiani dovevano mostrare la nobiltà della loro razza e marciare al battito di «un cuore solo».131 I socialisti e gli altri traditori dovevano essere trattati senza rispetto né clemenza.132 La frivolezza doveva finire, i concerti d’orchestra, i teatri, gli ippodromi e i caffè andavano chiusi; l’intero popolo doveva essere militarizzato e comportarsi con la stessa disciplina dei soldati.133 Nemmeno i contadini dovevano essere dimenticati: «Per salvare i contadini alla Nazione, bisogna dare la terra ai contadini», scrisse enfaticamente.134 Il paese doveva essere affidato a coloro che combattevano per esso.135 Insomma, concludeva, per l’Italia «ci vuole un governo, un uomo. Un uomo che abbia, quando occorra, la mano dal tocco delicato dell’artista, e il pugno pesante del guerriero. Un sensitivo e un volitivo. Un uomo che conosca il popolo, ami il popolo, indirizzi e pieghi – anche colla violenza – il popolo». Sotto un simile sovrano (la sua scelta per quel ruolo si può facilmente immaginare), l’Italia avrebbe «un governo di guerra, che viva soltanto della guerra». E ancora: «Un governo duttile che adegui la sua azione alle circostanze e agli ambienti». La sua linea di condotta a quel punto sarebbe stata semplice: «La propaganda per gli ingenui e per gli ignavi, il piombo per le canaglie».136

Per molti i sentimenti di Mussolini erano troppo radicali (e il suo interesse personale sfacciato come al solito), ma i suoi argomenti non erano del tutto fuori luogo per quei tempi. De Felice forse esagera quando sostiene che Caporetto convertì Mussolini da agitatore a politico,137 tuttavia è indubbio che da allora il conflitto fu combattuto in un’atmosfera diversa, diventando una specie di «guerra di popolo». La nuova situazione creò un certo spazio di manovra per un uomo come Mussolini. Nel dicembre 1917, più di centocinquanta deputati e novanta senatori (incluso Salandra) si associarono in un Fascio parlamentare di difesa nazionale, adottando nuovamente un termine che si stava affermando con decisione nel gergo politico. Mussolini celebrò con calore i «centocinquantadue deputati fascisti» in un articolo del gennaio 1918.138 Il nuovo primo ministro, il liberal-moderato Vittorio Emanuele Orlando, da parte sua adottò un atteggiamento al tempo stesso populista e nazionalista, sostenendo l’espansionismo all’estero e la riforma sociale in patria, e dando l’impressione di promettere la distribuzione della terra agli eroici contadini-soldati della nazione. Mussolini non era più marxista, ma sembrava che il corso della storia andasse di nuovo nella sua direzione.

Occasionalmente si definiva ancora socialista, ma aggiungendo quasi sempre una precisazione. Il suo socialismo poteva solo essere «antimarxista» e «nazionale»139 scrisse, perché «rinnegare la Patria vuol dire rinnegare la madre».140 Ormai aveva scordato la vecchia antipatia per i capitalisti americani, mentre celebrava l’arrivo in Europa dei soldati del «nuovo mondo», pieni della verve e dell’energia della «giovane razza», agli ordini di «Wilson il saggio», il leader impareggiabile che aveva dimostrato quanto era «santa» la causa dell’Intesa.141 Mussolini agognava sempre a una «dittatura» che, diceva, poteva essere benissimo «democratica» quanto «reazionaria». «È solo il dittatore che può prendere gli uomini dove sono, utilizzarli nel miglior modo possibile.» Il suo candidato per questo ruolo era, come annotò nel maggio 1918, Wilson, il «nobile», «reciso e tagliente».142 Questi, con le sue parole, come un novello Mosè accompagnava gli europei in un mondo migliore.143 Ancora nel gennaio 1919, quando sosteneva che «l’imperialismo è la legge eterna e immutabile della vita», Mussolini stava in realtà onorando «l’impero di Wilson» il quale, scriveva in tono lirico, non conosceva limiti perché esprimeva «i bisogni, le speranze, la fede dell’anima umana».144 Wilson era «il Duce magnifico dei popoli».145

Quanto accadeva nella Russia sovietica, invece, faceva paura. Lo scellerato trattato di Brest-Litovsk era esattamente ciò che il socialismo ufficiale prospettava per l’Italia.146 Il leninismo implicava autocrazia, bestialità, terrore e caos,147 il fallimento del «socialismo».148 Come Mussolini disse dopo la fine della guerra, i socialisti sovietici non erano migliori degli assassini.149 Ciò che facevano in Russia l’avrebbero fatto anche in Italia, avendone l’opportunità.

In lui sopravviveva ancora qualche riflesso dell’antica dialettica marxista. Alla fine del 1917 aveva spiegato chiaramente di sostenere una sorta di «trincerocrazia» (governo di coloro che avevano fatto vita di trincea). L’Italia, dichiarava, si stava dividendo in due grandi partiti: «quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati; quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto; quelli che hanno lavorato e i parassiti».150 Ciò che contava era la produzione (non, come avrebbe pensato un tempo, il salario e la condizione sociale). Un’amministrazione efficiente avrebbe potuto mobilitare con facilità centomila donne per sostituire gli uomini di buona condizione fisica occupati nelle fabbriche.151 Nell’agosto 1918 il sottotitolo del «Popolo d’Italia» fu modificato da «giornale socialista» a giornale «dei combattenti e dei produttori», mentre l’articolo di fondo di Mussolini dichiarava con toni altisonanti che stava nascendo un’internazionale costituita proprio da questi ultimi.152

Per altri aspetti, invece, la linea di Mussolini era ancora incerta. Riguardo alle mire italiane sulla Dalmazia non si comportava ancora da nazionalista assoluto, lasciando intendere con un certo ottimismo, nell’aprile 1918, che i «valori morali» potevano prevalere su quelli «territoriali».153 In piena coerenza con queste affermazioni, accolse favorevolmente la proposta di una maggiore libertà per l’India, commentando con ammirazione i piani «step by step» dei britannici in quel paese.154 Era invece più scettico rispetto alla Società delle Nazioni, i cui lineamenti venivano abbozzati allora. La base concettuale di una simile istituzione, pensava, non si addiceva alla forma mentis italiana.155 Come di consueto, preferiva il realismo all’idealismo. «La “volontà di dominio” è la legge fondamentale della vita dell’universo dalle sue forme più elementari a quelle più elevate.»156 In fondo, l’uomo era animato da una «bestialità divina»,157 e nella sua mente Darwin aveva molto più peso di quanto ne avesse mai avuto Marx.

L’11 novembre 1918, quasi all’improvviso, le ostilità cessarono sul fronte occidentale. Naturalmente il «Popolo d’Italia» celebrò la vittoria dell’Intesa. La caduta dell’Impero romano o quella di Napoleone, scrisse Mussolini con quello che poteva sembrare un riferimento sorprendentemente negativo o stizzito, non era paragonabile alla grandezza di questo evento. Poi aggiunse: «È qualche cosa che dà le vertigini. Tutta la terra trema. Tutti i continenti sono travagliati dalla stessa crisi. Non c’è un solo angolo del pianeta, anche sperduto tra gli oceani immensi, che non sia scosso dal ciclone. Nella vecchia Europa scompaiono uomini, franano sistemi, crollano istituzioni».158 Citando Dante, Mussolini declamava sulla prospettiva che il «lavoro» potesse venir «riscattato».159 L’arrivo della pace avrebbe garantito quella vera «rivoluzione» da lui così spesso esaltata?

In realtà, la fine della guerra minacciava di trasformarsi in un altro vicolo cieco per Mussolini. Una volta finiti i combattimenti, che cosa ne sarebbe stato dell’interventismo di sinistra? E, più importante, come poteva un uomo che era soltanto il membro più eminente di una classe relativamente umile conquistare rispetto e potere in un mondo che, con ogni probabilità, sarebbe ritornato nelle mani delle vecchie élite o dei loro figli? Era estremamente lusinghiero per Mussolini, ancora francofilo, paragonarsi a Georges Clemenceau, la «Tigre» francese, architetto della vittoria, giacobino diventato nazionalista,160 ma altri potevano non essere disposti ad accettare quel parallelo. Per conquistare il rispetto che meritava c’era bisogno di un ulteriore impegno politico e così, già dal 14 novembre 1918, Mussolini si adoperò per dare un’organizzazione ai suoi sodali: «Se nostra, in un certo senso, fu la guerra, nostro dev’essere il dopoguerra», dichiarò pieno di speranza.161 Questi gruppi potevano essere chiamati Fasci per la Costituente.162 Il suo giornale, disse adottando un nuovo stile, era stato «romanamente virile», aveva tenuto in vita «odi tenacissimi e degli amori profondi». Era pronto per «le future battaglie e le future vittorie».163 Poteva essere trasformato in «un grande giornale d’idee e nello stesso tempo di notizie e di informazione».164

Restava ancora da stabilire chi mai avrebbe potuto unirsi a Mussolini e con quale scopo. Le politiche sociali da lui sostenute apparivano senz’altro radicali, ma non era chiaro come la sinistra avrebbe giudicato il suo commento del febbraio 1919, secondo cui «il padrone non esiste più» perché la guerra aveva dimostrato come gli italiani devono lavorare e produrre insieme. Inoltre, il professor Mussolini aveva ancora un gran numero di concorrenti nelle caotiche schiere dell’antisocialismo, del militarismo, del radicalismo. Futuristi, sindacalisti, «democratici», l’Associazione nazionale dei combattenti (l’organizzazione principale dei reduci),165 i nazionalisti, Gabriele d’Annunzio e molti altri speravano che il futuro appartenesse a loro ed erano convinti di aver avuto, personalmente o come gruppo, un ruolo cruciale nella recente vittoria dell’Italia: ora sapevano come meglio riscuotere la loro parte.

Nei primi mesi del 1919 il mondo politico e intellettuale era in continuo mutamento. Mussolini, però, affidava la propria speranza di realizzare finalmente un’azione di tipo unitario a due parole chiave. La prima era il ben noto termine «nazionale», l’altra, meno familiare ma sempre più indicativa, era «fascio». Nel febbraio 1919 circa venti Fasci di combattimento (associazioni degli ex combattenti) erano nati in località che andavano da Venezia a Milano, da Ferrara a Firenze, fino a Napoli, Messina e Cagliari.166 Il 23 marzo 1919 Mussolini convocò i loro rappresentanti, insieme a una folla eterogenea di altri ex interventisti, per una riunione a Milano.167 Tra i convenuti figuravano Chiavolini, Farinacci e Marinelli, a cui si aggiunsero Umberto Pasella, Mario Giampaoli, Corrado Pavolini, Cesare Rossi, Mario Gioda, Ferruccio Vecchi, Filippo Marinetti e parecchi altri.168 Tutti avrebbero recitato un ruolo, per quanto diverso, all’interno della dittatura fascista. In un palazzo che affacciava su piazza San Sepolcro, si riunirono per abbozzare il programma di un’organizzazione nazionale dei Fasci di combattimento. Il movimento fascista stava per nascere ufficialmente.