Grazie al trionfale accordo con la Chiesa cattolica il potere di Mussolini sembrò conquistare nuove vette. Nonostante il crollo di Wall Street, nell’ottobre 1929, mentre altri uomini politici si trovarono ad affrontare numerose difficoltà e un incerto futuro, l’immagine di Mussolini splendeva luminosa in Italia e oltreconfine. Pazientemente e con abilità erano stati raggiunti accordi con tutte le componenti della vecchia élite prefascista. Il papa e il re, gli industriali, i banchieri e i proprietari terrieri, l’esercito, la polizia e la burocrazia, la grande maggioranza degli intellettuali (fatta eccezione per alcuni dissidenti recalcitranti, in gran parte costretti a espatriare), tutti sembravano contenti di collaborare con il Duce. Lo stesso valeva per i governi stranieri, i cui esperti consulenti, in questi anni di sfarzo mussoliniano, erano sempre più propensi a consigliare lo studio del modello italiano. Gli economisti, per esempio, sempre pessimisti sulla possibilità di fronteggiare i danni della Grande Depressione nei loro paesi, erano portati a credere che il fascismo avesse vaccinato l’Italia contro la disoccupazione e il crollo dei prezzi e della produzione altrove ben visibili. Come disse nel 1932 Paul Einzig del «Financial Times», dopo un viaggio in Italia: «La nazione italiana è divenuta disciplinata al punto da essere irriconoscibile, e … ha sviluppato la mentalità che mette la collaborazione per il bene comune al di sopra delle considerazioni egoistiche». Suggeriva che lo Stato corporativo meritava un’analisi minuziosa, mentre ammetteva che l’autorità di Mussolini gli incuteva soggezione. Era «uno stupefacente fenomeno psicologico di massa». «La forza e la grandezza di statista» del Duce, concludeva, erano illimitate.1

Il Partito fascista, un tempo così aggressivo, era stato frenato e imbrigliato sotto la segreteria di Turati, anche se le personalità più influenti al suo interno continuavano a litigare tra loro. Come spiegò lo stesso Mussolini nel suo tono abituale: il guaio delle rivoluzioni era che i rivoluzionari sopravvivevano a esse.2 Lo sfoggio di ironia e cinismo era una delle attività preferite dal Duce, perché fra tutti i capi del partito non era possibile immaginarne uno capace di contestare il suo ruolo e il suo carisma. All’interno del regime Mussolini era – o sembrava essere – confermato come leader che deteneva tutti i poteri, tranne quello imperiale. Non aveva imitato il gesto di Ahmet Zogu, che in Albania si era promosso re Zog I, anche se aveva sempre dimostrato di gradire che lo paragonassero a Napoleone Bonaparte3 (il quale, secondo i commentatori nazionalisti, benché nato in Corsica era in realtà italiano).4 I biografi più servili si spingevano ad affermare che i paralleli, per il Duce, non andavano limitati a un solo imperatore:5 egli era in effetti l’amalgama di tutti i grandi imperatori esistiti.6 Come per dare maggior sostanza a questo tipo di valutazioni, nel 1928-29 Mussolini trovò modo di collaborare con il drammaturgo Giovacchino Forzano al testo di un dramma teatrale su Napoleone,7 permettendo, fra l’altro, che venisse citato il suo nome come coautore quando venne rappresentato all’estero (ebbe grande successo a Budapest).8 Il Napoleone di Forzano-Mussolini era un grand’uomo preveggente ed eroico ma, ciononostante, destinato a essere tradito: «Ora tutti coloro che sono stati ai miei piedi, che hanno cantato i miei inni, che hanno profittato della mia fortuna, che io ho acceso con qualche mia favilla perché luce propria essi non ne avevano, tutti coloro che mi devono tutto, ora non troveranno fango sufficiente nelle paludi della Francia per scagliarmelo contro».9

Se davvero questo brano rispecchia la condizione psicologica del Duce, suggerisce senz’altro che in lui certi dubbi non si erano ancora dissipati. Tuttavia, per il momento, questo tipo di predizioni possono tranquillamente essere confinate alla sfera dei suoi pensieri più privati. Le immagini di Mussolini nei cinegiornali dell’epoca mostrano un leader disinvolto nelle espressioni e nei gesti, e pronto al sorriso; sotto l’aspetto esteriore il Duce era un uomo dotato di fascino e di spavalderia. Al tempo stesso, nel 1929, il popolo italiano sembrava soddisfatto e, salvo poche eccezioni, completamente riconciliato con la dittatura. Come diceva la propaganda, gli italiani venivano persuasi a mettere il fascismo al centro della propria identità. Per contro, l’analisi storica rivela che, in realtà, il cattolicesimo, la famiglia, il villaggio e la regione, le reti patrono-cliente, gli usi abituali, insomma, e molte altre persistenti strutture del passato italiano distoglievano il popolo da una religiosità fascista troppo fervente. Malgrado ciò, comunque, le masse erano indubbiamente tranquille e votate al rispetto: nel referendum del 24 marzo confermarono un entusiastico supporto al regime e alle sue politiche, in particolare alla pacificazione con la Chiesa. Oltre otto milioni e mezzo di italiani votarono a favore del regime, mentre solo 135.761 furono i voti contrari e 8092 le schede nulle.10

A simboleggiare la propria elevazione a una simile incontestata grandezza, il 16 settembre Mussolini trasferì il proprio ufficio da palazzo Chigi a palazzo Venezia. Venne sistemato nella rinascimentale Sala del Mappamondo, costruita per i papi nel XV secolo e da poco restaurata. La sala misurava 18 metri per 15, il soffitto era alto 12 metri.11 I passi risuonavano in modo suggestivo quando, timidamente, i visitatori percorrevano la grande distanza tra la porta dell’ufficio e la scrivania – spesso ingombra – del Duce. Il cuore di Roma pulsava appena fuori dal palazzo: là c’erano il Campidoglio dell’epoca classica e il monumento a Vittorio Emanuele II, simbolo grandioso delle ambizioni dell’era liberale. Presto il balcone di palazzo Venezia, il luogo da cui ora Mussolini pronunciava i suoi discorsi più significativi o populisti, avrebbe avuto la vista sul Colosseo, liberato dalle appendici medievali grazie ai radicali rinnovamenti urbani attuati dal fascismo.12 Il nuovo, ampio corso che portava alla grande arena oltre i fori classici fu denominato via dell’Impero. Il tutto costituiva uno scenario dove gli echi della prima e della seconda Italia esaltavano la terza (anche se uno sfacciato e presuntuoso giovane fascista, superate con disinvoltura le «negligenti» guardie ed entrato direttamente nell’ufficio del Duce, constatò che, proprio come tanti altri, egli teneva sulla scrivania una foto dei suoi genitori, mentre fotografie che lo ritraevano nell’atto di suonare il violino e il quadro del suo «magnifico gatto d’Angora» adornavano altri angoli della sala).13

Luisa Passerini ha osservato che per moltissimi visitatori l’incontro con Mussolini rappresentava la realizzazione di un sogno.14 Ma sarebbe più preciso dire che, accanto ai sogni, il Duce era capace di ispirare paura. La Sala del Mappamondo era progettata per intimidire, quasi come se l’austerità degli anni Venti, con i suoi emblemi di Roma repubblicana o del primo Impero, fosse stata sostituita dal desiderio bizantino di separare il dittatore dai propri sudditi.15 Da un Coriolano, da uno dei Gracchi o da un Giulio Cesare,16 Mussolini era stato trasformato in un Costantino o un Giustiniano, un semidio il cui splendore accecava i furfanti nanerottoli dell’umanità ordinaria. Per porre l’accento sulla sua grandiosa superiorità, la retorica sul carisma del Duce cambiò direzione. Si enfatizzò molto il fatto che Mussolini fosse, e dovesse essere, solo. Negli anni Venti si era lamentato ogni tanto del proprio isolamento;17 negli anni Trenta esso divenne, o si disse che fosse divenuto, una parte naturale del suo essere. Nell’aprile 1932 disse a un ammiratore:

Bisogna accettare la solitudine … Un capo non ha eguali. Non amici. L’umile soccorso delle confidenze è negato. Non può aprire il suo cuore. Mai!18

Mussolini aveva preso a rifiutare con ostentazione lo scambio di visite con le famiglie dei ministri fascisti; la socievolezza non si addiceva a persone del suo grado.19 Innumerevoli fotografie forgiarono questa nuova, «granitica» rappresentazione nella mente degli osservatori. A metà degli anni Trenta, un Duce austero, senza sorriso, con le labbra strette e la testa rasata, coperta a volte dall’elmetto, divenne l’onnipresente immagine del dittatore. Senza dubbio, la calvizie incipiente (insieme all’incanutirsi dei capelli superstiti) fu uno dei motivi che lo indussero a adottare il copricapo,20 ma Mussolini il soldato di marmo o d’acciaio, Mussolini la macchina umana sostituiva ora le più sfocate immagini del passato.

Negli anni felici dai Patti Lateranensi al decennale (i festeggiamenti del decimo anniversario della marcia su Roma) Mussolini aveva acquisito il potere assoluto? Era davvero divenuto un dittatore incontrastato, un uomo in grado di tracciare da solo il destino dell’Italia e di aspirare addirittura a trasformare il mondo? Nel regime fascista, realtà e apparenza coincidevano nella gerarchia e nella struttura del potere decisionale? Il fascismo dava ora, come ha affermato uno storico con grande arguzia, «l’illusione di un sistema perfettamente solido»?21 In verità non tutti, e non sempre, erano disposti a credere ciecamente a ciò che vedevano. Nel 1927 un verbale di polizia riferiva che Aldo Lusignoli si era lagnato con i suoi amici per l’onnipresenza della polizia nello Stato fascista; la sua continua intromissione superava «quella nefasta dei Borboni e degli austriaci» prima del Risorgimento. Ma a cosa serviva la repressione? si chiedeva Lusignoli. Mussolini, volendo, avrebbe potuto eliminare dal fascismo la violenza e la corruzione che sconcertavano i critici. «Ma» disse Lusignoli «data la sua mentalità, e la sua innata paura del più forte, non credo e non crederò mai che l’On. Mussolini travolga i suoi amici che lo hanno creato un mito per sorreggere tutta la baracca.»22 Turati, improvvisamente rimosso da segretario del PNF nell’ottobre 1930 dopo che sul suo conto erano corse voci di omosessualità e pedofilia (che ne smentivano l’immagine ufficiale di spartana incorruttibilità),23 in seguito si trovò d’accordo. Scrivendo dopo il 1945, ricordava il Duce come «un debole che aveva terrore della sua insufficienza». Mussolini, affermava, dopo aver risolto una questione si mostrava sereno per nascondere meglio il timore, spesso fondato, di essersi lasciato dominare dai suoi sottoposti.24 Tullio Cianetti, fervido fascista che fece carriera nel movimento sindacale del regime, adottò invece una linea differente. Faceva notare l’effetto esaltante di ogni discorso pronunciato dal Duce: le domande nascevano solo quando era passata l’euforia. Ma poi, si chiedeva, in che modo potevano essere attuate le politiche proclamate con tanta enfasi? Nessuno, però, sapeva come rispondere a questa domanda,25 se non con una frase fatta sul «gradualismo mussoliniano»; parole forbite per nascondere la stasi effettiva che spesso sopravviveva sotto la carica retorica.26

Le riflessioni di Lusignoli, Turati e Cianetti provocano domande stimolanti, comuni alla storiografia di altre dittature. Come governava il Duce? Quali erano, ammesso che ce ne fossero, i limiti del suo potere?27 Fu, in qualche modo, un «dittatore debole»? Le caratteristiche componenti del regime fascista erano imposte «dall’alto» o «dal basso»? Mussolini aveva dominato l’Italia, come sosteneva a gran voce la propaganda, o ne era stato dominato?

Uno degli ambiti in cui simili questioni potrebbero essere meglio valutate è quello della politica estera. Fin dall’inizio della sua carriera, Mussolini aveva esplicitamente espresso l’ambizione di diventare un «grande uomo», vantando le proprie competenze in fatto di relazioni internazionali. Allo stesso modo, tanto gli studiosi dell’epoca quanto quelli successivi hanno volentieri parlato dell’«Impero romano di Mussolini» 28 e delle «guerre del Duce». Tra gli storici attuali, MacGregor Knox ha sottolineato l’esistenza di un collegamento tra il Duce e il Führer in quello che egli interpreta come un «destino comune» naturale. Secondo la sua tesi, ciascuno guidava la versione interbellica di quello che attualmente viene definito «Stato canaglia». Inoltre, sempre secondo Knox, il programma d’aggressione di Mussolini era «fissato in tutti i dettagli essenziali» dal 1926,29 o forse anche prima, perché «la guerra, una grande guerra, fu sin dall’inizio il punto centrale del programma di Mussolini».30

Altri storici si dimostrano meno convinti; Ennio Di Nolfo, per esempio, osserva che Mussolini «sosteneva il revisionismo, ma non voleva la revisione».31 I contemporanei furono altrettanto incerti. Il segretario britannico agli Affari esteri, Austen Chamberlain, spesso in trattative con il Duce, scrisse: «Dubito molto che lo stesso Mussolini sappia esattamente come vuole che siano le sue relazioni con la Francia».32 Un discorso minaccioso tenuto in patria era seguito da un comportamento molto più razionale nel mondo della diplomazia. Malgrado tutta la retorica di Mussolini, l’Italia fascista inviò remissivi delegati a far parte dei comitati della Società delle Nazioni, e i loro colleghi stranieri non li trattarono come uomini dominati dal fanatismo ideologico.33 L’Italia fascista sottoscrisse persino, nel 1928, il trattato di pace Kellogg-Briand, anche se, in un discorso alla Camera dei deputati, Mussolini provocò le complici risate degli ascoltatori quando definì quell’accordo «tanto sublime che potrebbe anche essere chiamato trascendentale».34 Nondimeno, mentre il patto veniva negoziato, aveva ammesso che non vi era motivo di respingerlo unilateralmente.35 Al centro di ogni tentativo di definire la linea diplomatica mussoliniana, in questa come in altre circostanze, c’è una questione filologica, tipica della disciplina della storia. Come va letta la contraddizione tra le parole e le azioni? Esaminiamo la questione della scelta dei collaboratori. Quando si trattò di formare l’organico del ministero degli Esteri, il comportamento di Mussolini sembrò essere più radicale di quanto lo fu nei confronti dell’esercito o della polizia. Iniziò nel 1926, per esempio, proclamando «l’anno napoleonico» del fascismo. «Oggi», promise, l’Italia «comincia ad avere un posto materiale e morale nel mondo», come si addiceva al suo potere accresciuto e in ulteriore aumento.36 Apparentemente fedele alla parola data, in settembre autorizzò Contarini a dimettersi da segretario generale del ministero degli Esteri37 e, affinché nessun successore potesse riproporre l’asserita moderazione di Contarini, dal 1927 non ci furono altre nomine alla carica di segretario generale. Era chiaro che sotto il fascismo i politici, non i burocrati, avrebbero governato il ministero.

Nel 1928 Mussolini e il suo ambizioso sottosegretario Dino Grandi continuarono l’opera, spingendo al ritiro anticipato i diplomatici di grado superiore e modificando in pari tempo le norme di ammissione al ministero per rendere possibile una «leva fascista».38 Si è parlato molto di questa purga del personale diplomatico (e di un’altra nel 1932), anche perché, dopo il 1945, l’enfasi posta su tali provvedimenti serviva a nascondere quanto la politica estera di Mussolini, per tutta la durata del suo regime, fosse stata priva di originalità e in fondo condivisa dalla maggior parte dei membri dell’élite nazionale. Ma occorre tener conto del contesto. Mussolini non fu il primo ad astenersi dal nominare un segretario generale. Crispi lo aveva fatto nel 1888.39 I ministri liberali, poi, non erano affatto restii a prendere sotto la loro protezione i diplomatici neofiti, doverosamente fedeli a certe convinzioni ideologiche. Nel 1914 l’apparato diplomatico italiano era assai influenzato dalle istanze dei proprietari terrieri meridionali, molti dei quali avevano scelto di intraprendere quel tipo di carriera, e i più giovani molto probabilmente condividevano le idee dell’Associazione nazionalista e la speranza che l’Italia potesse in qualche modo allargare i propri confini. Il principio che all’ideologia personale dovevano essere anteposti gli usi e costumi del ministero – un ambiente in cui le manifestazioni di sfrenata passione venivano inevitabilmente considerate cadute di stile – fu osservato dal personale diplomatico italiano solo dopo il 1928. Con le dovute eccezioni, era impossibile distinguere gli atteggiamenti della «leva fascista» da quelli dei loro colleghi in carica dai tempi del periodo liberale. Allo stesso modo, in pochi sostennero la Repubblica di Salò e non tutti i funzionari furono esclusi dalla carriera diplomatica dopo il 1945.40 Fra chi nel 1943 optò per la monarchia vi fu Franco Farinacci, figlio del ras di Cremona e, prima di allora, viceconsole in centri ideologicamente accettabili come Amburgo e Siviglia.41 La sua carriera diplomatica durò fino al 1973.42

Altro caso istruttivo fu quello di Grandi che, promosso ministro degli Esteri nel settembre 1929, conservò l’incarico fino al luglio 1932 e in seguito fu ambasciatore a Londra fino al 1939.43 Sebbene la sua posizione sociale esigesse un certo decoro, egli era cresciuto come fascista intransigente, uno dei leader dell’opposizione al «patto di pacificazione» con i socialisti nel 1921. Non aveva tardato, inoltre, a qualificare la Società delle Nazioni come una mera coalizione dei paesi vincitori più ricchi e a chiedere la revisione del trattato di Versailles.44 Nel 1922 la sua visione del mondo era già più moderata. Dimostrava di essere adatto a un incarico diplomatico, soprattutto quando salutava il suo Duce come «lo statista geniale dotato d’un istinto quasi supernaturale»45 e affermava che Mussolini era «la Sintesi della vita del Paese» con il «suo infallibile senso realistico».46 Bell’uomo, simpatico e gentile, Grandi era il tipo che la diplomazia internazionale capiva, apprezzava e credeva (giustamente) di poter sedurre.47

Se i funzionari scelti da Mussolini per il ministero degli Esteri non sembravano rappresentare una vera frattura nella continuità nazionale, cosa si può dire per quanto riguarda la politica vera e propria? Il fascismo aveva ereditato alcune aree di interesse particolare dal precedente governo liberale. Il regime seguiva con attenzione le sorti dell’Africa orientale, come era già accaduto, con risultati altalenanti,48 dagli anni Ottanta dell’Ottocento. Mussolini affermava che, di tutte le grandi potenze, quella maggiormente interessata allo Yemen era l’Italia,49 chiedendosi forse nel contempo se non ci fosse modo di sfruttare meglio la presenza in Etiopia.50 Non prese comunque iniziative, ma approvò l’ascesa di ras Tafari al trono imperiale con il nome di Hailé Selassié I e sottoscrisse, nel 1928, un trattato di amicizia tra i due Stati.51 Per ciò che riguardava quella parte del mondo Mussolini continuava a seguire la corrente. Un diplomatico di stanza a Addis Abeba ricordava una riunione di addio con il Duce, piena di allegria e banalità, conclusa con Mussolini che impartiva istruzioni, o comunque suggeriva una revisione della linea di condotta nazionale.52

Quando, nel 1931, l’argomento Etiopia tornò ad affiorare a Roma, fu perché il primo ministro francese Pierre Laval suggerì a Grandi che l’Italia avrebbe potuto ottenere delle «compensazioni» laggiù.53 L’iniziativa di Laval fu valutata dettagliatamente da Raffaele Guariglia, diplomatico di carriera che dopo il luglio 1943 sarebbe stato il primo ministro degli Esteri dell’epoca postfascista.54 Nonostante il suo retroterra culturale piuttosto tradizionalista, Guariglia fu felice di prendere in considerazione un’ipotesi che avrebbe consentito alla «generazione di … Mussolini» di cancellare la «macchia» di Adua dalle cronache nazionali. «L’Abissinia» spiegò «è il solo sbocco demografico ed economico che sia ancora aperto per noi. Per penetrarla occorrono denari – per prenderla, probabilmente la guerra. Ma nulla si ha al mondo senza sforzo e fatica. Se vogliamo l’Impero bisogna guadagnarcelo.» Tuttavia, ammonì, quando l’Italia si fosse impegnata nell’azione africana, il suo leader non avrebbe dovuto dimenticare la questione di fondamentale interesse per la nazione, «il solo pericolo grave, se non mortale, che minaccia l’avvenire del nostro paese». Quell’evento, così strategicamente inquietante, era l’Anschluss, cioè l’annessione dell’Austria alla Germania. Guariglia raccomandò un ulteriore avvicinamento dell’Italia alla Francia per bloccare ogni avanzata della Germania.55 In tutta questa discussione Mussolini non ebbe parte alcuna, limitandosi alla lettura dei documenti ufficiali. L’Etiopia non era ancora un problema abbastanza significativo per destare il suo diretto interesse.

Nel primo decennio del potere fascista, questione diplomatica ben più urgente di un ipotetico sbocco in Africa era il rapporto dell’Italia con il nuovo Stato situato ai suoi confini nordorientali, che avrebbe preso il nome di Iugoslavia. I fatti accaduti negli anni Novanta del Novecento potrebbero far apparire la politica fascista non tanto quella di uno «Stato canaglia», quanto quella di un fautore ante litteram della NATO, ma Mussolini, malgrado la sua pubblica approvazione del trattato di Rapallo, non smise mai di immischiarsi nelle torbide politiche interne del suo vicino. I suoi intrighi non provocarono proteste da parte dei diplomatici italiani, che videro, invece, una certa continuità con ciò che aveva fatto l’Italia liberale sin da quando, nel 1913, era iniziato il difficile cammino dell’Albania. Il sostegno italiano a re Zog56 nascondeva, in realtà, intenti anti-iugoslavi: Mussolini inviò sussidi57 e sorrisi alle forze «musulmane» del Kosovo.58 Nell’ottobre 1926 suggerì improvvisamente a Badoglio che l’Italia doveva elaborare un piano d’invasione su vasta scala contro la Iugoslavia:59 era un esempio di quello che gli italiani definivano «l’intuito» del Duce? A ogni modo, sebbene Mussolini insistesse sulla necessità di agire «senza perdere un minuto di tempo», la questione non ebbe seguito, quantomeno negli anni Venti.

Ancora più dannoso per il processo di costruzione di una Iugoslavia unita fu l’incoraggiamento italiano al separatismo croato tramite il politico nazionalista, e in seguito assassino fascista, Ante Pavelić.60 Nel 1929, quando la Iugoslavia optò per una Costituzione più autoritaria (e di ispirazione serba), i dissidenti croati ricevettero ospitalità e addestramento militare in Italia, aiutati anche dall’appoggio dell’ex nazionalista Roberto Forges Davanzati61 e da un sussidio mensile di 70.000 lire tratto dai fondi segreti del ministero degli Esteri.62 Nel febbraio 1929 Pavelić, parlando a un interlocutore italiano (ma non a Mussolini), lanciò l’idea di organizzare l’assassinio di Alessandro I, re di Iugoslavia.63 Gli italiani si limitarono a prendere atto dell’intenzione, mentre Grandi commentava in tono compiaciuto che l’entusiasmo croato non doveva essere scambiato per «l’istinto del rivoluzionario» proprio del fascismo italiano.64 In conclusione, l’Italia fascista era un cattivo vicino per la Iugoslavia, ma ancora non complottava seriamente a suo danno. Ben pochi elementi dimostrano, inoltre, che le idee di Mussolini su quell’area fossero originali o particolarmente influenti. Per molti anni la questione iugoslava fu inestricabilmente legata alla demografia della Venezia Giulia e alla determinazione nazionalista di negare o cancellare le minoranze «slave» della regione. Mussolini certo non infranse la tradizione quando, nell’aprile del 1929, ordinò al prefetto: «Niente giornali slavi a Trieste», città italiana ma naturalmente poliglotta.65

Qual era, dunque, l’immagine internazionale del regime di Mussolini? L’istituzione della dittatura e la successiva costituzione dello Stato totalitario suscitarono un dibattito sul ruolo del fascismo nell’ambito della storia mondiale. I collaboratori di «Critica Fascista» e altri giornali dedicarono particolare attenzione a tutto quanto rivelasse l’ammirazione degli stranieri per gli eventi italiani. Georges Valois e il suo «Faisceau» in Francia,66 la dittatura di Miguel Primo de Rivera in Spagna,67 la paramilitare «Heimwehr» in Austria,68 i «destristi» in Lituania,69 i fascisti in Giappone o in Albania o in Gran Bretagna70 (e i britannici filofascisti residenti in Italia),71 un primo ministro australiano presumibilmente diventato fascista durante la sua legislatura:72 le azioni di ciascuno furono citate con approvazione nelle pagine della stampa fascista, a dimostrazione di quelli che venivano abitualmente etichettati come «gli aspetti universali del fascismo».73 Era diffusa la convinzione secondo cui il messaggio fascista potesse essere esportato, benché Margherita Sarfatti cercasse di spiegare che un’avanzata fascista sarebbe equivalsa al «pacifico imperialismo dei grandi movimenti di idee e delle profonde rivoluzioni spirituali».74 Eppure, malgrado i ripetuti accenni all’espansionismo ideologico, in un discorso del marzo 1928 alla Camera dei deputati, Mussolini dichiarò con fermezza che «il fascismo non è un articolo di esportazione».75

Che cosa concludere dopo questa affermazione? L’unica deduzione sensata è che Mussolini e il resto della classe dirigente non avevano ancora deciso che cosa significasse la parola «universalità» per la dittatura che esercitava il potere sull’ultima delle grandi potenze. Prova ne sia il fatto che, proprio mentre Mussolini dichiarava che il fascismo era riservato agli italiani, suo fratello affermava che il modello italiano di governo aveva caratteristiche esportabili. Nel marzo 1928 Arnaldo definì «universale» il fascismo, nel senso che incarnava un nuovo tipo di civiltà, scaturito dalla guerra e contrario all’«aridità delle concezioni inglese e americana» e alla barbarie della Russia bolscevica.76 Egli proteggeva inoltre Berto Ricci, giovane fascista dalle inclinazioni filosofiche e radicali, che aveva in animo di portare il regime sempre più rapidamente verso l’Impero e la fascistizzazione del mondo.77 Nel gennaio 1931 Ricci, per divulgare le proprie idee, cominciò a pubblicare un giornale dal titolo «L’Universale». L’anno dopo il governo fascista incoraggiò la prospettiva di un’Internazionale fascista,78 anche se l’ascesa di Hitler e dei nazisti in Germania cominciava a rendere improbabile il fatto che molti ambiziosi «fascisti» stranieri guardassero a Roma piuttosto che a Berlino per un appoggio intellettuale e finanziario. Forse la posizione più confusa fu quella della Sarfatti che, nel 1932, dichiarò che «Mussolini ha preso nel nome d’Italia la leadership della politica del mondo, e forse tutela qualcosa di più alto ancora che non sia politica: difendere la civiltà occidentale della razza bianca».79 Se riflettesse o meno un dubbio presente nell’animo del suo ex amante, è oggetto di speculazione.

È certo, invece, che Arnaldo Mussolini non era esente da contraddizioni. Da Milano, sua base di potere, aveva guardato con favore all’arrivo del Rotary in Italia, accettando di farne parte.80 L’internazionalismo liberale dell’associazione provocò qualche irritazione da parte fascista, ma nel 1929 Alessandro Pavolini volle chiarire la giusta linea di condotta fascista: «Di fronte ad associazioni internazionali che, come il Rotary, sono nate da una mentalità non congeniale alla nostra di fascisti (da una mentalità democratica, o pacifista, o massonica, o protestante, o ebraica), il Regime ha generalmente scelto il criterio di esser presente. Si è fatto rappresentare dai propri uomini».81 La storia del patto Kellogg-Briand e della Società delle Nazioni si stava ripetendo. I portavoce fascisti continuavano a sottolineare l’aspetto radicale della dittatura in Italia ma, almeno al momento, erano disposti a scendere a compromessi con le grandi potenze all’estero e a adattarsi in qualche misura alle loro mode. Mussolini non diede cenno di disapprovare questa sottigliezza tattica.

Lo stesso atteggiamento ricorreva nella linea politica del regime relativa al disarmo, un tema che sembrava essere cruciale in Europa dal 1929 al 1932. In cuor suo il Duce indubbiamente considerava l’intero progetto una «tragicommedia», come la definì parlando con Austen Chamberlain (che forse non dissentì).82 Tuttavia, pur esigendo a gran voce che l’Italia avesse, o sembrasse avere, la meglio in ogni discussione sul disarmo,83 non ritirò i rappresentanti italiani da Ginevra. Seguì soltanto una doppia linea di comportamento, approvando un’accattivante considerazione di Grandi, secondo il quale il continuo insuccesso della Società delle Nazioni avrebbe reso più facile persuadere gli italiani ad accettare «nuovi sacrifici» per sostenere un eventuale riarmo.84 A dire il vero, le possibilità di una simile modernizzazione degli armamenti erano, all’epoca, molto scarse; lo stesso Badoglio aveva annunciato che qualsiasi progetto di una guerra su due fronti, contro la Francia e la Iugoslavia, equivaleva a «un nostro suicidio».85 Nell’ottobre 1930 Mussolini disse ai funzionari del partito: «L’Italia … disarmerà, se tutti disarmeranno … Sia chiaro, comunque, che noi ci armiamo materialmente e spiritualmente per difenderci, non per attaccare. L’Italia fascista non prenderà mai l’iniziativa della guerra».86

È improbabile che le clausole dibattute a Ginevra fossero la prima preoccupazione di Mussolini. Egli, piuttosto, dimostrò la vera natura dei suoi interessi quando rimproverò Grandi per aver scritto direttamente a Farinacci il quale, di conseguenza, gli aveva dedicato un articolo di elogio sul suo giornale «Il Regime Fascista».87 Poteva ravvisarsi in questo gesto, si chiedeva il Duce, un accenno di ammutinamento, il tentativo di opporre al suo un carisma rivale? Nella mentalità di Mussolini tutte le strade percorse dai suoi sottoposti dovevano condurre a lui. Questo era il leader – all’erta per il minimo cenno di protesta o di dubbio – che Fulvio Suvich, fascista triestino promosso sottosegretario quando Mussolini riprese il ministero degli Esteri nel luglio 1932, ricordava di aver sentito dire in più di un’occasione: «Questo ai fascisti, non piace».88 Fino all’ascesa di Hitler e dei nazisti, preoccuparsi per la propria immagine, proteggere il proprio carisma e dirigere il PNF rimase per Mussolini più significativo del progettare una politica estera originale e indipendente.89 Egli leggeva con zelo le comunicazioni diplomatiche, sottolineava copiosamente i testi, i telegrammi e i dispacci che affluivano in gran numero sulla sua scrivania, soprattutto a causa della mancanza di un segretario generale che filtrasse le informazioni. Eppure, solo occasionalmente, ma con maggiore frequenza verso la fine degli anni Trenta, Mussolini poteva elencare una serie di priorità da seguire nell’una o nell’altra area politica. Nel 1932 il corpo diplomatico nazionale, pur sotto la sua dittatura, rimaneva più italiano che mai; per quanto riguardava gli affari esteri, Mussolini si limitava ad amministrare il sistema anziché elaborare una propria politica.

Un settore dove le negoziazioni internazionali parevano smentire questa conclusione è l’emigrazione: durante il primo decennio al potere, il fascismo sembrava aver stabilito un’inversione di rotta. Mentre prima del 1914 gli italiani abbandonavano il loro paese a un ritmo annuo inesorabilmente vicino al milione (inducendo i nazionalisti a piangere «l’emorragia di sangue perduto»),90 nel 1934 il numero delle partenze era sceso a 68.461.91 A conferma di quella che sembrava una decisa svolta nella politica nazionale, nel 1927 Grandi annunciava che la parola «emigrante» era stata cancellata dai vocabolari italiani. Allo stesso tempo, il redivivo imperialismo avrebbe cercato la sua ragion d’essere nello sviluppo demografico.92 Poiché gli italiani erano, a differenza dei francesi e di alcuni altri vicini, un «popolo prolifico», avrebbero meritato qualche guadagno di tipo territoriale. Dietro questa retorica c’erano nuove istituzioni burocratiche, in particolare i cosiddetti «Fasci italiani all’estero». Operando sulla struttura liberale degli Istituti coloniali italiani, che non avevano mai funzionato efficacemente, i Fasci italiani all’estero si proponevano di inculcare gli ideali fascisti e «l’italianità» nei connazionali residenti all’estero. Generose sovvenzioni ufficiali garantivano loro la possibilità di pubblicare un giornale, dal giugno 1925 intitolato «Il Legionario», pieno di articoli sul trionfo nazionale, e di alimentare l’ideale di «un impero eroico e religioso».93 In qualche modo i Fasci italiani all’estero costituivano un altro tassello nella realizzazione di una società genuinamente fascista e totalitaria.94 Il loro interesse verso il benessere e la gloria nazionale può spiegare perché, dopo il 1945, il ricordo di Mussolini fosse più positivo nelle comunità degli emigranti italiani di quanto lo fosse in Italia?95 Forse sì, anche se è arduo accettare l’idea che i Fasci italiani all’estero abbiano avuto un ruolo determinante.

In pratica, la politica sull’emigrazione di Mussolini e del suo regime fu dettata dagli eventi piuttosto che frutto di un’elaborazione originale. Nel 1923 il Duce aveva ammesso che l’emigrazione era «un bisogno fisiologico per il popolo italiano». L’anno successivo aveva dichiarato al Senato che «non si può e non si deve pensare a guerre per la conquista di territori di colonizzazione».96 Solo nel 1926 portò la questione su un terreno diverso, per dichiarare: «Io non sono entusiasta dell’emigrazione», rispolverando le sue vecchie accuse marxiste contro lo sfruttamento che, a quanto si diceva, era la sorte inevitabile di coloro che abbandonavano il proprio paese.97 Il nuovo atteggiamento era motivato non tanto da convinzioni ideologiche, quanto dalle norme più restrittive adottate dalle società ospitanti, in particolare dagli USA, nei confronti degli immigrati italiani. Ma anche allora Mussolini mostrò una certa prudenza. Quando i Fasci italiani all’estero divennero troppo invadenti, furono rimproverati pressappoco nel modo in cui lo erano, in patria, i fascisti radicali. Nuovi statuti elaborati nel 1928 stabilivano che i Fasci all’estero non dovevano contravvenire alle leggi dei paesi stranieri in cui operavano.98 In seguito, il governo rese regolarmente disponibile il denaro per finanziare la propaganda fascista tra gli emigranti e favorire l’afflusso di neofiti nei suoi ranghi, tramite istituzioni come i circoli del dopolavoro. Il fascismo, però, non riuscì mai a risolvere il dilemma fondamentale che stava alla radice di ogni politica estera italiana di tipo nazionalista, per non parlare di quella razzista, che cercasse davvero di nazionalizzare le masse di emigranti. Se l’Italia avesse voluto veramente imitare la Germania nazista, aspirando a riportare in patria tutti gli italiani sparsi nel mondo, avrebbe dovuto progettare l’immediata occupazione di New York, Buenos Aires e molte altre città del Nuovo Mondo. L’Italia cercava invece di trarre profitti da paesi quali l’Etiopia e la Libia, territori già popolosi, di scarso richiamo per qualsiasi emigrante avveduto. Il più aggressivo atteggiamento dell’Italia fascista ricalcava le orme di una nazione del XIX secolo, replicando le modalità con cui le grandi potenze di allora avevano conquistato l’Africa. Né Mussolini né alcun altro membro del fascismo riuscì a trovare il modo di dare all’espansionismo una «base di massa»: di conseguenza, l’aggressività dell’Italia fascista non ebbe mai la determinazione micidiale (e la fama) di quella del suo alleato nazista.

La situazione, fra l’altro, non manca di presentare alcuni aspetti ironici. I peggiori territori di caccia dell’Italia fascista si trovavano proprio all’interno dell’Impero, ereditati in gran parte dal precedente governo liberale, e tutti insieme costituivano solo un piccolo capitolo nella storia della sopraffazione europea del mondo. Sotto molti aspetti, l’Italia non solo era la più piccola, ma anche la più arretrata delle potenze imperiali d’Europa. I dibattiti storiografici e l’interesse delle potenze mondiali dopo il 1945 si sono alleati per passare sotto silenzio il periodo imperiale del fascismo e il ruolo svoltovi da Mussolini. Malgrado ciò, si tratta di una storia triste e istruttiva degna di essere raccontata.

Nel 1922 un mandato italiano copriva a malapena le colonie dell’Eritrea e della Somalia acquisite negli anni Ottanta dell’Ottocento, i territori della Tripolitania e della Cirenaica e l’arido ex-vilayet del Fezzan, conquistati durante la guerra italo-turca del 1911-12, conglobati e ribattezzati con l’antica denominazione romana di Libia. L’Italia governava anche le isole del Dodecaneso, occupate durante quella stessa guerra e in seguito conservate, nonostante le forti pressioni internazionali per restituire le popolazioni greche alla Grecia. Di questo arido Impero, la parte più importante era costituita dalla Libia. Durante la prima guerra mondiale, i governi liberali italiani avevano fatto poco per mantenere quella che era sempre stata una fragile conquista nel continente africano. Nel 1921 ottantanove lottizzazioni, per un totale di 2500 ettari, costituivano la totalità dello sviluppo agricolo nella colonia.99 Malgrado ciò, il governo liberale aveva deciso la «riconquista» della Libia sotto l’egida di Giuseppe Volpi, governatore della Tripolitania dal luglio 1921, e di Giovanni Amendola, ministro delle Colonie dal febbraio 1922, futuro «martire» del fascismo. Alla base della riconquista stava l’assunto espresso nel 1911 da Maffeo Pantaleoni, in seguito condirettore della rivista «La Vita Italiana», secondo cui «l’imbastardita attuale popolazione, costituita dall’incrocio di quanto vi è di più laido tra le razze umane, va respinta e distrutta, e sostituita con buon sangue italiano».100 L’imperialismo italiano era inevitabilmente simile a quello che avrebbe – e che già aveva – portato allo sterminio delle popolazioni indigene in molti altri territori annessi da una potenza metropolitana.

Pensando a una nuova conquista della Libia né l’opportunista Volpi né il liberaldemocratico Amendola impallidivano di fronte al termine «fermezza», il cui significato concreto era spesso il genocidio. In tal modo il governo fascista offriva soltanto una parziale soluzione di continuità, mentre le idee di Mussolini, riassunte dal principale storico dell’Impero, apparivano «piuttosto imprecise, mutevoli, a volte contraddittorie».101 Volpi, che rimase governatore fino al 1925 e poteva contare sull’appoggio di Federzoni e di Lanza di Scalea, i suoi ministri nazionalisti, e, meno direttamente, del Duce, tentò di incrementare lo sviluppo capitalistico, preferendolo all’idea di un’immigrazione di stampo più populistico. Egli era particolarmente attento a produrre rapporti sugli sviluppi coloniali che enfatizzassero la sua abilità minimizzando quella degli altri, fatta eccezione per le vittorie militari del giovane Rodolfo Graziani,102 che aveva inviato nell’interno del paese.103 Questi, come fu subito chiaro, sosteneva che il modo migliore per vincere fosse la durezza: ciò significava l’eliminazione degli anziani, delle donne, dei bambini, nonché dei «ribelli» che si armavano contro l’autorità italiana. Seguendo il modello romano, Graziani definiva i libici «barbari», esseri senza diritti né futuro.104

Sostituto di Volpi fu Emilio De Bono, la cui nomina potrebbe essere letta come il segnale di un nuovo impulso a fascistizzare l’Impero. Mussolini visitò Tripoli nell’aprile 1926, poco dopo l’attentato di Violet Gibson. De Bono fu raggiunto da Attilio Teruzzi, governatore designato della Cirenaica, mentre un altro ex quadrumviro, Cesare Maria De Vecchi, governava la Somalia dall’ottobre 1923 (questi, fra l’altro, compose una rodomontata sui propri dubbi successi in quella sede, scimmiottando l’uso della terza persona di Giulio Cesare nelle sue relazioni sulle campagne militari).105 La più celebrata nomina imperiale di un fascista durante il regime fu, nel gennaio 1934, quella di Italo Balbo come governatore di tutta la Libia, mentre nel novembre 1936 De Vecchi fu mandato a governare le isole del Dodecaneso dove, con la sua abituale, aggressiva incompetenza, in breve tempo compromise106 anche il relativo consenso manifestato fino ad allora, se non altro dagli abitanti più poveri, nei confronti della dominazione fascista.107

La conquista dell’Etiopia nel 1935-36 comportò una grande espansione dell’Impero italiano e un nuovo tentativo di fascistizzazione dello stesso che sarà esaminato più avanti. Tuttavia, il costo di vite umane nella guerra in quella regione, per quanto doloroso, non fu mai pari a quello sofferto in Libia durante la pacificazione, dal 1928 al 1933, periodo che coincise con la nomina di Badoglio a governatore della Tripolitania e Cirenaica unite. Parte di questa storia ha a che fare con una lotta intestina. Badoglio era infatti rivale di Graziani, che era stato nominato vicegovernatore della Cirenaica nel marzo 1930. Entrambi, poi, detestavano De Bono, ministro delle Colonie dal settembre 1929 al gennaio 1935. Graziani era assai più sollecito di Badoglio nel sottolineare il proprio attaccamento al fascismo, ma i due si trovarono d’accordo, nel giugno 1930, sull’attuazione di una politica di pulizia etnica nell’interno del paese che costrinse a espatriare una popolazione di centomila anime.108 Badoglio adottò metodi estremamente brutali, raccomandando ai propri uomini di essere «feroci, inesorabili» nell’espulsione di ogni nucleo familiare che incontravano.109 I profughi venivano rinchiusi in una serie di campi di concentramento vicini alla costa e spesso lasciati morire di fame e di malattia (la dominazione fascista aveva abbattuto circa il 90 per cento del bestiame appartenente alla popolazione).110 Quando i campi furono riaperti, nel settembre 1933, era sopravvissuta solo la metà dei deportati.111

La rivolta locale fu capeggiata da Omar el-Mukhtar, che fu però catturato e giustiziato dopo un processo farsa nel settembre 1931 (impiccato pubblicamente come «bandito»).112 Nella lotta contro le forze ribelli, gli italiani non esitarono a usare i gas asfissianti,113 soluzione sponsorizzata con leggerezza da Italo Balbo nel 1927 quando, come sottosegretario al ministero dell’Aeronautica, approvò «il naturale connubio tra l’arma chimica e quella del cielo».114 Uno dei bersagli dell’attacco chimico in Cirenaica fu la «città santa» di Cufra,115 dove gli italiani esibirono la stessa determinazione usata da molte altre potenze imperiali per cancellare con il metodo più odioso possibile ogni traccia di storia locale in grado di mettere in discussione la loro. Il gas fu usato senza alcuna pietà anche in Etiopia.

L’ammissione di questi delitti fu strappata agli storici ufficiali italiani dopo il 1945 con grande difficoltà, nonostante fossero ormai al servizio di una repubblica e non di un dittatore fascista.116 Sull’argomento rimane, tuttavia, una certa reticenza (proprio come accade per la liquidazione di molti popoli coloniali da parte dei loro «civili» padroni metropolitani). Per quanto riguarda la bibliografia relativa alla Germania nazista, Omer Bartov e altri hanno dimostrato come l’inimmaginabile «imbarbarimento della guerra» sul fronte orientale fosse opera tanto dell’esercito tradizionale tedesco quanto dei fanatici nazisti.117 Kershaw aggiunge che questo fu un altro risultato della determinazione dei tedeschi ad agire per il loro Führer. La violenza assassina della guerra imperiale italiana solleva un dubbio simile, ma produce una risposta diversa. Mussolini può avere in ogni caso avallato le politiche più atroci nel momento in cui gli venivano riferite, ma furono Badoglio, Graziani e altri, non il Duce, a prendere l’iniziativa. Molto probabilmente essi furono in qualche misura influenzati dai «presupposti sottaciuti» di una nuova ferocia approvata dal fascismo e incarnata nella personalità di Mussolini. Tuttavia, Badoglio era un ufficiale del Regio esercito italiano, completamente identificatosi in tale ruolo. Il suo imperialismo era di tipo più tradizionale che «mussoliniano». Critiche ai campi di epurazione e di concentramento vennero poi da parte di De Bono e Roberto Cantalupo, il giornalista ex nazionalista che, al tempo, era ambasciatore d’Italia al Cairo.118 Le motivazioni di queste critiche erano, più che etiche, personali (specialmente per De Bono) e tattiche (Cantalupo stava tentando di realizzare un riavvicinamento con i nazionalisti egiziani). Fascisti o no, i membri delle classi più elevate davano ben pochi segni di considerare gli indigeni dell’Impero come esseri umani di pari dignità (qualsiasi fosse l’opinione degli italiani appartenenti alle classi meno agiate che avevano vissuto in quei luoghi).119 A ogni modo erano più in sintonia con i colonizzatori francesi e britannici del XIX secolo che con quelli nazisti degli anni a venire.

Se, da una parte, nel 1932 tanto Mussolini quanto i suoi sudditi più colti sognavano un impero, dall’altra il loro paese praticava un metodo più umile ma meglio rimunerato di entrare in relazione con il mondo: il turismo. Uno Stato totalitario aperto alle visite di massa da parte di stranieri liberi e indipendenti sembra una contraddizione in termini (ed è ben nota la sospensione delle attività più palesemente antiliberali del regime nazista durante le Olimpiadi di Berlino del 1936). Ma l’Italia, la bella, artistica, «storica» Italia, era senza dubbio una meta sognata da molti. Il regime, a questo proposito, discuteva sul da farsi, specie per le reiterate rimostranze nazionaliste sul fatto che i turisti, attratti dal Rinascimento o dai succosi frutti estivi, in realtà non facevano altro che degradare il paese. Marinetti, come sempre, spinse la questione all’estremo suggerendo che la distruzione di Venezia o di Firenze sarebbe stato un buon modo per avanzare verso la modernità e la grandezza. Questi atteggiamenti ostili contrariavano invece gli economisti, consci del fatto che il turismo fosse l’industria più florida d’Italia. Mussolini aveva un’opinione al riguardo?

Ogni tentativo di rispondere a questa domanda è complicato dal fatto che la gestione del turismo era contesa da diverse organizzazioni, alcune delle quali rappresentavano una continuità con il passato liberale mentre altre erano più rigorosamente «fasciste».120 Lo Stato corporativo comprendeva naturalmente anche il turismo, ma lo faceva con una certa ambiguità. Con l’approvazione del Duce si diede vita a un nuovo ente, la Direzione generale del turismo, che ereditava i vecchi dissensi mai completamente risolti. Durante la seconda guerra mondiale i funzionari più alti in grado occupati nel settore avrebbero dimostrato grande riluttanza ad abbandonare il loro impiego per prestare servizio al fronte; preferivano sognare gli alberghi di lusso anche nei giorni bui del 1942-43. L’organizzazione turistica, sotto il governo di Mussolini, rimase allo stesso tempo liberale e fascista, ma soprattutto burocratica.

Una delle agenzie istituite dai liberali e destinata a sopravvivere oltre il 1945 fu il Touring Club Italiano, orgoglioso di avere la propria sede a Milano, sotto molti aspetti organizzazione rappresentativa delle classi medie (e determinata a nazionalizzarle, sia pure in modo equivoco).121 La sua storia sotto la dittatura è rivelatrice. Il TCI subì una crescente intrusione fascista, culminata nel 1937 con la forzata «italianizzazione» del suo nome in Consociazione Turistica Italiana; essa riuscì comunque a resistere ai ripetuti tentativi di trasferire la direzione generale a Roma, la «capitale imperiale». Mussolini, interpellato, rispose al direttore della CTI che tutto ciò che chiedeva all’istituzione era soltanto di continuare l’opera patriottica che si era prefissa.122 Precisò che i responsabili dei disagi sofferti dai degni dirigenti dell’ex TCI erano altre persone, più fanatiche e meno realistiche di lui. Egli era invece pronto a favorire il CTI e ad approvarne l’impostazione purché, in cambio, desse lustro al radicalismo fascista.

Il più grande evento turistico, apparentemente il momento cruciale nel processo di fascistizzazione della società italiana durante i primi anni Trenta, fu il Decennale, la celebrazione del decimo anniversario della marcia su Roma progettata per il 1932. In quell’occasione il Duce proclamò con orgoglio che l’inevitabile fascistizzazione dell’Europa era un riflesso della luce che da sempre Roma emanava.123 Egli, comunque, si rendeva conto di non essere l’unico interprete dell’eredità romana. È ben vero che erano stati sottoscritti i Patti Lateranensi, ma i dissidi con la Chiesa non erano cessati. Purtroppo, l’interpretazione mussoliniana della storia religiosa rivelava una certa tendenza all’empietà, resasi evidente nel maggio 1929 quando affermò alla Camera dei deputati che la cristianità «è nata nella Palestina, ma è diventata cattolica a Roma». Se non avesse avuto la buona ventura di incontrare Roma, aggiunse aggressivamente, con ogni probabilità sarebbe rimasta «una delle tante sette che fiorivano in quell’ambiente arroventato, come ad esempio degli Esseni» e «si sarebbe spenta, senza lasciare traccia di sé».124 I Patti Lateranensi, concluse con un pensiero, meno consapevolmente eretico, sulla nazione, avevano avuto luogo perché il papa attuale era «un Pontefice veramente italiano, nato … in terra lombarda» e ciò si evinceva anche dal suo senso pratico e dalla disponibilità a prendere iniziative.

Nei due anni successivi si verificarono numerosi scontri tra la Chiesa e lo Stato, dovuti allo spinoso problema del controllo fascista sull’istruzione. Pio XI si era descritto in più occasioni come il «papa dell’Azione cattolica» e certamente manifestava grande interesse per il benessere spirituale e materiale di questa istituzione.125 I circoli e le associazioni cattoliche mal si accordavano con l’idea di uno Stato totalitario (anche se «Critica Fascista» era disposta a riconoscere confusamente che, a modo suo, anche la Chiesa era totalitaria).126 Di fronte a un avversario ostinato, Mussolini diede sfogo alla propria misantropia e al livore, sentimenti che gli erano abituali e che rafforzavano in lui la fastidiosa sensazione di non essere ancora riuscito ad afferrare l’intero potere: avendo sentito dire che al pontefice era stato diagnosticato un cancro alla prostata, chiese a De Vecchi, diventato il suo ambasciatore al Vaticano, se era vero che avessero fatto qualche adattamento alla Cappella Sistina per raccogliere l’orina del papa mentre celebrava la messa.127

Nel maggio 1931 il regime fascista pose il veto alle organizzazioni giovanili dell’Azione cattolica e Pio XI rispose con una dura enciclica dal significativo titolo Non abbiamo bisogno. Secondo uno storico recente, «le relazioni tra l’Italia e il Vaticano scesero al livello più basso».128 Ma forse la disputa non fu così profonda, dato che sia Mussolini sia Pio XI sapevano che i Patti Lateranensi erano stati un buon affare tanto per la Chiesa quanto per lo Stato. Alla fine dell’estate si era raggiunto un compromesso e il duce dichiarava di essere «ben disposto a concedere alla Santa Sede un maggior intervento della Chiesa nelle organizzazioni del Regime».129 Il segretario di Stato pontificio Pacelli, che sarebbe diventato Pio XII nel 1939 ed era già visto da De Vecchi come un prelato promettente e simpatico, a quanto si disse accolse la notizia con grande gioia.130 Nel febbraio 1932 Mussolini, benché avesse paura di «andare a Canossa» o, peggio, di dare l’impressione di farlo,131 si recò in visita ufficiale al Vaticano. Nonostante il sospetto nutrito sia da alcuni ecclesiastici sia da taluni fascisti, Mussolini e Pio XI presero atto che la Chiesa e lo Stato avevano molto in comune nella visione dell’ordine sociale e generale in patria, trovandosi d’accordo sul fatto che per quanto riguardava Malta, l’URSS e diverse altre questioni estere la migliore politica fosse l’accomodamento. Il fascismo, disse il papa, era un regime «tendente all’affermazione dei princìpi di ordine, di autorità, di disciplina – niente che sia contrario alle concezioni cattoliche».132

Il partito e il suo ruolo nella futura costruzione dello Stato corporativo furono altri temi che occuparono il Duce, poiché gli alterchi tra i suoi subalterni non erano mai veramente finiti.133 La caduta di Turati fu seguita da un curioso interregno durante il quale, dall’ottobre 1930 al dicembre 1931, la segreteria venne affidata a Giovanni Giuriati.134 Il nuovo segretario veniva dall’esperienza del nazionalismo di frontiera e aveva aderito al fascismo nel 1921, dopo essere stato eletto deputato135. Politico attivista e intelligente, egli in seguito affermò di essere rimasto impressionato dall’isolamento sempre più marcato di Mussolini e dalla sua evidente superficialità. Non si stupì quando quest’ultimo rivelò di leggere quotidianamente trentacinque giornali (o almeno i titoli e gli editoriali),136 ma trovava irritante che Mussolini volesse «lasciar credere al popolo ch’egli non soltanto dirigeva l’orchestra, ma suonava contemporaneamente tutti gli strumenti principali»,137 mentre il suo prevalente interesse consisteva nell’essere informato sui dettagli dell’ultimo scandalo in cui era coinvolto un membro del partito.138 Mussolini con ogni probabilità gradì l’intercettazione telefonica di una conversazione tra Farinacci e il generale Ottavio Zoppi, del ministero della Guerra, di cui venne a conoscenza nell’ottobre 1934:

Farinacci: Io ho un fratello che sta facendo gli esami per capitano…

Zoppi: Non corre nessun rischio suo fratello: lasci fare, ci penso io.

F.: Bisogna fare presto, Zoppi, perché già stanno facendo gli esami.

Z.: Ci penso io.

F.: Grazie.139

Questa curiosità quasi morbosa per gli scandali era forse un sintomo di debolezza politica (come Lusignoli aveva suggerito nel 1927). Quando Giuriati progettò una seria purga dei corrotti e dei non allineati all’interno del PNF,140 Mussolini gli disse cinicamente: «Se sei capace di cacciarne diecimila, ti faccio un monumento».141 Giuriati fu altrettanto frustrato quando tentò di estendere il controllo del partito alle forze armate.142 Molti dei suoi progetti di conferire maggiore «realtà» alla rivoluzione fascista erano ostacolati dal Duce stesso ed egli, dal canto suo, affermò di essere stato contento quando le sue dimissioni furono accettate.143 Non era certamente tra quei fascisti che sarebbero tornati in carica.

Giuriati fu sostituito da Achille Starace, il quale, una generazione dopo la guerra, sembrava ancora godere del massimo rispetto nella sua città natale, Gallipoli, dove era conosciuto come «Don Achille».144 La sua fama è legata al commento di Mussolini ad Arpinati, secondo cui Starace era stato scelto perché era «un cretino, ma un cretino obbediente».145 Si trattava di un altro gerarca intorno alla cui famiglia, specialmente ai fratelli, le voci di affari loschi e rimunerativi si sprecavano. Sbandierava grandi glorie militari in Etiopia negli anni 1935-36,146 ma la sua brutalità sgomentava i colleghi più raffinati: si mormorava che avesse ucciso personalmente dei prigionieri, alternando come bersagli il cuore e i genitali.147 Gli storici di scuola defeliciana lo tennero però in qualche considerazione, sottolineando, per esempio, la sua esperienza di partito (fu vicesegretario dal 1921 al 1923 e dal 1926 al 1931) e la sua simpatia per i fascisti milanesi, moderati ma convinti, tra i quali la figura più nota era quella di Arnaldo Mussolini.148 Starace ebbe cura di prendere le distanze da Farinacci, confessando a Mussolini che il ras di Cremona, considerato critico verso alcuni aspetti del potere del Duce, sembrava «un individuo che abbia perduto completamente il senso dell’orientamento».149 Starace avrebbe indirizzato il partito in senso più populista – nell’autunno del 1931 Mussolini aveva cominciato a dichiarare che quello era il momento di «andare decisamente verso il popolo» –150 e ampliato il numero degli iscritti (da 825.000 nel 1931 a 2 milioni nel 1937).151 Il suo nome fu associato all’evoluzione della coreografia del regime e agli sforzi più intensi fatti per rendere l’immagine del Duce aliena da ogni compromissione con la realtà. Il 12 dicembre 1931 fu lui a istituire il rituale «saluto al Duce» all’inizio di ogni riunione.152

L’adozione di un tipo di liturgia più riverente (e assurda) coincise con un evento tragico per la famiglia di Mussolini. Il 21 dicembre Arnaldo morì improvvisamente d’infarto all’età di quarantasei anni. Soffriva da quando, nell’agosto 1930, aveva perso il figlio maggiore Sandro, morto di leucemia, di cui sentiva dolorosamente la mancanza.153 Mussolini che, a Roma, aveva forse appena ricevuto un certo sollievo morale dalla visita del Mahatma Gandhi,154 corse al letto di morte del fratello e passò la notte del 22 dicembre a vegliare la salma, versando quelle che definì lacrime copiose e amare.155 Scrisse subito una solenne biografia del fratello,156 che venne doverosamente osannata dalla stampa quanto lo stesso Arnaldo. Persino «La Vita Italiana», ora collegata agli interessi giornalistici di Farinacci,157 non mancò di elogiare le virtù di Arnaldo, giornalista esperto, uomo d’azione fascista e fratello perfetto.158

In realtà, Arnaldo aveva avuto un ruolo diverso nella vita del Duce, al punto di ricevere, come riferì nel maggio 1930, «un’infinità di gente che mi chiede favori, sussidi, raccomandazioni».159 Al «Popolo d’Italia» e a Milano, sede della Borsa, egli si occupava degli affari del fratello. Poco prima di morire approvò la scelta di Starace come segretario perché era «franco, aperto, leale … in quanto egli è un soldato che sa ubbidire, senza riserve mentali», un fascista apprezzato dalla Milano che contava.160 Mussolini avrebbe sentito molto la mancanza del fratello e, malgrado gli elogi, Starace non si rivelò un vero sostituto.

Sebbene il decennio fosse trascorso all’insegna di un insensato populismo, in «Critica Fascista» Bottai continuò a ripetere che il dibattito non era stato bandito dall’Italia fascista. «Mussolini è il solo responsabile dei grandi atti del Regime, non l’avallatore di tutte le singole responsabilità, di tutte le iniziative, di tutte le opinioni che attorno al fascismo debbano germinare.»161 Come veniva spiegato in un articolo successivo, non c’era contraddizione tra la disciplina e la discussione, fintanto che quest’ultima non diveniva troppo astratta.162 La stessa «Critica Fascista» promosse il dibattito sull’arte e sul suo significato. Fonte di un radicalismo potenzialmente maggiore fu la valutazione dell’URSS che, come scrisse il giornalista Bruno Spampanato, era uno Stato da valutare con «chiarezza fascista», non da demonizzare sbrigativamente.163 Bottai, che in passato si era chiesto se il fascismo avrebbe potuto essere una «rivoluzione permanente»,164 credeva ancora che il partito dovesse evolversi, e farlo in modo creativo.165

È assai dubbio che Mussolini potesse farsi impressionare da simili elucubrazioni. Fu forse allora che giunse alla conclusione che Bottai «ha i pensieri tascabili»?166 Dopotutto, chi poteva pensare meglio di Mussolini? Nel luglio 1932 egli pubblicò con la propria firma, ma con l’assistenza di Giovanni Gentile, un articolo che compendiava «La Dottrina del Fascismo» per la nuova Enciclopedia Italiana.167 Gli autori insistettero molto sulla «concezione spiritualistica» del fascismo e sulla conferma dell’idea che «l’uomo» migliorava se stesso solo mediante la lotta. L’intento totalitario veniva confermato. La libertà individuale era un’illusione e il rapporto con la realtà veniva recuperato solo attraverso la dedizione allo Stato. Il fascismo era antiliberale come era stato antisocialista. Credeva che la guerra incrementasse la grandezza morale e proclamava che l’Italia doveva continuare a espandersi. Doveva essere costruito un impero. In poche parole, il fascismo era «la dottrina caratteristica del nostro tempo». Il futuro gli apparteneva.

Rivelatrice del pensiero del Duce nell’imminenza del Decennale fu una serie di interviste che egli concesse nel marzo-aprile 1932 al giornalista Emil Ludwig (etichettato come «un ebreuccio pretenzioso» dopo che Mussolini ebbe tardivamente concluso che non gli piaceva ciò che aveva registrato).168 Ludwig affermava che il Duce «nel dialogo è l’uomo più naturale del mondo»169 e che il suo Mussolini parlava in modo più personale e meno intellettuale di quello dell’articolo per l’Enciclopedia. Ne era rimasto impressionato, sino a definirlo un grande uomo di Stato, di ottimo carattere e maestro di sottigliezze.170 Avendo forse in mente la prospettiva del Decennale, Mussolini discusse della liturgia fascista. «Ogni rivoluzione crea nuove forme, nuovi miti e nuovi riti: [allora] le vecchie tradizioni si devono utilizzare e trasformare. Nuove feste, gesti e forme si devono creare.»171 La sintesi del fascismo proposta dal suo capo non risultò comunque né pedante né pretenziosa. «Quando un filosofo finlandese mi pregò recentemente di dargli il senso del fascismo in una frase io scrissi in lingua tedesca: “Noi siamo contro la vita comoda”.»172 Come era spesso sua abitudine, Mussolini, mettendo a proprio agio il suo interlocutore, negò l’esistenza delle razze, sostenendo in pari tempo che «l’orgoglio nazionale non ha affatto bisogno dei delirî di razza».173 Affermò inoltre, opportunamente, che un buon governante dovrebbe mantenere un senso di compassione verso la debole e peccaminosa razza umana.174 Ludwig constatò che, quando si chiedeva a Mussolini di parlare più intimamente di sé, egli cambiava argomento, senza spingersi oltre l’affermazione che «in fondo fui sempre solo».175

Non a Ludwig né ai lettori dell’Enciclopedia, bensì a un vecchio amico, Mussolini pressappoco in quel periodo confessò di conoscere lo «spirito di contraddizione degli italiani».176 Si poteva costringere un simile popolo a essere seguace di una religione nuova, totalitaria, politica, specialmente se il suo leader in persona continuava, in cuor suo, a restare scettico? Questa domanda era indicativa di una certa confusione, perdurante nella mente del Duce, sulla natura del potere. Il fatto che Mussolini nutrisse un simile dubbio induce a pensare che un evento come il Decennale possa essere interpretato in molti modi diversi. Vi furono cerimonie sufficienti a soddisfare la curiosità di qualsiasi studioso di semiotica e ogni convinto fautore del primato delle parole e delle immagini.177 Tuttavia, vi fu anche molto di deliberatamente superficiale in questa grande celebrazione. Altri regimi ne sapevano abbastanza in fatto di panem et circenses. Il mondo in via di sviluppo del consumismo capitalistico capiva molto meglio di Mussolini il senso della propaganda di regime. In realtà, le finanze dello Stato italiano non attraversavano un buon momento; c’era almeno un milione di disoccupati, i salari erano bassi, lo Stato corporativo restava in gran parte sul tecnigrafo178 e gli esperti cominciavano a discutere di quale fosse il grado ideale di intervento dello Stato nell’economia.179 Il Decennale, però, non era pensato per essere un momento di analisi delle realizzazioni e delle prospettive del fascismo. Doveva invece essere una celebrazione del Duce e soltanto del Duce. Con le parole usate da uno dei maggiori giornalisti del regime per riepilogare il messaggio di dieci anni di potere fascista, «la nuova Italia si chiama Mussolini», come il suo «Capo Infallibile; la Mostra della Rivoluzione è Lui: Mussolini».180 Un altro importante scrittore dichiarò che adesso «il Mussolini immaginario operava nella mente e nel cuore del popolo, non meno dei fatti». «Il nome di Mussolini» aggiunse a titolo di spiegazione «è conosciuto dovunque ed è, anche presso avversari, sinonimo di potenza e di perfezione.»181 Il Duce, disse un altro commentatore, godeva ormai di «onnipresenza» nel mondo.182

Le grandiose esibizioni, i fervidi panegirici, l’apparente solidità del regime in patria e all’estero sembravano sufficienti a far gonfiare di vanità qualunque politico. E invece felicità e soddisfazione continuavano a sfuggire a Benito Mussolini. La linea che separava il potere dall’impotenza restava ancora incerta. In più, Arnaldo era morto. La corrispondenza con Edda dopo il suo matrimonio, celebrato il 24 aprile 1930 – l’evento fu molto pubblicizzato anche se la cerimonia fu celebrata nella modesta San Giuseppe, la chiesa parrocchiale più vicina a villa Torlonia –,183 la nascita di Fabrizio, suo primo nipote, il 1° ottobre 1931,184 e il trasloco della sorella Edvige a Roma nel settembre 1932185 furono ben povere compensazioni. In prossimità del cinquantesimo compleanno, i capelli che incanutivano ricordavano al Duce che la maggior parte dei Mussolini non invecchiava molto e nemmeno la reticenza della stampa a dichiarare la sua età risolveva il problema.186 Soltanto la propaganda di regime riuscì a nascondere il fatto che il Duce stava affrontando una crisi di mezza età. Nel 1933 l’improbabile duo costituito da Adolf Hitler e Claretta Petacci sarebbe entrato nella sua vita e non lo avrebbe abbandonato fino alla morte.