Nel luglio 1925 Mussolini rispose agli auguri di buon compleanno inviatigli da Rachele con l’amaro commento che, a quarantadue anni, si sentiva «giovanissimo e vecchissimo al tempo stesso».1 Questo atteggiamento così ambivalente verso la vita non deve sorprendere: l’ampiezza dell’attività del fascismo e la sua pretesa di assurgere a regime totalitario esigevano, infatti, un grande dispendio di energie da parte di Mussolini. Si può anche ignorare l’affermazione della propaganda, rivolta ai Balilla, secondo cui il Duce lavorava invariabilmente dalle quattordici alle sedici ore ogni giorno,2 ma il suo principale biografo italiano ha dichiarato che egli dedicava alle questioni politiche «una decina di ore al giorno e anche più».3 Certamente, comunque, non condivise mai la propensione di Hitler alle chiacchiere inutili. Un collega più giovane rilevava che «l’incartamento era la sua gioia, l’ordine cronologico, il riassunto, il quadro sinottico, il dettaglio perspicuo, il riferimento essenziale: le sue delizie». Non gli piaceva improvvisare o parlare prima di essere pienamente informato e preferiva sempre avere sul tavolo un appunto, riservato soltanto a lui, sugli argomenti di ogni riunione.4 Si rendeva conto che un dittatore doveva essere, o sembrare, esperto di tutto. Quando Farinacci insinuò che, una volta insediatosi a Roma, Mussolini non avrebbe più potuto vedere ciò che accadeva tra i sempliciotti delle province, si sentì offeso.5 Nessuna questione era troppo piccola per l’interesse del dittatore, soprattutto in quegli anni fondamentali per la costituzione del sistema fascista. Nel gennaio 1926 si preoccupava addirittura di dare istruzioni ufficiali ai giornali affinché evitassero di scrivere articoli sui suicidi e sui delitti, perché notizie di quel genere costituivano cattivi esempi per «gli spiriti deboli o indeboliti».6

Intimidire la stampa faceva parte del processo di instaurazione della dittatura. Tra il 1926 e il 1929 Mussolini tentò, con esiti alterni, di piegare alla propria volontà la manodopera, il capitale, il mondo contadino (pertanto anche il Sud) e il Partito fascista. Negoziò un patto con la Chiesa cattolica e, per quanto circospetta restasse la sua politica estera, si vantò del fatto che l’Italia stesse diventando «una potenza mondiale, cioè ad interessi non limitati a un dato settore o continente».7 La vera novità rappresentata dalla sua ambizione era la pretesa di entrare nel cuore e nella mente dei suoi sudditi, e in tal modo fare del fascismo una religione politica. Mentre il significato del termine «totalitario» si sfaccettava progressivamente, dopo la sua prima comparsa nel maggio 1923 sul giornale «Il Mondo» di Amendola – dove si alludeva semplicemente al desiderio di una schiacciante vittoria elettorale –,8 la speranza di Mussolini, almeno per un periodo, era quella di stabilire la più organica relazione possibile con il popolo italiano. Malgrado il profondo cinismo che, quasi contro la sua volontà, continuava a insinuarsi nel suo cuore, in quegli anni aspirava a essere un rivoluzionario di tipo nuovo e a trovare una formula politica capace di superare il socialismo che aveva affascinato lui stesso, negli anni giovanili, e molti dei suoi nemici antifascisti.

I suoi ideali, se di questo si trattava, non erano però facili da realizzare. La pietra angolare del nuovo Stato fascista era la repressione e a tale proposito alcuni eventi contribuirono a giustificare un inasprimento delle misure di sorveglianza e fornirono a Mussolini l’occasione per mettere in pratica la sua tattica preferita che, come l’aveva descritta a Farinacci, consisteva «nel prendere gli avversari nel momento del loro massimo disordine e panico».9 L’assassinio progettato da Zaniboni e Capello nel novembre 1925 fu seguito da altri attentati alla vita del Duce. Alle undici del mattino del 7 aprile 1926 una donna irlandese dell’alta società, Violet Gibson,10 gli sparò mentre usciva da un portone in Campidoglio, nel centro storico di Roma dove, paradossalmente, aveva appena inaugurato una conferenza internazionale di chirurgia. Il proiettile riuscì soltanto a scalfirgli il setto nasale, ma Mussolini seppe volgere a proprio favore l’accaduto facendosi fotografare intento al lavoro nonostante un cerotto indicasse il punto in cui la morte l’aveva sfiorato. Poi, verso le 16.30, continuando a ostentare il cerotto, Mussolini tenne un discorso a una riunione di funzionari del partito e impiegati statali. Nel pieno di una drammatica orazione, coniò uno dei motti del regime, sollecitando tutti a «vivere pericolosamente»: SE AVANZO, SEGUITEMI, SE INDIETREGGIO, UCCIDETEMI, SE MUOIO, VENDICATEMI.11 Più tardi, quella stessa sera, quando un gran numero di persone si riunì davanti a palazzo Chigi, Mussolini uscì sul balcone e disse alla folla: «Io mi considero della vostra generazione: cioè appartenente al tipo dell’italiano nuovissimo, che non si sgomenta mai, ma procede sempre; sempre, intrepidamente, per la strada che gli è segnata dal destino».12 Meno spartano, Arnaldo telefonò da Milano piangendo; la chiamata venne intercettata e la polizia registrò il dialogo. Benito, uomo sempre tutto d’un pezzo, gli raccomandò di stare calmo; disse che l’attentato l’aveva disturbato solo «un attimo», ma il fratello, come al solito, colse l’occasione per ringraziare Dio che aveva salvato il Duce da una sorte peggiore.13

Miss Gibson, giudicata mentalmente instabile, fu rimpatriata in Gran Bretagna, dove la diplomazia si era mossa in suo favore,14 ma i giornali fascisti non mancarono di concedersi qualche tirata xenofoba: «La Vita Italiana», per esempio, si scagliò contro «la verminaia straniera».15 Ma un terzo attentato provocò reazioni più dirette da parte delle autorità fasciste. L’11 settembre, Gino Lucetti,16 anarchico ritornato dalla Francia dove era emigrato, lanciò una bomba contro Mussolini che guidava la propria auto in direzione Porta Pia, verso il suo ufficio; otto passanti furono feriti, mentre il Duce rimase illeso. La confusione provocata dall’attentato portò alla nomina di un nuovo capo della polizia, Arturo Bocchini, che prestava servizio in prefettura. Prima che questi potesse adattarsi al nuovo incarico, il 31 ottobre il sedicenne Anteo Zamboni, figlio di anarchici, tentò di sparare al Duce che passava in automobile per le vie di Bologna. Il giovane fu linciato sul posto dai fascisti inferociti. Questo episodio è tuttora oggetto di controversie perché si ipotizzò che Zamboni non fosse il vero autore dell’attentato e che il progetto dell’assassinio fosse stato elaborato a Bologna nei circoli dei dissidenti fascisti, il cui ras, Arpinati, era in polemica con la politica mussoliniana.17

Tuttavia, l’aspetto più significativo dell’affare Zamboni sta nella reazione di Mussolini: i freni alla repressione di Stato furono tolti il 6 novembre. Il Duce, dimissionato il moderato Federzoni dal ministero dell’Interno, gli subentrò e mise in atto le importanti riforme legislative già elaborate dallo stesso Federzoni e da Rocco, entrambi ex nazionalisti (e quindi non fascisti irriducibili). Vennero ufficialmente banditi i partiti di opposizione, i sindacati e le associazioni, e l’Italia fu trasformata in uno Stato a partito unico. I secessionisti aventiniani, lasciati nel limbo dal gennaio 1925, furono definitivamente privati dei loro seggi in Parlamento. Per i reati politici venne ripristinata la pena di morte, della cui abolizione erano stati pionieri, in Europa, il Granducato di Toscana e poi l’Italia unita. Il 25 novembre fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, composto perlopiù da giudici scelti nei ranghi della MVSN. L’emigrazione clandestina fu impedita con maggior rigore. I giorni in cui un Salvemini poteva oltrepassare il confine attraverso il passo del Piccolo San Bernardo mentre le guardie erano a tavola per il pranzo18 erano finiti, almeno in teoria.19 L’Italia si stava trasformando in una fortezza fascista.

Fortemente condizionata dall’ideologia fu anche la scelta del nuovo capo della polizia, Arturo Bocchini, uomo che fino alla morte sarebbe apparso come l’«occulto e potentissimo dittatore del Dittatore».20 Il suo curriculum era quello del tipico burocrate meridionale, figura classica nella storia italiana postrisorgimentale. Era nato nel 1880 (come Margherita Sarfatti e Leda Rafanelli, altre due persone che avevano profondamente colpito il Duce) a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento, tra i monti a est di Napoli.21 Conseguita la laurea in legge, nel 1903 era entrato al servizio dello Stato. Era figlio di un proprietario terriero e aveva diversi fratelli che si consideravano i suoi rappresentanti a livello locale. Una volta ricevuto l’incarico, fece del territorio di Benevento un feudo, dove nulla avveniva senza la sua approvazione e senza che egli ne traesse profitto.22 La sua carriera era sbocciata dopo il 1922, con le nomine a prefetto di Brescia e poi di Bologna23 e Genova, dove era conosciuto per la fermezza con cui reprimeva i fascisti dissidenti, la stessa che avrebbe usato con qualunque nemico dello Stato. Il suo nome era stato segnalato nel 1926 da Federzoni, ma era visto con favore anche da Augusto Turati, il ras di Brescia che in marzo aveva sostituito Farinacci come segretario del PNF.24

Nella sua carriera, Bocchini fu tutto meno che un fanatico credente nella rivoluzione fascista. Ben noto per i suoi appetiti licenziosi, diceva ridendo di essere fascista solo dalla cintola in su.25 Un conoscente tedesco lo ricordava intento a «“massaggiarsi” con gamberi, ostriche, capponi, bicchieri di vecchio Borgogna».26 La sua morte, avvenuta il 2 novembre 1940, è da addebitare a un pranzo luculliano all’albergo Ambasciatori di Roma, seguito da un incontro amoroso con la venticinquenne Maria Letizia De Lieto Vollaro, di nobile famiglia beneventana. I parenti della ragazza, dopo l’evento, furono oggetto di pettegolezzi per aver tentato senza vergogna di impossessarsi della cospicua eredità del defunto, basando la richiesta su un presunto, frettoloso matrimonio tra Maria Letizia e il moribondo capo della polizia.27 Bocchini aveva fatto alcuni deboli tentativi di dissimulare le proprie opinioni in materia di corruzione, ma si aspettava poi preziosi riconoscimenti da chi faceva ricorso alla sua protezione.28 Egli, inoltre, aveva libero accesso al bilancio segreto della polizia. Mussolini, accondiscendente, non chiese mai che venissero fatti controlli sulle sue spese, finanziate da quel bilancio.29 Bocchini si dimostrò altrettanto scaltro nella regolarità con cui, malgrado la retorica fascista sull’unificazione nazionale, riuscì a collocare poliziotti meridionali alla sorveglianza degli antifascisti del Settentrione.30 Non fece nulla nemmeno per scoraggiare i suoi dipendenti dall’abitudine di intercettare le telefonate dei capi fascisti, non esclusi Mussolini e suo fratello (e, più tardi, la sua amante).31

Non era dunque un fascista convinto, somigliava più a Scarpia che a Heinrich Himmler. Verso la fine degli anni Trenta, le polizie fascista e nazista si dovettero incontrare con una certa frequenza, e Bocchini non ebbe difficoltà nella gestione dei suoi rapporti con Himmler, anche se in privato si faceva beffe della «sorridente jena»32 nazista. Il sorriso beffardo gli si gelò quando per il suo cinquantottesimo compleanno, nel febbraio 1938, Bocchini ricevette in regalo dal collega tedesco «un pezzo d’antica quercia del dio Wotan trovato in una palude del Nord Europa».33 Ciononostante, la solenne partecipazione di quest’ultimo e di Heydrich al suo funerale deve avergli procurato un momento di postumo, ironico compiacimento, a maggior ragione per il fatto che Bocchini si era avvicinato al gruppo capeggiato dal ministro degli Esteri Ciano, che temeva le implicazioni dell’alleanza con la Germania e voleva ritardare l’entrata in guerra.34 Il capo della polizia era pure nemico di Starace, segretario del partito,35 del quale probabilmente trovava strana la fede (interessata) nel fascismo. Il loro rapporto può essere stato inasprito dal fatto che Starace fosse originario di Gallipoli, più a sud di Benevento e luogo che Bocchini in cuor suo considerava ancora più arretrato. In conclusione, Bocchini era un italiano venuto dal mondo in cui «il sistema protettore-protetto era una dimensione integrale della vita italiana a ogni livello della società, anche all’interno dello stesso Stato moderno»,36 e incarnava in gran parte l’esatto contrario dell’«uomo nuovo fascista». Egli, in poche parole, rappresentava le «istituzioni» italiane meglio di quanto rappresentasse la rivoluzione fascista.

Tuttavia, si intendeva molto bene con il Duce, che incontrava quasi ogni giorno. Fu la loro collaborazione a procurare a Mussolini l’encomio di uno studioso antifascista, che lo descrisse come il più grande ministro di polizia della storia.37 Nel maggio 1927, durante il discorso tenuto nel giorno dell’Ascensione (con ogni probabilità il più significativo che avesse mai fatto), il Duce espresse pubblicamente il proprio compiacimento per le riforme dei servizi della polizia a cui Bocchini aveva presieduto fino ad allora. «Non è forse vero» domandò, tra il divertimento del rispettoso pubblico fascista, con un accenno di autoumiliazione, che «in un certo senso si può dire che il poliziotto ha preceduto nella storia il professore?»38 La polizia ristrutturata, disse con orgoglio, stava vincendo la battaglia tanto contro la microcriminalità quanto contro la malavita organizzata. Aveva sconfitto l’antifascismo ed era un modello d’intelligenza.39 In seguito continuò a colmare di lodi il capo della polizia e ad apprezzarne la rude compagnia. Nei momenti finali del fascismo, Mussolini usava dichiarare che uno dei motivi della sua debolezza era proprio la morte prematura di Bocchini.40 Questi, del resto, era il tipo d’uomo che non si lasciava impressionare dalla facile retorica sulle infinite virtù del Duce e l’affetto di Mussolini per lui lasciava credere che anch’egli sapesse come, a volte, i fatti contino più delle parole e delle immagini.

Una delle istituzioni nate durante quegli anni fu la polizia segreta, l’Ovra, il cui nome venne forse scelto più per il suono sinistro che per il significato. Bocchini svolse senza dubbio in modo efficiente il compito di sorvegliare e bloccare chiunque complottasse contro il Duce: riempì infatti le carceri, mettendo in stato d’arresto 130.000 italiani.41 Lo spionaggio di Bocchini penetrò addirittura in Vaticano, dove monsignor Enrico Pucci, sacerdote personale di papa Pio XI, era un agente sul suo libro paga.42 Bocchini fu ancora più abile in quello che un postmoderno definirebbe «controllo del discorso», promuovendo un’immagine, che risultò spesso convincente, della «degenerazione» rappresentata dall’antifascismo; al tempo stesso riuscì a infiltrare un numero sempre maggiore di spie nella rete della dissidenza politica, esacerbando così la paura, il sospetto e l’autolesionismo che, in ogni caso, caratterizzavano la vita degli esuli. La censura della stampa, poi, garantiva che le giovani generazioni spesso non conoscessero neppure il nome degli antifascisti fuggiti all’estero o condannati al confino.43 L’attività di Bocchini ebbe quindi successo, nonostante il fatto che, al confronto con altri regimi autoritari e anche con la nostra società contemporanea, il personale dell’Ovra fosse molto scarso: 375 elementi nel 1940.44 Ciò è senza dubbio indicativo dei limiti della classe politica in Italia e di quanto fosse superficiale la penetrazione del fascismo, inteso come religione politica, dell’antifascismo e di qualsiasi ideologia moderna nella vita della grande maggioranza degli italiani.

Altro sistema punitivo adottato era il confino, ereditato dai liberali e ora molto praticato. I dissidenti politici (tra cui parecchi fascisti) venivano trasferiti dalle loro case in qualche villaggio remoto, sempre nel Sud (in particolare nelle isole di Lipari, di Ponza e delle Tremiti),45 dove si riteneva non fossero ancora giunte la civilizzazione e la nazionalizzazione delle masse. Un cospicuo numero di esuli riferì che i carcerieri si rivolgevano istintivamente a loro con gli appellativi di professore o commendatore, considerandoli forse esseri indecifrabili appartenenti a una classe estranea e colta, caduti non si sa come in disgrazia dell’altrettanto indecifrabile sistema.46 Ironicamente si diceva che anche i più umili fra i dipendenti di Mussolini avessero un’opinione analoga su quanto avveniva in quei luoghi.47

Il successo dell’attività poliziesca di Bocchini e il supporto completo da parte del Duce garantivano la relativa moderazione da parte del Tribunale speciale nel ricorso alla pena capitale. Dal 1927 al 1943 il regime decretò quarantadue condanne a morte per reati politici, di cui trentuno eseguite e, di queste, ventidue durante la seconda guerra mondiale. Il gruppo più perseguitato era quello degli sloveni del confine nordorientale: un sacerdote poteva essere mandato al confino semplicemente perché sospettato di aver celebrato una messa in lingua slovena.48 Nel 1927 Mussolini era così preoccupato dal «pericolo slavo» da assicurare a Giuseppe Volpi che erano stati elaborati dei piani per respingere ogni invasione di tipo militare proveniente da quella regione.49 Nell’insieme, il Tribunale speciale perseguì con successo 13.547 casi ed emise condanne per un totale di 27.742 anni di reclusione.50 A queste cifre vanno aggiunte le decine di migliaia di persone che furono mandate al confino, condannate agli arresti domiciliari o altrimenti tenute sotto sorveglianza.51

Dopo il 1945 il più celebrato martire del fascismo fu Antonio Gramsci,52 uno dei fondatori del Partito comunista italiano, deferito al Tribunale speciale nel 1927 e temuto da Mussolini, che intervenne presso i giudici affinché gli comminassero la condanna a vent’anni di carcere. Di salute malferma, Gramsci sopravvisse per dieci anni e morì il 27 aprile 1937, pochi giorni dopo essere uscito di prigione.53 Aveva quarantasei anni. Per molti è stato il simbolo dell’aggressione di Mussolini alla classe operaia in generale, ai suoi rappresentanti e alle sue istituzioni. In una visione di matrice marxista della situazione politica era impossibile analizzare il fascismo senza ammettere in qualche modo che Mussolini era diventato il rappresentante della borghesia.54 Questo accostamento risultò sempre particolarmente amaro per il Duce, dati i trascorsi socialisti della sua giovinezza, e difatti tentò più volte di negarlo. Sul piano della retorica si potrebbero citare le critiche che saltuariamente indirizzava all’irresolutezza e al torpore della borghesia, classe che, a suo avviso, amava scimmiottare i modi dei francesi, degli inglesi e degli americani, trascurando le influenze radicate nell’anima e nel suolo d’Italia.55 Allo stesso modo sosteneva con veemenza che il fascismo, con i suoi sindacati, non intendeva abbandonare la classe operaia, anzi, l’avrebbe difesa in ogni occasione senza infrangere il diritto di proprietà e l’interesse nazionale.56

I sindacalisti non cessarono mai di avere un ruolo all’interno della cerchia di potere del fascismo, tanto che la loro continua presenza incoraggiò alcuni ad affermare che il regime di Mussolini ebbe sempre un aspetto socialmente più radicale di quello di Hitler.57 Dal 1922 al 1928 capo del sindacalismo fascista fu il romagnolo Edmondo Rossoni, vecchio amico del Duce. La sua esperienza di emigrante non si era svolta né in Svizzera né in Austria, bensì negli Stati Uniti, e fu lì, tra la miseria e lo sfruttamento, che si convinse della necessità per i sindacati di sposare il concetto di nazione. Interventista rivoluzionario, nel 1921 egli si era unito al movimento fascista. Dopo la marcia su Roma, fu subito nominato segretario generale della Confederazione delle corporazioni fasciste, che, nel novembre 1926, con lo scioglimento dei sindacati socialisti e cattolici, fu ribattezzato Confederazione nazionale dei sindacati fascisti. Il regime proclamò che l’ente avrebbe funzionato come un valido scudo per coloro che producevano la ricchezza della nazione. Il fascismo, disse Mussolini a un giornalista britannico, era «un metodo, non un fine; se volete, è autocrazia sulla via della democrazia».58

Sostenuto dal populismo del suo capo, Rossoni continuò a premere per i diritti dei lavoratori, in aperta polemica con il fatto che la maggior parte della vigente legislazione sulla disciplina dei rapporti di lavoro fosse opera del reazionario Rocco59 e poco convinto che il simultaneo divieto di sciopero e di serrata padronale costituissero una prova dell’imparzialità del regime nelle controversie di classe.60 Non fu meno scettico quando Mussolini cominciò a parlare dell’istituzione di uno «Stato corporativo»: il Duce aveva preso per sé, nel luglio 1926, il nuovo ministero delle Corporazioni.61 In questo sistema la rappresentanza parlamentare venne incanalata attraverso le corporazioni, enti ai quali, come si è detto, erano preposti rappresentanti dell’imprenditoria e della classe lavoratrice, in parità sociale e completa dedizione alla causa della nazione e del fascismo.62 Neppure la sbandierata formulazione di una Carta del lavoro nell’aprile 1927, con le sue dichiarazioni secondo cui «l’organizzazione professionale o sindacale è libera», riconciliò Rossoni con le nuove istituzioni dello Stato fascista.63

Mussolini aveva avuto una parte secondaria nella formulazione di questa importante dichiarazione d’intenti, lasciando la questione al dibattito tra l’entusiasta (e devoto) sottosegretario al ministero delle Corporazioni Bottai, Rossoni e Rocco.64 Bottai fu il più pronto a prendere l’iniziativa, pubblicando su «Critica Fascista» l’articolo di un giovane che sollecitava tutti gli italiani a «imitare» lo stile di vita di Mussolini. «Conoscere e comprendere profondamente Mussolini; ubbidirlo coscientemente» si diceva ai lettori «e servire la grande causa fascista nel modo migliore. Soltanto il fanatismo per il Duce accelera la marcia del Fascismo.»65 Ma se Bottai può aver creduto che la Carta del lavoro significasse la riconferma degli scopi sociali del fascismo, incorporando «la supremazia di un principio etico nell’ordine economico»,66 Rossoni, al contrario, vi vedeva una diminuzione del potere dei lavoratori a favore dei padroni. Nessuno sproloquio sul fascino mistico del Duce poteva nascondere questa verità. Esaminando la questione, Renzo De Felice ammise che la Carta fece ben poco per migliorare le condizioni lavorative degli italiani. Il suo vero effetto fu soltanto il consolidamento dell’autorità di Mussolini.67

Risultato di questi disaccordi fu la caduta di Rossoni che, nel novembre 1928, venne rimosso dall’incarico di segretario generale dei sindacati fascisti e fu sostituito da sette dirigenti delle corporazioni dell’Industria, dell’Agricoltura, del Commercio, dei Trasporti, del Sistema bancario, dei Professionisti e artisti, dei Marinai e aviatori. Questa modifica dell’ordinamento istituzionale del lavoro fu accompagnata da alcune voci secondo le quali Rossoni avrebbe osato parlare della caduta del Duce.68 Quel che è certo è che Mussolini cominciò a tenere un dossier sugli atti di presunta corruzione compiuti dal suo vecchio amico, comprese alcune operazioni immobiliari eseguite a nome del padre, dello zio o dei due insieme, mentre si spargeva la voce che la sua poco avvenente moglie avesse esercitato la prostituzione a Roma.69 Tutto ciò non pregiudicò comunque il ritorno di Rossoni a un incarico ministeriale: dal gennaio 1935 ebbe il dicastero dell’Agricoltura e foreste, sorte alquanto ironica per un leader dei sindacati operai. A quell’epoca aveva fama di critico osservatore del Fronte nazista del lavoro e di timido «fascista di sinistra», benché, avendo imparato la lezione dei sette anni senza incarichi, si sforzasse di ricordare che era, soprattutto, «un mussoliniano».70 Per tutta la durata del regime il sindacalismo fu una sorta di parola d’ordine per il Duce e i fascisti, e continuò a rappresentare l’obiettivo di un’immaginaria rivoluzione futura, senza mai cessare di essere, però, più un concetto che una realtà sociale.

Durante la costruzione dello Stato totalitario, comunque, non solo i lavoratori, ma anche l’industria e la finanza sentirono l’effetto del potere di Mussolini. Fino al 1926 questi aveva fatto poco per sfidare le principali personalità del mondo degli affari. Aveva cercato, invece, di tenere a freno i mormorii dei fascisti più intransigenti sul comportamento dei ceti più abbienti della società, rimproverando ufficialmente Farinacci quando attaccava l’egoismo delle banche o si produceva in altre, avventate dichiarazioni su questioni finanziarie.71 Il più delle volte Mussolini difese l’approccio ortodosso all’economia di De Stefani e di Volpi, gloriandosi del fatto che il suo «buonsenso contadino» lo rendeva istintivamente sospettoso dell’eccessiva liberalità nelle spese governative.72

Caratteristica particolare della politica economica fascista fu la sollecitazione di prestiti esteri per aiutare l’economia italiana a riprendersi dalla guerra. La gran parte dei contributi arrivarono dagli Stati Uniti, improvvisamente ascesi nel 1918 al ruolo di massima potenza capitalista mondiale. Già nel maggio 1923 Mussolini aveva incontrato Thomas W. Lamont, nuovo socio di maggioranza della Morgan Bank,73 e ora, malgrado alcune difficoltà al tempo del delitto Matteotti, i contatti continuavano. Dopo la nomina a ministro delle Finanze, Volpi, che vantava una lunga esperienza nella finanza internazionale, nell’ottobre-novembre 1925 si recò negli Stati Uniti alla ricerca di ulteriori prestiti e di una soluzione favorevole della perdurante questione che riguardava i debiti di guerra italiani verso gli Stati Uniti e gli attesi pagamenti di riparazione da parte della Germania.74 Tutto andò per il meglio e, tra il 1924 e il 1929, l’Italia divenne il secondo beneficiario, dopo la Germania, dei crediti USA. L’accesso ai fondi esteri contribuì anche a difendere il valore della lira, trattata dal Duce come un talismano del prestigio internazionale dell’Italia.75

L’8 agosto del 1926, mentre preparava una nuova visita negli Stati Uniti per consolidare la gradita amicizia con J.P. Morgan e gli altri banchieri americani, Volpi ricevette all’improvviso un memorandum di istruzioni da Mussolini. La lettera acclusa spiegava:

Le note che seguono sono il risultato non tanto di meditazioni e studi sul problema che tutti ci angustia da parecchi mesi, quanto di intuizioni che, per quanto mi riguarda, sono quasi sempre infallibili.76

L’astuto Volpi probabilmente impallidì per questa spiegazione così perentoria dei processi mentali del Duce. Quando riprese la lettura scoprì che la questione fondamentale era divenuta non tanto l’acquisizione di ulteriori prestiti, quanto la stabilizzazione della moneta nazionale. La lira non era più un talismano, bensì il simbolo del fascismo in patria e all’estero. Il tono di Mussolini era drammatico. «La sorte del regime è legata alla sorte della lira» scriveva «è necessario dunque considerare la battaglia della lira come assolutamente decisiva.» In quanto «totalitari», gli italiani si trovavano a dire «siamo soli» in un mondo malevolo; non dovevano chinare la testa sotto la «iugulazione aurea degli anglosassoni», ma dovevano invece mantenere i propri princìpi e «agire fascisticamente: cioè con una grande audacia ed ampiezza di visione». Il valore della moneta era una questione non tanto economica quanto psicologica. L’Italia doveva essere abbastanza forte per «conseguire il trionfo della volontà».77 Dieci giorni più tardi, in un discorso tenuto a Pesaro, Mussolini rese la questione di dominio pubblico, annunciando «battaglia» e proclamando che «il regime fascista è disposto, dal suo capo all’ultimo suo gregario, a imporsi tutti i sacrifici necessari, ma la nostra lira, che rappresenta il simbolo della nazione, il segno della nostra ricchezza, il simbolo delle nostre fatiche, dei nostri sforzi, delle nostre lacrime, del nostro sangue, va difesa e sarà difesa».78 Nella mente del Duce, a quanto pareva, la moneta era diventata l’incarnazione dell’Italia e del fascismo.

Durante i sedici mesi successivi, Mussolini rimase ancorato a questa idea e nel dicembre 1927 stabilì ufficialmente il valore della lira a 19 per un dollaro USA e a 92,46 per una sterlina inglese, ricollegando la valuta al sistema monometallico aureo.79 Molti collaboratori, tra cui Volpi,80 ritennero che la rivalutazione della lira fosse troppo accentuata, ma Mussolini rimase fermo nella propria linea di deflazione «selvaggia», forse sperando di impressionare ulteriormente, con il rigore e la determinazione, i suoi colleghi del mondo bancario americano.81 Antonio Stefano Benni, portavoce degli industriali italiani più progressisti, si adattò alla nuova valutazione chiedendo in cambio al Duce una riduzione dei salari per la maggioranza dei lavoratori italiani.82 Coloro che invece la repressione fascista ancora non aveva ammorbidito furono messi a tacere da un ulteriore aumento della disoccupazione che, come risultava dalle cifre ufficiali, triplicò tra il 1926 e il 1928.83

Il regime fascista era dunque un modo come un altro per combinare affari? Una delle affermazioni più ripetute tra gli ammiratori di Mussolini era che questi presiedeva a una «dittatura evolutiva» impegnata nella modernizzazione dell’Italia.84 Le prove a favore di tale interpretazione, tra il 1926 e il 1929, sono incerte. La centralizzazione dell’emissione della lira, affidata alla Banca d’Italia nel luglio 1926, e la sottrazione al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia del diritto residuo di stampare banconote furono davvero gli atti di un più saldo controllo governativo. Tuttavia, quasi contemporaneamente, il regime cedette alla pressione dei rappresentanti dei piccoli negozianti, molti dei quali erano notabili fascisti, e istituì un sistema di licenze che proteggeva i commercianti al dettaglio dai «depredamenti» dei grandi magazzini e di altre imprese commerciali moderne.85 Per quanto riguardava la politica economica, la linea mussoliniana sembrava per alcuni aspetti modernizzatrice, per altri conservatrice.

Caratteristica fu la storia della Banca nazionale del lavoro e della cooperazione, nata, nel maggio 1927, dalla fusione delle preesistenti cooperative e destinata a un ruolo di primo piano nel governo fascista, sia in patria sia all’estero, dove seguì la bandiera nazionale in Etiopia, nell’Impero, in Spagna durante la guerra civile, e accompagnò l’Asse verso il nuovo ordine europeo.86 Nel 1925 le cooperative erano state tolte dalle mani di Paolo Terruzzi – fascista milanese fino ad allora favorito dallo stesso Mussolini – e affidate alla direzione di Arturo Osio. Questi, sebbene i suoi precedenti tra i popolari cattolici sembrassero non deporre a suo favore,87 fu abbastanza accorto da rendersi conto, nelle trattative con le alte sfere, che la protezione di Farinacci era più forte dell’ostilità di Volpi.88 A partire dal settembre 1926, egli ebbe incontri regolari con Mussolini89 e, sotto l’egida diretta del Duce, prese in mano le sorti delle cooperative, trasformandole in una banca moderna che sarebbe sopravvissuta al fascismo. Osio cementò i propri rapporti con Farinacci90 e accettò anche la protezione di Bottai, Rossoni, Ciano e Thaon di Revel, sebbene, a domanda diretta, rispondesse con circospezione che il compito della sua vita era solo quello di far prosperare la banca. Nel gennaio 1942 fu licenziato in tronco da Mussolini e corse voce che, incautamente, si fosse inimicato la famiglia Petacci.91 Nella vittoria e nella sconfitta, Osio fu un altro importante servitore del regime fascista, uno che ne conosceva molto bene tanto il sistema di relazioni patrono-cliente quanto l’ideologia, e che manovrò con destrezza entrambi secondo i propri fini.

Nel frattempo l’economia italiana stava mostrando i primi segni di ripresa dovuti agli effetti deflazionistici legati alla forte rivalutazione della lira, quando, nell’ottobre 1929, il mondo fu sconvolto dal crollo di Wall Street. Negli anni Trenta Mussolini adottò nuove misure politiche nel tentativo di combattere la Grande Depressione, quando l’onda d’urto colpì anche l’Italia, ma ben presto, dopo la raffica di interventi del 1926-27, manifestò scarso interesse per le questioni economiche nazionali. In questo senso, Angelo Mosconi, che nel luglio 1928 sostituì Volpi92 al ministero delle Finanze, ricordava Mussolini come dirigente calmo e sensato, sempre pronto ad ascoltare un valido suggerimento, e che facilitava da parte del suo dicastero l’adozione di politiche sane e prudenti.93 Sebbene il Duce rimanesse all’erta per scongiurare qualsiasi danno al prestigio nazionale – Giuseppe Belluzzo, ministro dell’Economia, fu persuaso a ritrattare un’incauta affermazione secondo cui l’Italia non possedeva ancora sufficienti materie prime –,94 dopo aver fatto valere la sua autorità su banchieri e industriali lasciò agli esperti il compito di continuare il lavoro. Era un metodo che usava di frequente. Per questi motivi, il mondo della finanza italiana aveva buone ragioni per plaudire alla conduzione di Mussolini.

Ma come si stava muovendo il Duce in materia di agricoltura, da sempre la fonte primaria di lavoro per gli italiani? La prova più evidente dei limiti della politica fascista di modernizzazione dell’Italia e di miglioramento delle condizioni dei suoi abitanti era rappresentata dal perdurare della miseria e delle malattie, specialmente nelle campagne. Nella classifica degli Stati europei, l’Italia occupava il diciottesimo posto per quantità di calorie assunte, il più indicativo tra gli indici del benessere popolare.95 Le condizioni più miserabili erano quelle in cui versavano le campagne. Cosa fare per modificarle?

Le risposte a questa domanda furono meramente verbali. Già nel 1924 Mussolini aveva dichiarato al suo partito che «il popolo italiano è prevalentemente rurale … I fascisti rurali sono i più solidi; i militi rurali sono i più disciplinati».96 Nel giugno dell’anno successivo annunciò, con il caratteristico gergo militare: «Io ho preso formale impegno per condurre la battaglia del grano, ed ho già preparato lo stato maggiore».97 Dopo questa dichiarazione sollecitò spesso la «ruralizzazione» dell’Italia. Come disse nel suo discorso del giorno dell’Ascensione, le città e l’industrializzazione portavano alla sterilità tanto spirituale quanto psicologica, e solo l’incremento dell’agricoltura poteva preparare veramente l’Italia per l’Impero.98

In realtà, era stato il mondo agricolo a adattarsi al regime di Mussolini, con i propri ritmi e le peculiari varianti regionali. Ancora nel giugno 1922 il prefetto di una città calabrese preannunciava che il fascismo, come il «socialismo vero», non avrebbe potuto mettere radici in quel luogo «per molti altri anni», perché le condizioni locali erano aliene ai partiti di massa.99 Dopo il 28 ottobre 1922 le dispute tra i gruppi di fascisti della prima ora e quelli più recenti presero piede anche nel mondo rurale, come altrove nel paese. A Catanzaro un accorto prefetto notò che il fascio sorto in città era composto da ex membri dei vecchi partiti al potere che adesso avevano adottato la camicia nera.100 Le sue intuizioni furono confermate da un’antropologa americana, la quale, concludendo nel 1928 una ricerca in un villaggio siciliano, affermò che le «denominazioni altisonanti» usate dai politici nazionali non comparivano nel linguaggio comune. Fascismo, totalitarismo, corporativismo, sindacalismo: erano tutti concetti assolutamente estranei. Quando i membri delle élite del posto sbandieravano questi termini, lo facevano per favorire il proprio piccolo gruppo, dal momento che il paese in questione, a memoria d’uomo, era sempre stato diviso in fazioni.101 I contadini locali, per prudenza, erano sempre pronti a parlare di Mussolini come di un santo del paradiso102 e nel referendum del 1929 votarono all’unanimità per il regime, marciando verso i seggi elettorali accompagnati dalla musica della banda cittadina che, promiscuamente, suonava Giovinezza e la Marcia reale.103 Ma il Duce, il re, il papa significavano ben poco nella vita quotidiana di questi contadini, influenzata piuttosto dalle condizioni delle campagne e dal potere dei proprietari terrieri. Tale era la loro ignoranza, o il loro cinismo, per quanto concerneva il vasto mondo, che credevano addirittura che il divinizzato Garibaldi altro non avesse fatto se non offrire una scelta tra culera o leve (colera o coscrizione).104 Qualsiasi cosa avesse realizzato il fascismo in quel paesino del Sud, di certo non aveva portato la rivoluzione sociale e nemmeno la possibilità di immaginarla.

I gerarchi fascisti meridionali erano altrettanto inclini a macchiare la loro purezza ideologica con abitudini e atteggiamenti radicati nel passato, trovando più familiare il modo di condursi di un Bocchini che non le teorie di uno Starace. Nel settembre 1924, per esempio, Acerbo scrisse a Mussolini per lamentarsi delle trame oscure organizzate contro di lui ogni volta che veniva a Roma. Domandò, non senza ingenuità, se il fatto che, dopo l’esonero dal suo incarico nel partito, un suo lontano cugino in Abruzzo avesse avuto la carriera distrutta fosse frutto di un complotto nei suoi confronti. «Dopo questo clamoroso trionfo dei nemici miei e del regime, io non posso più tornare in Abruzzo» dichiarò con rimpianto. Il Duce poteva intervenire? Se non poteva, avrebbe scoperto che «dopo di me in Abruzzo vi sarà il caos più sinistro».105

Mussolini concesse l’appoggio richiesto, cosicché Acerbo continuò a occupare il posto di primo piano tra i fascisti della sua regione sino alla fine degli anni Trenta, seguitando regolarmente a inviare le proprie «raccomandazioni» al capo, che a sua volta poteva contare su promesse quali «sono e sarò sempre il Vostro devoto soldato, pronto in tutto»106 (vale a dire, finché il suo potere regionale fosse rimasto intatto e Mussolini si fosse confermato un generoso protettore). Allo stesso modo, nel 1924 Michele Bianchi chiese aiuto al Duce per porre fine ai pettegolezzi sulle sue frequentazioni femminili che, secondo lui, venivano divulgati dai suoi rivali all’interno del partito. Sarebbe stata «ingratitudine», aggiunse in tono vagamente ricattatorio (la crisi Matteotti era nel suo momento peggiore), se non si fosse messo un freno a quell’ostilità. «Ricorda, Duce, che ti sono stato a fianco, con pieno disinteresse, sempre, e più specialmente nei momenti tristi e difficili» dell’ascesa al potere. Poteva Mussolini rifiutarsi di trattarlo da amico?107 Ancora una volta, la petizione ottenne il risultato voluto e Bianchi fu sostenuto come figura di prim’ordine del regime, anche se Mussolini conservò, nel suo sempre più voluminoso dossier sulle frequentazioni amorose dei suoi collaboratori, l’indiscrezione secondo cui egli incoraggiava l’aristocratica amante calabrese a concedersi in incontri ben remunerati.108 A loro volta, Acerbo, Bianchi109 e gli altri fascisti meridionali dovevano rispondere alle frequenti richieste dei propri clienti.

La sopravvivenza di questi retaggi della mentalità del Sud non rientrava certo nell’autorappresentazione del fascismo, né si addiceva alla linea del partito sull’assolutismo mussoliniano. Per contro, una caratteristica del processo che portò alla costruzione dello Stato totalitario fu la lotta contro la mafia, in passato simbolo riconosciuto della debolezza e inadeguatezza del governo liberale. In questa operazione l’agente di Mussolini fu Cesare Mori, altro funzionario statale che, come Bocchini e Badoglio, non aveva legami particolarmente stretti con il Partito fascista. Benché avesse cura di sottolineare che il suo lavoro era fatto «nel nome e per la volontà del Duce»,110 Mori pubblicò una relazione sulla propria attività tra il 1925 e il 1929 in cui non brillò sicuramente per modestia a proposito della sua «vittoria». Enfatizzò in modo particolare il fatto che la mafia, lungi dall’essere un’unica, vasta organizzazione criminale, era piuttosto uno stato mentale «morboso» sul quale, però, lo spirito superiore del fascismo avrebbe prevalso.111 Gli storici sono scettici su questo vantato trionfo. Hanno piuttosto fatto rilevare tanto il modo in cui Mori protesse, in realtà, il potere della vecchia classe latifondista,112 quanto la facilità con cui la Sicilia scivolò di nuovo in acque stagnanti; si disse che, negli anni Trenta, «in alcune città il fascio apriva solo nei giorni festivi ufficiali».113 Da quel decennio in poi Mussolini, seguendo gli schemi stabiliti dai suoi predecessori liberali, cancellò la Sicilia dai propri itinerari consueti. Dopo le visite del 1923 e del 1924, vi tornò solo nel 1937 a parlare in modo assai vago della trasformazione dell’isola in un paradiso agricolo.114 In realtà, la sua politica mirava molto più a pacificare la zona che a instillare negli abitanti un rivoluzionario slancio verso la modernizzazione e la nazionalizzazione. Lo scotto dell’insuccesso nel mobilitare i cittadini dell’isola fu pagato nel 1943, quando costoro trattarono gli americani come individui appena più stranieri, e molto più attraenti perché più ricchi, dei dirigenti italiani. I siciliani, inoltre, abbandonarono il governo di Mussolini senza neppure voltarsi indietro (anche se, negli anni del dopoguerra, il neofascismo ebbe e mantenne una forte base popolare nell’isola).

Nello stesso periodo veniva affrontato anche il problema della questione femminile, rispetto al quale il fascismo ebbe una storia controversa, dopo che un primo fascio di sole donne era stato costituito a Monza nel marzo 1920.115 I programmi iniziali dei Fasci di combattimento diedero un certo rilievo al tema del voto alle donne;116 Mussolini annunciò che non c’erano ostacoli al suffragio femminile e fece intendere che un’iniziale apertura sarebbe avvenuta alle elezioni amministrative.117 Tra le varie possibilità considerava anche quella di assegnare alle donne un ruolo nella MVSN.118

Tuttavia, poco tempo dopo, per il femminismo fascista nacquero alcuni problemi.119 Mussolini, in quanto capo, si rivelò semplicemente un altro pilastro nell’edificio del patriarcato. Le donne non ottennero il diritto di voto locale perché le elezioni amministrative furono abolite, mentre – sempre in tema di repressione – nel 1926 i sindaci eletti vennero sostituiti in tutta Italia dai podestà nominati dall’alto.120 È vero che il regime istituì programmi sociali per le donne, costituendo nel 1925 l’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia (ONMI),121 ma le realizzazioni di questo ente furono condizionate dalla loro finalità fascista fin da quando, nel discorso dell’Ascensione, Mussolini mise la crescita demografica al centro dei programmi del regime: «Bisogna vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia». Per il momento, c’erano solo quaranta milioni di italiani, ammonì Mussolini: come potevano competere con «novanta milioni di tedeschi; duecento milioni di slavi»? Se l’Italia voleva fare mostra della propria forza nel mondo, doveva accrescere la popolazione fino a «sessanta milioni di abitanti» entro il 1950. Solo quando sono demograficamente fertili gli «imperi» sopravvivono e fioriscono.122 Quindi, come suggello alla necessità di incrementare la procreazione, il 19 dicembre 1926 Mussolini introdusse la «tassa sul celibato». Cinque anni dopo, i rapporti omosessuali tra uomini adulti furono resi illegali.123 Secondo le parole di Augusto Turati, «la famiglia è la cellula fondamentale dello Stato, della Nazione, del popolo; è la sola salvaguardia possibile contro l’azione corrosiva delle varie forze amorali od immorali o dissolventi della società».124 A quanto pareva, dunque, nel mondo fascista una donna, tranne quando doveva sfilare in parata,125 era confinata alla cucina e alla camera da letto.

Con il passare degli anni, la misoginia di Mussolini si acuì. L’amore, disse a una giovane ammiratrice, poteva solo essere passeggero e non doveva essere assunto come valore guida per la vita.126 Le donne avevano in comune con i preti l’abitudine di prendersi tutto il braccio quando si vedevano offrire un dito.127 Gli uomini forti dovevano evitare la loro influenza, perché «la donna deve essere passiva. Essa è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto dell’architettura in tutti questi secoli?» fu la domanda retorica che rivolse a un intervistatore.128 L’influenza della Sarfatti stava svanendo e Mussolini non dava molti segni di desiderare a lungo la compagnia di donne intelligenti. Invecchiando, diventava sempre più maschilista.

Frattanto il regime fascista si adoperava con più intransigenza che in passato per controllare l’educazione dei giovani. Nel dicembre 1925 fu reso obbligatorio nelle scuole l’uso del saluto romano e, nel 1926, il ministro dell’Educazione Pietro Fedele proclamò ufficialmente l’anniversario della marcia su Roma come festività nazionale.129 Nel 1928 fu stabilito che i libri di testo fossero sottoposti al controllo rigoroso dello Stato (benché la commissione incaricata della supervisione non si riunisse fino al 1939).130 Sulle pagine semiufficiali di «Gerarchia», l’ex nazionalista Roberto Cantalupo espresse l’opinione secondo cui il compito chiave del fascismo era diventato la creazione di una nuova «classe dirigente»,131 tema che negli anni Trenta avrebbe avuto importanza centrale nei dibattiti del partito. Ma, per il momento, quello che contava di più era la supremazia di Mussolini. Tipicamente brusca fu la sua risposta quando, nel 1928, ricevette una relazione lusinghiera sul suo pensiero politico redatta dal sottosegretario all’Educazione Emilio Bodrero (altro fascista proveniente dal nazionalismo). Il lavoro, ammise Mussolini, «è interessante e in fondo rispondente alla realtà. Si può aggiungere che la mia coltura non è generale, o, peggio, generica: ma sistematica per ogni questione. Appunto perché la coltura mi serve, non io la servo. Mezzo, non fine. Arma, non adornamento».132 Malgrado questa millanteria, le sue dichiarazioni a volte potevano apparire singolari; per esempio, com’era possibile che il creatore della nazione italiana, fervido propugnatore di una società gerarchica, proclamasse il tedesco Beethoven, ammiratore della rivoluzione francese, «il più grande» di tutti i compositori, l’artista la cui musica trasportava l’uomo fuori da se stesso?133

L’arena chiave dove avrebbe potuto svilupparsi la contestazione della smisurata autorità del Duce continuava a essere il Partito fascista e non stupisce che, per realizzare uno Stato «totalitario», Mussolini fosse costretto a tenere a freno anche quello. Un passo in questa direzione fu il licenziamento di Farinacci, sostituito nel ruolo di segretario del PNF da Augusto Turati il 30 marzo 1926. Il cremonese, che in modo piuttosto seccante non disegnava di essere ritenuto nella sua base di Cremona «l’unico e vero duce»,134 ne fu molto contrariato e, da allora, non si astenne dall’assillare il Duce con lagnanze nei confronti del suo successore135 e di altre personalità come Balbo, Federzoni, Bottai e anche Arnaldo Mussolini, secondo lui costantemente impegnati ad architettare ogni sorta di tranello per mettere in cattiva luce la sua virtù fascista.136 Ogni tanto Mussolini reagiva con rabbia alle punzecchiature di Farinacci: «Tutti in Italia e fuori sanno, te compreso, che il regime vive e vincerà le tremende battaglie alle quali va incontro, perché io vivo e lavoro sedici ore al giorno come un negro». «Il disagio nel Partito è originato in gran parte dal tuo atteggiamento di indisciplina spirituale, di monopolizzatore della purezza, della salvezza del Partito, dal tuo continuo lanciare accuse generiche alle quali non fai seguire precisazioni concrete.» Troppi fra i suoi amici non tenevano la lingua a freno, insisteva Mussolini. Farinacci doveva immediatamente riconciliarsi con Federzoni e Balbo e accettare Turati come segretario. Non era il caso di indossare le vesti sontuose di un «antipapa che aspetta».137

Turati era stato, e continuava a essere, molto vicino ad Arnaldo Mussolini: quando decise di promuovere un’altra purga nel partito, favorì la corrente socialmente più conservatrice. Nei suoi discorsi prometteva un nuovo puritanesimo, mentre criticava gli italiani che bevevano troppo o ballavano il charleston e qualche altra «danza negra».138 La sua interpretazione della storia era parimenti conservatrice. Tanto lui quanto il partito incarnavano lo spirito che regnava nelle trincee durante la Grande Guerra: conoscevano bene l’ordine e la disciplina.139 La Carta del lavoro, era ansioso di aggiungere, sottolineava la completa antitesi tra «Roma e Mosca».140 Anche se in un’occasione affermò in tono meno minaccioso che il fascismo doveva governare usando «non solo la forza del pugno, ma la forza del sorriso», era convinto che il regime dovesse insistere sull’unificazione dello Stato, della nazione e della razza.141 Elaborando un sistema educativo capace di associare lo sport e la positiva eredità della guerra, l’insegnamento fascista avrebbe ora forgiato «la nuova classe dirigente».142

Ma il compito principale di Turati era quello di disciplinare il partito e fare accettare ai suoi membri il fatto che solo Mussolini governava l’Italia. I fascisti non dovevano montarsi la testa, ma accettare anch’essi di servire lo Stato, sicché, quando nascevano meschine dispute tra i ras e i funzionari statali, occorreva privilegiare i secondi.143 Il Duce non aveva detto con fermezza a Farinacci «o nessuno parla o parlo io che so parlare meglio di tutti»?144 Turati capì che Mussolini stesso lo aveva scelto come segretario del PNF e sapeva che il suo compito era assicurare che il Duce fosse riconosciuto da tutti come il «dittatore al di sopra del partito».145

Mario Giampaoli, a Milano, divenne il simbolo di questa imposizione della disciplina ai fascisti. Nella capitale finanziaria d’Italia, egli guidava le forze del fascismo radicale dirigendo una pubblicazione mensile intitolata «1919», in onore del suo attaccamento all’impeto rivoluzionario dei primi anni del movimento. Sebbene il giornale tenesse a sottolineare che Mussolini era «il genio più grande dell’epoca», osava aggiungere che c’era bisogno anche di semplici fascisti.146 Nel 1926 Giampaoli era già guardato con diffidenza da Arnaldo Mussolini, il quale temeva che si alleasse con Farinacci per rilanciare in qualche modo l’influenza dell’ex segretario.147 L’anno dopo fu addossato al ras di Milano un intero catalogo di peccati. Era sessualmente e finanziariamente corrotto. Viveva con tre donne e nel 1926 aveva sposato frettolosamente una di loro per legittimare un figlio. Sempre in quegli anni aveva ottenuto donazioni di un milione di lire facendo pressioni sugli industriali locali. Si ingraziava il favore dei vecchi squadristi tenendo discorsi di stampo populista e facendo mostra di cultura (nonostante l’assenza di qualifiche ufficiali, avendo iniziato la sua carriera lavorativa come portalettere).148 Perdeva spesso al gioco e percepiva denaro da un giro di prostituzione. Aveva intenzione di organizzare una sua guardia pretoriana e non gli importava che Milano fosse divisa tra i suoi sostenitori e quelli del fratello del Duce.149 Si alienò la simpatia degli intellettuali milanesi, dei professionisti e di tutta la borghesia cittadina.150 Quando un tale elenco di colpe approdò sulla scrivania di Mussolini, la conseguenza fu inevitabile: Giampaoli venne espulso dal PNF e il suo giornale soppresso. A Milano conquistarono la supremazia Arnaldo Mussolini, Augusto Turati e Achille Starace, proposto dagli altri due per scalzare Giampaoli.151 Ma lo sconfitto ras di Milano non scomparve completamente dagli annali fascisti. Mantenne una corrispondenza con Mussolini protestando per le offese arrecate alla sua onorabilità e implorando il Duce di concedergli ancora il suo patrocinio. Nel 1938, per esempio, Giampaoli era convinto che solo le macchinazioni degli ebrei impedissero la sua felice sistemazione a Napoli152 e nel 1940, per via dell’effetto di aggregazione dovuto all’imminenza della guerra, riottenne la tessera del partito.153 La polizia continuò a sorvegliarlo, prendendo nota del suo stravagante stile di vita e della sua spietata capacità di sfruttare le conoscenze.154 In un’ultima lettera del maggio 1943 Giampaoli chiedeva di essere rinominato federale di Milano, promettendo all’adorato Duce di porre rimedio al proprio declino morale.155

La corrispondenza più implacabilmente critica che giungeva al Duce veniva, com’era prevedibile, da Farinacci, che non aveva mai accettato la promozione di Turati e detestava la religiosità di Arnaldo Mussolini. Per cui, con la sua infallibile capacità di cogliere le rettifiche e gli adattamenti messi in atto nel tempo da Mussolini, ma che questi preferiva passare sotto silenzio, Farinacci non tardò a rammentare al Duce il suo passato anticlericale. Scrisse, con arguzia tipicamente fascista, che un cardinale con la fissa della questione sociale aveva visitato Cremona, predicando religione e castità agli operai, anche se avrebbe dovuto sapere che nella città di Farinacci la rinuncia alla sessualità era «rara come l’araba fenice». Poteva il degno prelato essere mandato in missione all’estero? domandò ironicamente. «Se non erro, nel mondo vi sono un miliardo e trecento milioni di abitanti dei quali solo trecento milioni sono cattolici. Perché non avvicinano a Dio ed al Paradiso tutto l’altro miliardo di esseri umani?»156 Ma Farinacci concentrò il fuoco in special modo sui nemici all’interno del PNF. Lo dipingevano falsamente come un nemico del Duce e perseveravano nelle cospirazioni contro di lui e i suoi amici e collaboratori. La loro ipocrisia bastava a trasformarlo in «un anarchico fascista, ripeto fascista», anche se nella sua cerchia figuravano «i fascisti di vera tempra fascista».157 Mussolini avrebbe dovuto accettare il fatto che «il vero Fascista deve sempre dire al suo Capo tutte le verità».158

Il ras di Cremona vedeva il mondo come un luogo in cui gli interessi e gli individui sono impegnati in un conflitto perpetuo. Il Partito fascista poteva farsi promotore di accattivanti dichiarazioni sull’unità nazionale e ideologica, e decretare che gli italiani servissero ciecamente uno Stato totalitario, ma nella sua mente avrebbero continuato a turbinare conflitti e macchinazioni: Farinacci sapeva che chiunque volesse diventare padrone della propria società doveva stare perennemente all’erta contro gli amici e i nemici del momento.159 Eppure Mussolini, sebbene fosse spesso in contrasto con lui, non ruppe mai del tutto i rapporti. Farinacci rappresentava troppa parte del passato radicale e «selvaggio» per essere ignorato o respinto.

Il concetto di «darwinismo istituzionale» si è dimostrato fecondo per la comprensione dei processi amministrativi della Germania nazista, fornendo prove importanti dell’esistenza di attivismo politico autonomo, o almeno indipendente dalla diretta volontà del dittatore. L’ombra di quel conflitto di matrice darwiniana o machiavellica può essere individuata anche in Italia, nelle battaglie di Turati, Farinacci, Giampaoli e Starace. Costoro non erano i soli capi fascisti a essere impegnati in una costante lotta l’uno contro l’altro, e a esserlo senza un preciso ordine di Mussolini. Tutte le prove indicano che, all’interno della classe dominante (e forse anche in altri settori della società), tali scontri non cessarono mai. Le notizie di fascisti in ascesa erano regolarmente accompagnate dai nomi di coloro che la favorivano e di coloro che la contrastavano.160 La capacità di cogliere gli innumerevoli mutamenti delle alleanze e le opportunità in un mondo basato sull’interesse personale era la caratteristica essenziale della condizione umana sotto il regime di Mussolini. Le contraddizioni insite in tutte le dittature, l’abisso tra ciò che il dittatore afferma di sapere e ciò che in realtà sa, la segretezza o l’indecifrabilità del processo decisionale, la natura del potere fondato sul carisma accrescono, ovviamente, la fede nella spiegazione darwinistica, anche se lo storico scettico può aggiungere che tali atteggiamenti e schemi di comportamento non sono affatto sconosciuti nelle cosiddette «democrazie» e prosperano specialmente nel nostro mondo contemporaneo «deideologizzato».

Se è pur vero che sotto il dominio fascista il cinismo non era prerogativa esclusiva del Duce, bisogna riconoscere che, in tutto il periodo in cui fu in carica, egli mancò di rado un’occasione per ingraziarsi le autorità della Chiesa. Può anche darsi che, nel 1925, sorridesse dopo aver rimproverato ufficialmente Farinacci per la prospettiva intollerabile di una recrudescenza dello squadrismo durante l’Anno Santo,161 ma qualunque leader italiano, in particolare se impegnato a nazionalizzare le masse, non poteva non essere consapevole di cosa significasse la presenza del Vaticano sul suolo nazionale. Un vero «totalitario» si sarebbe proposto di estirparla. Certamente la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa aveva permeato tutto il Risorgimento. Lo Stato liberale si era formato con l’appropriazione di territori pontifici, inclusi quelli della pretesa «donazione di Costantino». In cambio, i princìpi del liberalismo erano stati oggetto di anatema da parte di papa Pio IX nel Sillabo degli errori (1864). Nella restante metà del secolo l’idea di risolvere in qualche modo la «questione romana» fu il problema primario di ogni uomo politico italiano desideroso di lasciare un segno nella storia.

Durante la guerra e dopo, Orlando e Nitti si erano mossi in direzione di un accordo con la Chiesa, ma erano stati fermati da Vittorio Emanuele III, per natura molto scettico nei confronti della religione.162 Durante l’ascesa al potere del fascismo, Mussolini aveva prontamente nascosto il proprio anticlericalismo e fatto del suo meglio per tenere a freno l’espressione di simili idee nell’ambito del PNF. Una delle prime campagne pubbliche del regime fascista era stata diretta alla soppressione della massoneria, che dal 1789 era vista dalla Chiesa come sua implacabile nemica. La vittoria sul «socialismo ateo» motivava ancora di più la gerarchia ecclesiastica a plaudire al nuovo sistema che stava nascendo in Italia. Allo stesso tempo, i più conservatori tra i simpatizzanti del fascismo potevano sostenere che Mussolini sapeva «riconoscere apertamente i valori religiosi» e assegnare al divino un ruolo nel «dramma nazionale». Il fascismo, dicevano, era l’alleato naturale di una Chiesa cattolica che era romana non per caso.163

Nel maggio 1926 i colloqui tra la Chiesa e il regime divennero più formali quando Mussolini autorizzò Rocco a incontrarsi con il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato pontificio, dicendo che la separazione tra Chiesa e Stato era assurda come la divisione tra spirito e materia.164 In agosto partecipò ai negoziati l’avvocato Francesco Pacelli, fratello del futuro Pio XII e membro di una famiglia che aveva stretti rapporti con il Banco di Roma, di proprietà vaticana e strumento finanziario cruciale nell’Italia fascista. La sua presenza fu un’ulteriore prova del ruolo giocato dai «fratelli» nella dittatura italiana (Arnaldo Mussolini, infatti, era uno dei più influenti clericali nell’entourage del Duce).165 Con la benedizione fraterna, nel novembre 1926 fu raggiunta una bozza di accordo.

La firma fu però rinviata una prima volta, e poi una seconda, quando Pio XI, disapprovando le politiche educative fasciste, si oppose all’intenzione di fare dei Balilla l’unica organizzazione giovanile, a scapito dei circoli cattolici. Nel gruppo dirigente fascista, Gentile, Balbo e Farinacci cercarono (benché per motivi diversi) di rallentare un’intesa con il Vaticano, mentre il re e i pochi senatori liberali superstiti, come Croce e Albertini, consigliavano la moderazione.166 Tuttavia, nel 1928 i colloqui ripresero e raggiunsero il momento cruciale nel gennaio 1929. Mentre venivano faticosamente concordate le clausole definitive – in particolare quelle sulle esatte compensazioni finanziarie da concedere alla Chiesa a fronte delle passate perdite territoriali –, Mussolini in persona si aggiunse al gruppo dei negoziatori. L’argomento in questione, infatti, era sufficientemente importante da meritare la sua diretta attenzione. Notte dopo notte, lavorò fino alle ore piccole; il 31 gennaio l’ultima lettura dei termini dell’accordo durò dalle nove di sera fino all’una e un quarto del mattino.167 Infine furono approvati anche gli accordi monetari. Paradossalmente, nella tipica continuità con il passato liberale che caratterizzò il fascismo, due vecchi collaboratori di Giolitti – Bernardino Nogara, responsabile della Banca del Vaticano,168 e Bonaldo Stringher, direttore della Banca d’Italia – furono incaricati di definire i metodi e i canali del pagamento.169

Tutto era pronto per una grande esibizione pubblica dell’accordo, tanto più entusiasmante in quanto le trattative erano state tenute segrete. L’11 febbraio 1929, in una fastosa cerimonia al palazzo Laterano, Mussolini firmò i diversi protocolli. Città del Vaticano divenne un’enclave del tutto indipendente nella città di Roma e i suoi cittadini furono esentati dall’osservanza delle leggi fasciste. In cambio, la Chiesa riconosceva come definitiva la sistemazione territoriale prodotta dal Risorgimento. Altre clausole ripristinarono l’autorità cattolica sul matrimonio e l’educazione religiosa obbligatoria; il Vaticano era inoltre autorizzato a disciplinare i sacerdoti dissidenti. Gli storici, in generale, conclusero che il Vaticano aveva negoziato con estrema determinazione nei Patti Lateranensi, accrescendo il proprio potere in molti ambiti.170

Per Mussolini questi argomenti potevano essere lasciati alla storia, impegnato com’era a godere degli enormi vantaggi immediati. Suo fratello Arnaldo parlò di «gioia grandissima» al pensiero che gli italiani potessero finalmente conciliare la loro professione di fede con il loro Stato nazionale.171 Altrettanto generoso nel suo elogio, papa Pio XI esaltò il Duce come «l’uomo mandato dalla Provvidenza». L’«Osservatore Romano», il giornale pontificio, plaudì al patto con cui «l’Italia è stata restituita a Dio e Dio all’Italia»,172 mentre «Civiltà Cattolica», il giornale dei gesuiti, nel marzo 1929 scrisse che il fascismo incarnava la «restaurazione cristiana della società».173 Nel 1932 Pio XI favorì per qualche tempo quello che chiamava «totalitarismo cattolico».174 I giornalisti cattolici definirono Mussolini e Pio XI «i due più grandi uomini dell’Italia moderna».175 Un rapporto della polizia sull’opinione della popolazione riconobbe parimenti «un successo ineguagliabile del genio del Duce», anche se gli ebrei italiani sembravano alquanto turbati dalle implicazioni negative che il Concordato avrebbe potuto avere per loro.176 All’estero vi fu un analogo consenso, specialmente nei circoli favorevoli ai princìpi della Chiesa. Il «Tablet», il portavoce dei cattolici britannici, celebrò il Mussolini dal «grande cuore» e dalla «grande volontà» che si era dimostrato un «gigante intellettuale» sconfiggendo quegli italiani che volevano «una Chiesa derisa in uno Stato ateo».177 Anche il «Times» plaudì al Concordato come a «una grandissima notizia», prova del «coraggio di Mussolini e della sua saggezza politica»,178 mentre l’«Economist», più scettico, argomentava che un’alleanza tra due autocrazie non poteva riservare grandi sorprese.179 Sebbene i non cattolici passassero presto ad altri pensieri, la stampa legata al cattolicesimo e i clericali in generale non dimenticarono mai i Patti Lateranensi, mentre la grande maggioranza dei commentatori cattolici era disposta a perdonare molto a Mussolini per merito della «sua» risoluzione della «questione romana». Fu nei giorni inquieti del marzo 1942 che Mussolini tentò di sollevare il morale della popolazione autorizzando Carlo Biggini, futuro ministro di Salò, a stendere una relazione documentaria su quello storico evento, che ancora si riteneva approvato «unanimemente» dagli italiani. Biggini sapeva quale frasario ci si aspettava da lui. La composizione del Concordato, disse, era stata un momento in cui «il Duce ebbe [inequivocabilmente] ragione».180 Di certo, all’estero c’erano molti cattolici ancora impressionati dal patto. Nel settembre 1943 l’arcivescovo di Melbourne Daniel Mannix, di origini irlandesi, definiva Mussolini «il più grande uomo oggi vivente. Il suo governo passerà alla storia come il più grande che l’Italia abbia mai avuto».181 Per simili occhi il Concordato con la Chiesa aveva veramente fatto per sempre di Mussolini «l’uomo della Provvidenza». Non desta meraviglia il fatto che uno storico, descrivendo la condizione dell’Italia nel 1929, abbia dichiarato che all’epoca il dittatore italiano godeva di un consenso generale mai avuto in precedenza.182

Di sicuro, comunque, la conclusione dei Patti Lateranensi ha dei risvolti ironici: il «rivoluzionario» Mussolini aveva raggiunto un accordo con la più potente forza conservatrice della società italiana. Il Duce, che si vantava del suo potere assoluto e del suo carisma infinito, aveva ammesso che il papa incarnava caratteristiche simili (e forse anche maggiori). Ma in cuor suo Mussolini conservava l’ateismo della giovinezza (misto a una certa superstizione, tipica di molti suoi connazionali, secondo cui, malgrado l’irrazionalità della sua esistenza, Dio potrebbe anche esserci). Nonostante le sporadiche recriminazioni del Duce contro il destino avverso, in realtà la dittatura di Mussolini non aveva – e non avrebbe mai – espugnato la roccaforte del cattolicesimo, né sarebbe stato in grado di farlo.

Simili pensieri non potevano ovviamente essere espressi in pubblico. In ogni caso, nel 1929, sulla Rocca delle Caminate, il castello in gran parte restaurato in finto stile medievale183 che domina Predappio, concesso al Duce e alla sua famiglia due anni prima degli importanti eventi appena narrati, svettavano i colori bianco, rosso e verde della bandiera italiana, simbolo della fulgida gloria nazionale del regime fascista. Poteva essere vista in tutta la campagna e anche dall’Adriatico.184

A livello più privato, le fortune economiche della famiglia Mussolini si erano invece accresciute grazie ai diritti d’autore e ad altri accordi. Ancora nel 1926 Arnaldo aveva temuto che «Il Popolo d’Italia» venisse travolto dai debiti,185 ma alla fine si erano trovati dei finanziatori e il giornale era diventato uno strumento del regime. Alla tenuta di Carpena e alla Rocca delle Caminate, poi, si aggiunse una casa in riva al mare a Riccione, dove il Duce si recava spesso in estate. Benché avesse cominciato a inveire contro l’eccesso di adulazione pubblica,186 Mussolini era diventato un possidente. Come a sottolineare la sua nuova condizione sociale, dopo il trionfo dei Patti Lateranensi Mussolini lasciò il suo alloggio a palazzo Tittoni per trasferirsi a villa Torlonia, sontuosa costruzione del XVIII secolo in via Nomentana, oltre Porta Pia e le mura aureliane. I principi che ne erano proprietari possedevano terre in tutta Italia, non erano fautori della rivoluzione sociale e certamente si aspettavano che il nuovo inquilino, a cui avevano proposto un canone d’affitto molto generoso, capisse il loro mondo con i suoi obblighi e le sue condizioni.

Il 15 novembre 1929 Rachele e i figli si trasferirono nella lussuosa villa dai grandi giardini: i Mussolini erano diventati, almeno a uno sguardo superficiale, il perfetto esempio di famiglia cattolica. A dimostrazione della sua autorità nella capitale, Rachele licenziò Cesira Carocci, governante di suo marito dal 1923 (benché la perdita dell’impiego fosse addolcita, nel classico stile fascista, dall’assegnazione di una pensione da parte dello Stato; nel 1944 la donna era ancora abbastanza ricordata da vedersi concedere una retribuzione supplementare in un momento di bisogno).187 Mussolini poteva comandare a Roma, ma sua moglie, ancora legata alla tradizione, non aveva rinunciato al proprio potere sul fronte domestico.

Sostenuto da amicizie con principi e cardinali, da Predappio Mussolini aveva fatto molta strada. L’unico dubbio, per l’uomo della Provvidenza, era che questi accordi e compromessi, assai simili a quelli realizzati da Bocchini, Badoglio, Osio e altri, potessero trasformare la rivoluzione fascista – e forse il potere del Duce – in un semplice miraggio.