Nel luglio 1938 Mussolini incontrò l’eminente antropologo Guido Landra1 e fece alcune rivelazioni di natura personale. I Mussolini, dichiarò, erano «nordici». Non avevano nulla in comune con i francesi; piuttosto con gli inglesi e i tedeschi. A titolo di prova citò il matrimonio di Edda con un «toscano» e di Vittorio con una «lombarda». Queste scelte, disse, dimostravano «il costante istinto della sua famiglia alle genti più pure, dal punto di vista della razza, d’Italia». Il dibattito sul fatto di essere «latini» o «mediterranei», aggiunse ampliando il tema, sarebbe finalmente cessato nel suo paese, perché il termine prescelto sarebbe stato «ariani». Tuttavia, la romanità avrebbe potuto costituire una caratteristica dell’Italia fascista nuovamente mobilitata.2
Vi è senz’altro più di una nota ironica in questo tentativo del dittatore italiano di leggere in termini razziali la storia della sua famiglia. Dopotutto non era passato molto tempo da quando Mussolini aveva deriso le «sciocchezze antiscientifiche» dei tedeschi basate, come gli piaceva sottolineare, sulle idee che propugnava «il francese Gobineau».3 In quei giorni aveva allegramente confidato ai suoi conoscenti che «Hitler era un individuo dalle idee confuse. La sua testa è semplicemente piena soltanto di stereotipi filosofici e politici del tutto incoerenti».4 Facendo seguire alle parole i fatti, nei primi anni della persecuzione nazista il Duce aveva permesso a tremila ebrei tedeschi di trovare rifugio in Italia.5 Nel 1936 era ancora in grado di intervenire personalmente per proteggere gli ebrei stranieri che considerava «amici». Lo storico George Mosse, membro di un’illustre e ricca famiglia ebrea tedesca con importanti partecipazioni nell’editoria e nel giornalismo, ricorda che Mussolini, a quel tempo, telefonava a sua madre a Firenze per assicurarle che lei e la sua famiglia «non sarebbero stati toccati … e potevano rimanere là tutto il tempo che desideravano».6
Ciononostante, nel biennio precedente Mussolini aveva parlato degli ebrei con più distacco di quanto avesse mai fatto prima; nel novembre 1936 aveva suggerito al suo Gabinetto che era tempo di introdurre la questione razziale nelle argomentazioni e nella dottrina fascista.7 Un’importante spinta alla radicalizzazione dell’atteggiamento del Duce venne dall’ostilità straniera verso la guerra etiopica; Mussolini cominciò ad accorgersi di una forte presenza ebraica tra quei critici. Come disse a Paul Einzig, economista ancora ben disposto verso il regime, «l’ebraismo mondiale fa un pessimo affare schierandosi coll’antifascismo sanzionista contro l’unico Paese d’Europa che non pratica, né predica, almeno finora, l’antisemitismo».8 Già nel 1935 l’annientamento da parte della polizia di una cellula di Giustizia e Libertà a Torino aveva rivelato la presenza tra i suoi membri di numerosi ebrei, mentre a Parigi9 Carlo Rosselli si confermava il battagliero capo dell’ala non comunista dell’antifascismo.
Egli fu assassinato mentre era in corso la guerra civile spagnola, conflitto che, schierando le forze «dell’ordine» contro la «sovversione», fornì un’ulteriore occasione per additare il ruolo degli ebrei, a partire dallo stesso Marx, nei movimenti rivoluzionari di sinistra. La costante attenzione di Mussolini verso ciò che accadeva in Francia, paese che un tempo era stato il suo ideale e che non aveva mai smesso di essere il suo metro di misura, era acuita dalla presenza di Léon Blum10 a capo del fronte popolare antifascista e dal ruolo di primo piano, almeno secondo la stampa del regime, assunto dalla sinistra francese nel sostenere la corrente repubblicana. Spesso, in compagnia di Claretta Petacci, sfogliava la stampa francese e si irritava sempre di più a qualunque critica rivolta all’Italia e alla sua persona.11 La condotta e le reazioni di Mussolini non rimasero isolate. Il giornale dei gesuiti, «Civiltà Cattolica», appassionato sostenitore della causa franchista, elogiava la legislazione antiebraica introdotta in Germania e benediceva l’aiuto dato dall’Asse12 alla rivoluzionaria «crociata». Per molti europei a quel tempo la politica si riduceva a una scelta tra due possibilità: se nella sinistra c’erano degli ebrei, allora automaticamente nella destra nasceva l’antisemitismo. Su quasi ogni fronte del panorama contemporaneo vi erano questioni – il dissidio sempre più aspro con l’Inghilterra a proposito del Mediterraneo,13 la Spagna,14 i clamorosi attacchi agli ebrei in Germania (e l’affermarsi di un antisemitismo più esplicito in Polonia, Romania e Ungheria, tutti paesi con cui l’Italia fascista aveva relazioni amichevoli) – che imponevano a Mussolini di concentrarsi sul tema della razza.
La situazione italiana era poi caratterizzata da una preoccupazione specifica. All’indomani della guerra etiopica la giovane storica Emilia Morelli sosteneva che ciò che avrebbero dovuto fare gli italiani era unirsi «contro un sol nemico, lo straniero»,15 ma l’acquisizione dell’Impero aggiungeva un problema a quello della semplice xenofobia. Mussolini non fu il primo a sollevare la questione, ma nel gennaio 1938 fece notare a Ciano che «il contegno di molti dei nostri ha fatto perdere agli indigeni il rispetto della razza bianca».16 Due mesi prima aveva dato rigorose istruzioni al duca d’Aosta di imporre la «dignità razziale» agli italiani residenti nell’Impero,17 anche se il duca nutriva parecchi dubbi sul fatto che gli italiani e gli indigeni potessero essere distinti, dato che, come sottolineava con atteggiamento da gentleman inglese, gli italiani arrivati lì erano l’equivalente nostrano dei «peggiori soggetti dell’East End».18 Una certa ostilità di stampo razziale verso i «neri» affondava le radici in una lunga tradizione, presente in Italia come altrove, e contava su una «base di massa» senz’altro più ampia di quella su cui poggiava l’antisemitismo.19 Negli anni successivi al 1936 si discusse parecchio sul rapporto fra razza e Impero e si pose mano a una legislazione che introduceva la discriminazione (sebbene non proprio per diretta ispirazione di Mussolini).20 Per quanto in linea con lo spirito dei tempi, alla base delle idee sulla specifica legislazione razziale italiana vi sono i provvedimenti attuati a Addis Abeba, anche se gli effetti su questa dittatura potrebbero essere complessi. Un censimento rivelò che Teruzzi, De Bono, Lessona, Graziani, Volpi e parecchie figure di spicco del teatro e del cinema avevano importato servi neri dall’Impero, evidentemente convinti che la loro presenza avrebbe conferito prestigio alle residenze cittadine.21
Nel marzo 1937, nel corso della sua visita in Libia, Mussolini proclamò l’avvio di una politica favorevole agli abitanti arabi dell’Impero fascista e ai gruppi etnici con questi imparentati, ovunque essi fossero. Il loro nazionalismo «panarabo» li rendeva antibritannici e pertanto filoitaliani, in base all’antico principio secondo cui il nemico dei miei nemici è amico mio. Questa linea di condotta, anche se praticata in modo incostante, aveva implicazioni razziali, perché al momento dell’occupazione italiana22 gli ebrei rappresentavano più di un quarto della popolazione di Tripoli e, dopo il 1922, avevano conservato intatta la loro ricchezza e influenza. Essi si intesero particolarmente bene con Balbo quando, nel gennaio 1934, assunse la carica di governatore, animato dal proposito di attuare un programma di immigrazione per i contadini italiani e di modernizzare la colonia. Benché fautori della modernità, gli ebrei libici diffidavano del nazionalismo arabo23 e per questo motivo la dichiarata disponibilità di Mussolini a favorire gli arabi locali costituiva per loro una potenziale minaccia.
Alla fine del 1937 si poteva ancora nutrire un giustificato scetticismo sulla possibilità di una conversione su vasta scala al razzismo antisemita da parte dell’Italia. Ciano annotò nel suo diario il timore degli ebrei italiani che egli fosse stato convinto dai tedeschi a perseguitarli. Questo fu il suo commento:
Falso. Mai i tedeschi ci hanno parlato di questo argomento. Né io credo che a noi convenga scatenare in Italia una campagna antisemita. Il problema da noi non esiste. Sono pochi e salvo eccezioni, buoni. E poi gli ebrei mai perseguitarli come «tali». Ciò provoca la solidarietà di tutti gli ebrei del mondo. Si possono colpire con tanti altri pretesti. Ma, ripeto, il problema da noi non esiste. E forse in piccole dosi gli ebrei sono necessari alla società come il lievito è necessario alla pasta del pane.24
Sebbene Ciano esprimesse con maggior dovizia di particolari i sentimenti condivisi dal suocero, questo non faceva di lui un antisemita convinto.25 Come si addiceva alla curiosa reciprocità del loro rapporto, nel febbraio 1938 Mussolini praticamente ripeté le parole del genero, dichiarando che non voleva fomentare disordini dove non ce n’erano, anche se questa volta in coda al suo commento faceva capolino una velata minaccia. Egli intendeva gettare «acqua sul fuoco, pure senza soffocare la cosa».26 L’impulso alla mobilitazione nazionale fornito dal razzismo, e perseguito ogni giorno più crudamente nella Germania nazista, poteva – il Duce ne era persuaso – giovare a lui e alla sua causa. Nell’ottobre 1937 Mussolini aveva incaricato uno dei giovani assistenti di Landra di preparare un’ampia relazione accademica sugli ebrei d’Italia dal punto di vista della «scienza della razza».27 Pur non essendo ancora pronto a scimmiottare la Germania nazista, il Duce sembrava comunque più disposto di prima a credere possibile e necessario un antisemitismo di stampo italiano.
E così provò a sondare le acque pubblicando anonimamente su «Informazione diplomatica» un intervento che, come disse a Ciano, era in realtà «un capolavoro di propaganda antisemita».28 L’articolo iniziava negando per l’ennesima volta che l’Italia stesse per «inaugurare una politica antisemita».29 Continuava sostenendo che la soluzione migliore sarebbe stata la creazione di uno «Stato ebraico», ma questo non sarebbe potuto avvenire in Palestina, conclusione antisionista che Ciano appoggiava «per salvaguardare le nostre relazioni con gli arabi».30 Fu però soltanto nell’ultimo capoverso del suo articolo che Mussolini si avventurò davvero su un terreno nuovo. Il regime fascista, dichiarò, non voleva che l’influenza degli ebrei, specialmente quelli immigrati, divenisse «sproporzionata».31 Quanto al modo di far sì che ciò non accadesse, per il momento lo lasciava all’immaginazione dei lettori.
Mentre l’epicentro della crisi diplomatica in corso si spostava dall’Austria alla Cecoslovacchia, l’oratoria di Mussolini si faceva sempre più pungente su svariati aspetti relativi al rapporto dell’Italia con il resto del mondo. Il 14 maggio 1938, parlando a Genova da un podio costruito a forma di prua di nave da guerra, il Duce gridò la frase destinata a diventare un altro motto degli ultimi anni del regime: CHI SI FERMA È PERDUTO. Per spronare il suo popolo fece ricorso al vocabolario xenofobo, coniato a suo tempo dai nazionalisti e ritornato in auge, affermando che gli stranieri cadevano in un equivoco sugli italiani quando parlavano a vanvera della grandezza del loro passato; ogni vero amico dell’Italia doveva invece apprezzare la realtà presente «delle armi e del lavoro».32 Il 4 luglio, davanti al pubblico nella nuova città di Aprilia, criticò aspramente quelle che definì «le cosiddette grandi demoplutocrazie», aggiungendo senza mezzi termini che erano «nemici dell’Italia».33 L’inedito tono esasperato delle sue parole preoccupò i membri dell’establishment italiano, ma Mussolini, compiendo un altro temerario passo avanti, disse a Ciano che la borghesia «disfattista» avrebbe avuto bisogno di essere messa in riga da «una terza ondata» di fascismo. Il Duce si spinse fino a dichiararsi disposto a organizzare una rete di campi di concentramento, dove ai detenuti si sarebbe resa la vita più dura di quanto lo era per le persone già destinate al confino. La strada che portava a quella decisione, disse con aria truce, sarebbe stata illuminata «dai falò degli scritti ebraici, massoneggianti, francofili». «Scrittori e giornalisti ebrei» sarebbero stati banditi. «La rivoluzione» aggiunse un po’ tardivamente «deve ormai incidere sul costume degli italiani. I quali bisogna che imparino ad essere meno “simpatici”, per diventare duri, implacabili, odiosi. Cioè: padroni.»34
Una volta tanto Mussolini non stava solo sproloquiando. Il 14 luglio il regime pubblicò il Manifesto della razza, alla cui redazione Mussolini diede personalmente il maggior contributo.35 Per di più, la scelta dell’anniversario della presa della Bastiglia per la pubblicazione del documento, che rinnegava buona parte dell’Illuminismo e della sua ottimistica concezione del potenziale di fraternità del genere umano, fu un altro palese tentativo del Duce di controbattere alla superiorità morale e intellettuale che, come sapeva da sempre, distingueva Parigi. Il Manifesto, in pieno stile mussoliniano, era organizzato in un elenco di dieci punti, i «comandamenti» sulla razza. Tra le frasi chiave c’erano affermazioni di questo tipo: «La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana»; e ancora: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana» (e non le appartenevano neppure altri «orientali» o «africani»). Nonostante l’innegabile evidenza della ricchezza e della varietà della storia italiana – sempre accettata da Mussolini in passato, e non sempre negata in futuro – egli dichiarava ora che esisteva «una pura razza italiana» e che la grande maggioranza di questo ceppo abitava la penisola da «diversi millenni». In un articolo successivo sul «Popolo d’Italia» ritornò su questi argomenti: «Dirsi ariani, significa dichiararsi appartenenti a un gruppo storicamente determinato di razze: al gruppo indo-europeo e precisamente a quelle che hanno creato la civiltà mondiale. Senza una chiara, definita, onnipresente coscienza di razza, non si tengono gli imperi. Ecco perché taluni problemi che erano prima in una zona d’ombra sono diventati dal 3 ottobre del 1935 di bruciante attualità».36
Una volta che Mussolini ebbe chiarito in questo modo le proprie opinioni, la stampa fascista si accodò al suo Duce. Sulla «Vita Italiana» Preziosi non perse l’occasione di sostenere che egli aveva avuto sempre ragione e fornì una lista di citazioni che dimostravano come Mussolini avesse il senso della razza almeno dal 1921.37 Per manifestare il proprio consenso a questa nuova interpretazione della storia della sua vita, il Duce mise da parte le sue antipatie e ricevette formalmente Preziosi che, per omaggiarlo, gli donò una raccolta completa del giornale.38 Giuseppe Bottai, come al solito, cercò di dare una veste intellettuale alla nuova politica. Scrisse che il razzismo italiano aveva a che fare con qualcosa di più della sola «scienza». Respingendo il materialismo, poteva aggiornare quel filone del pensiero umanistico che da Machiavelli, passando attraverso Mazzini, arrivava fino a Mussolini: «I fondamenti, infatti, del razzismo italiano sono e devono essere eminentemente spirituali, anche se esso parte, opportunamente, da “dati” puramente biologici». Si doveva ricorrere al razzismo per resistere agli ebrei (lo stato maggiore dell’antifascismo internazionale) e agli africani.39 Il razzismo avrebbe potuto allo stesso tempo fare piazza pulita di «una letteratura prevalentemente straniera, idiota o criminale» – anche Bottai rispolverava adesso i termini del nazionalismo – che dipingeva l’italiano come «sentimentaloide, indisciplinato, indolente» e ancorato all’idea del «dolce far niente». L’intellighenzia fascista, incalzò Bottai, si doveva mobilitare per divulgare queste argomentazioni dalle Alpi alle isole.40 Il regime aveva abbracciato una nuova causa, la cui diffusione doveva avere inizio nelle scuole e di lì estendersi a tutti gli aspetti della cultura fascista.41
Quando vennero accantonate le generalizzazioni e fu fatto qualche sforzo per esaminare la questione in modo più dettagliato, la teoria del razzismo fascista si rivelò confusa: nessuno sapeva spiegare che cosa significasse il razzismo volontaristico e quali relazioni potesse avere con la storia di una presunta razza primordiale italiana. Allo stesso modo i problemi nati nell’ambito dell’Impero – quale il fatto di evitare l’incrocio di razze diverse – e l’antisemitismo si sovrapponevano senza spiegazione o giustificazione. L’affermazione che il fascismo era sempre stato razzista non significava granché, se non che ogni società europea, e di sicuro quelle liberali e democratiche di Inghilterra e Francia, era potenzialmente razzista. La risentita insistenza sull’idea che l’Italia stesse agendo indipendentemente, senza abbassarsi a scimmiottare l’amica Germania – affermazione che godeva di scarso credito presso il popolo, a prescindere da ciò che scriveva la stampa –,42 e la tesi secondo cui gli italiani avrebbero dovuto nuovamente essere rafforzati nel loro radicalismo perché la rivoluzione fascista potesse compiersi, erano altrettanto irte di contraddizioni. L’inquietante proposito di Mussolini che «i campi di concentramento» sorgessero in tutta l’Italia – richiesta messa in atto senza troppa convinzione –43 era prova sufficiente della sua smaniosa invidia per il fascismo di Berlino, un tempo fratello minore, e del fatto che stesse cercando di forzare l’Italia a raggiungere il suo vicino (e potrebbe essere paragonato al desiderio di Crispi, e di altri esponenti dell’età liberale, che l’Italia adottasse politiche capaci di trasformarla in una vera grande potenza). La prontezza con cui gli italiani fecero proprie le idee razziali44 stupì gli stessi tedeschi (sorpresi che un popolo così razzialmente corrotto potesse essere tanto audace), ma evidentemente l’influenza nazista era giunta fino in Italia.
Qualunque fosse il ruolo del modello tedesco, nell’agosto-settembre 1938, mentre la crisi di Monaco assillava l’Europa, l’attenzione di Mussolini era in gran parte rivolta al proselitismo per la sua «rivoluzione razziale» in patria. Ma la stessa incoerenza (oltre che la disumanità) di queste idee stava suscitando forme di opposizione, e poche cose irritavano il Duce quanto la critica aperta. Balbo, rientrato da un viaggio in Libia, colse l’occasione per lagnarsi con Ciano dell’alleanza con la Germania e di ciò che Starace stava facendo all’Italia e al Partito fascista. Il suo atteggiamento ribelle, riferito immediatamente da Ciano al suocero in vacanza a Riccione, fu causa di un violento rimprovero. Mussolini giurò che avrebbe fatto arrestare Balbo non appena avesse cercato di «muovere un dito». Ma il riottoso ferrarese non costituiva l’unico, assillante problema. Innanzitutto, l’autarchia doveva diventare più «intransigente». E poi la famiglia reale era un peso morto per il regime. Forse era il caso di eliminarla e l’occasione poteva presentarsi con la vittoria in Spagna. «L’Italia non sarà mai abbastanza prussianizzata» concluse il Duce (dimostrando con la scelta delle sue parole di non aver capito la modernità del nazismo). «Io non lascerò in pace gli italiani, se non quando avrò due metri di terra sopra di me», dichiarò in un tono bellicoso che impressionò Ciano.45
C’era inoltre il problema del papa, da molto tempo critico severo della Germania nazista, e ora perplesso di fronte all’antisemitismo italiano. «Basterebbe un mio cenno per scatenare tutto l’anticlericalismo di questo popolo, il quale ha dovuto faticare non poco per ingurgitare un Dio ebreo» sbottò Mussolini. «Per questo io sono cattolico e anticristiano» proseguì il Duce, il quale evidentemente si compiaceva del suono delle sue parole.46 Poche settimane dopo, tentando ancora di mostrarsi spietato, suggerì a Ciano che gli ebrei potevano essere mandati in Somalia, zona di «notevoli riserve naturali che gli ebrei potrebbero sfruttare. Tra le altre, la pesca del pescecane, “molto vantaggiosa anche perché in un primo tempo molti ebrei finirebbero mangiati”».47
Ai discorsi nel chiuso del suo studio si aggiunsero quelli diretti al popolo. A metà settembre Mussolini viaggiò fino ai confini nordorientali. Gli abitanti della zona non si erano ancora riavuti completamente dalle ferite della prima guerra mondiale e dai conflitti del Risorgimento, mentre l’ostilità verso i tedeschi poteva contare su un ampio consenso (ed era stata un importante catalizzatore del «fascismo di frontiera»). Il Duce tenne il suo più importante discorso a Trieste; una spettatrice slovena ricordava che, malgrado i suoi sforzi di mantenere il distacco, egli appariva «irresistibilmente magnetico» in mezzo alla folla plaudente.48 Dopo un excursus storico aveva energicamente giustificato l’alleanza tedesca. Se la crisi della Cecoslovacchia si fosse trasformata in un conflitto armato, «il posto dell’Italia è già scelto» a fianco dei tedeschi, affermò. Dopo aver optato con tanta sconsideratezza per la guerra, Mussolini passò a un argomento di interesse più strettamente nazionale. «Il problema razziale» non era sorto all’improvviso, disse. Era piuttosto un risvolto inevitabile della conquista dell’Impero, dove la questione della razza aveva implicazioni precise. Ma, aggiunse bruscamente, al centro del problema stava la questione ebraica. Se il fascismo avesse abbassato la guardia, l’ebraismo, come una banda di pirati, sarebbe stato subito pronto ad abbordare la nave dello Stato italiano e a saccheggiarla. Era necessario agire. Pertanto il regime stava andando verso «una politica di separazione», benché si potessero fare delle eccezioni per gli ebrei con «indiscutibili meriti militari o civili» nei confronti dell’Italia o del fascismo.49
In pratica era iniziato un processo di emarginazione legalizzata degli ebrei dalla vita italiana: il 3 agosto gli ebrei stranieri venivano banditi dalle scuole.50 Il patto siglato a Monaco non fermò questa campagna, anzi, la accelerò ulteriormente. Quando Mussolini si rese conto di non essersi dimostrato il grande paciere che credeva e che Hitler non corrispondeva per niente alla descrizione di «sentimentalone» che «mi vuole veramente bene, molto», le sue osservazioni a Claretta divennero amare. «Ah, questi ebrei, li distruggerò tutti» andò in bestia. «Li ucciderò tutti, tutti.» Avrebbe anche sterminato «quattro milioni di italiani», un gruppo che adesso reputava degenerato dal punto di vista razziale, «sono passate soltanto cinquanta generazioni» e nelle loro vene scorreva ancora il sangue corrotto degli schiavi e dei liberti romani.51
Così, in un discorso tenuto al Gran Consiglio dopo il suo ritorno dalla Germania,52 Mussolini fu ancora più insistente che in passato nella sua idea di un attacco combinato contro la borghesia e gli ebrei. Confidando a Bottai di meditare sulla questione ebraica fin dal 1908 (manipolando con la consueta disinvoltura la propria storia personale),53 egli dichiarò che i migliori antichi romani erano stati razzisti dal primo all’ultimo. Tutta la storia italiana, aggiunse, doveva essere letta come la storia di una razza di uomini «ariani di tipo mediterraneo, puri». Era inoltre «matematicamente certo» (formula prediletta, ma che quasi sempre nascondeva una certa imprecisione statistica) che i britannici e i francesi non avrebbero combattuto per la Cecoslovacchia, perché impediti dal loro decrescente tasso di natalità e privi di vigore razziale. Per contro, gli italiani avrebbero potuto essere ulteriormente «militarizzati» e lo sarebbero stati.54 Il 12 novembre, alla notizia della «notte dei cristalli», Mussolini confermò a Ciano che «approvava incondizionatamente» l’omicida pogrom nazista: «Disse che in posizione analoga farebbe ancora di più».55 Tuttavia, il giorno dopo (forse informato che l’opinione pubblica italiana era disgustata dagli eventi in Germania)56 fece leggermente marcia indietro, definendo «assurda» la tassa imposta dal governo nazista agli ebrei e preoccupandosi della tendenza tedesca a entrare in conflitto con la Chiesa cattolica. L’Asse, ammonì, non avrebbe potuto sopravvivere se i nazisti si fossero mossi contro i cattolici tedeschi con la stessa ferocia con cui avevano attaccato gli ebrei.57
Questo dimostra che forse Mussolini non aveva compreso appieno la vera natura del razzismo tedesco. Tuttavia, l’Italia fascista continuava nella sua guerra contro gli ebrei. Il 6 ottobre 1938 fu promulgata una legislazione nello stile delle «leggi di Norimberga».58 La prima norma stabiliva «il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non ariane». Seguivano misure particolareggiate che escludevano gli ebrei dalla professione militare, dall’istruzione,59 dall’attività bancaria e assicurativa, dalla burocrazia e dal Partito, e da qualunque attività commerciale o agricola se non molto ridotta. Tali divieti erano in qualche misura alleggeriti da una serie di esenzioni per coloro che avevano servito la nazione e il fascismo, e le rispettive famiglie. La campagna di stampa continuava. Telesio Interlandi,60 che contendeva a Preziosi la qualifica di razzista più precoce d’Italia e sosteneva l’idea che «l’intima logica del fascismo è razzista»,61 assunse la direzione del quindicinale «La Difesa della Razza». Accolse nella sua redazione giovani fascisti come Giorgio Almirante, che nel dopoguerra sarebbe stato a capo del neofascista Movimento sociale italiano.62 L’Italia era veramente diventata razzista e, in qualche modo, lo rimase fino alla caduta del fascismo.
Tuttavia, gli argomenti esposti dal Duce e da altri con tanto ardore erano inquinati dall’ipocrisia e dall’ambiguità, ragion per cui in Italia l’attuazione pratica dell’antisemitismo e di altre forme di razzismo non fu mai così brutale come in Germania. La via italiana per Auschwitz era non solo tortuosa, ma anche piena di deviazioni. Fino al 1943 gli ebrei italiani furono perseguitati come mai avrebbero immaginato quando, in larga maggioranza, avevano approvato il fascismo. Ma non furono uccisi. Già nell’agosto 1938 Farinacci aveva tentato ancora una volta di indurre il suo capo a esaminare i princìpi che animavano la sua politica. Iniziò in modo inimitabile, ammorbidendo il Duce con la deliziosa notizia secondo cui la madre del papa era ebrea: che bella risata si poteva fare, suggerì Farinacci nel suo solito stile provocatorio. Un cenno del capo del Duce e lui sarebbe stato pronto a scatenare da Cremona una campagna che avrebbe fatto arrossire il Vaticano.63 Ma Farinacci aveva in mente questioni molto più serie. Che cosa significava il razzismo in Italia? «In tutta sincerità» dichiarò
a dirti francamente il mio pensiero, il problema razziale, visto da un punto di vista antropologico, non mi ha mai persuaso. Il problema è squisitamente politico: mi convinco ancora una volta che, quando gli scienziati vogliono rendere un servizio alla politica, compromettono qualsiasi problema. Sul terreno filosofico e scientifico si può sempre discutere, sul terreno politico, dove ci sono delle ragioni di Stato, si agisce e si vince.64
E questo non tanto a seguito delle sue dubbie affermazioni sul sangue ariano che scorreva nelle vene della sua famiglia, ma piuttosto perché egli preferiva un approccio di tipo pratico (sostenendo che ciò fosse naturalmente fascista).
In verità, nella sua rozza concezione delle teorie razziali c’era un elemento di disturbo. Farinacci aveva la «sua» ebrea, una segretaria fedele che si chiamava Jole Foà. Il ras di Cremona rifiutava l’idea di escluderla dalla sua funzione. La donna, spiegò senza ombra di imbarazzo, era sulla cinquantina, nubile e si prendeva cura di una sorella; era capace ed efficiente, una buona lavoratrice. Licenziarla sommariamente avrebbe creato una cattiva impressione. «Io sono d’accordo anche di sterminare tutti gli ebrei, ma per poter arrivare agli umili e agli innocui bisogna incominciare a colpire gli autorevoli, soprattutto quelli che sono tutt’ora in posti delicatissimi.»65
L’idea di mostrarsi misericordiosi nei confronti di un lungo elenco di casi particolari fece facilmente breccia nelle menti italiane66 ed era forse parte di quell’atteggiamento che è stato definito la «banalità del bene».67 Di certo, la possibilità di contemplare eccezioni ed esenzioni era l’altra faccia dell’esortazione di Farinacci a comportarsi da razzisti soltanto a partire da motivazioni di tipo tattico, non in base a una fanatica convinzione «scientifica». Malgrado le personali elucubrazioni sulla qualità del sangue ariano dei Mussolini, il Duce non fece obiezioni, perlomeno forti. Nonostante il rabbioso ardore delle sue parole del 1938, non era stato convertito fino al punto di diventare un seguace del razzismo nello stile propugnato dai tedeschi. Per contro, la sua visione della vita continuava a essere complessa, anche all’interno di villa Torlonia. A casa sua, ammise alla fine del 1941, mentre i tedeschi stavano imponendo la soluzione finale nei territori sottratti all’URSS, «i miei figli hanno protetto spietatamente i loro amici israeliti. Minacciavano di ceder loro un letto nella loro camera se non li si poneva in condizione di espatriare o di sistemare stabilmente e giuridicamente la loro situazione» in Italia. In ogni caso, meditava Mussolini in una sorta di autogiustificazione della propria debolezza paterna che non sarebbe stata ascoltata con molta pazienza sul fronte orientale, un poco di sangue ebraico non avrebbe recato danno agli italiani futuri. Inoltre, non poteva «dimenticare che quattro dei sette fondatori del nazionalismo italiano erano ebrei».68
L’invidia per il successo militare tedesco e l’umiliazione per l’inadeguatezza italiana indubbiamente contribuirono ad alimentare il suo astio verso Hitler, ma fu il fanatismo del Führer sull’ideologia razziale che indusse Mussolini a pensare a quest’ultimo come a un uomo dal «cervello astruso», che «ha del mago e del filosofante da mercato rionale».69 In fondo, quando i suoi figli difendevano gli ebrei, non si comportavano in modo molto diverso dal suo o da quello indicato da Farinacci. Nel novembre 1938 Margherita Sarfatti era sparita dall’Italia e in seguito, con il diretto aiuto e consiglio del suo vecchio amante, era stata accompagnata dal Portogallo negli Stati Uniti, al sicuro.70 Mussolini aveva effettivamente parlato di razzismo e l’aveva fatto con veemenza particolare nel tentativo di convincere se stesso e gli altri che l’Italia era diventata un gagliardo fratello d’armi della Germania nazista. Ma dopo una raffica di leggi antisemite nel 1938, seguite da altre ancora nel 1939,71 il ritmo della persecuzione ufficiale era rallentato. Inoltre, sulla razza come su molti altri temi, la linea ufficiale adottata dall’«Italia legale» non sempre aveva una corrispondenza nell’«Italia reale»; qualunque fosse la situazione in Germania, gli italiani si mostrarono ben poco disposti a essere i «volenterosi carnefici» degli ebrei.72
Assolvere Mussolini da ogni responsabilità nei confronti dell’Olocausto, come hanno fatto alcuni nostalgici,73 è assurdo. Altrettanto assurdo, però, è vedere in lui un antisemita convinto sulla base di princìpi filosofici o un qualsiasi altro tipo di razzista «fondamentalista».74 Come Farinacci ebbe il buon senso di ammettere, il razzismo fascista non era fanatico, ma opportunista e superficiale, come tanti altri aspetti del regime.
Questa superficialità sarebbe divenuta sempre più evidente mentre gli anni Trenta si avviavano verso il loro tragico epilogo. Starace, uno dei pochi fascisti che cercavano quasi sempre di uniformarsi a quelle che credevano essere le idee del Duce, era stato un innovativo segretario del partito, e aveva introdotto una serie di misure destinate a irreggimentare il popolo. Nel giugno 1936 il «sabato fascista» prevedeva settimanalmente una parata o una manifestazione sportiva; l’anno dopo furono introdotte norme per garantire che gli impieghi burocratici venissero assegnati solo a candidati membri del PNF.75 Starace cercò di correggere le abitudini linguistiche italiane abolendo dalle formule di cortesia l’educato «lei», condannato ironicamente come derivazione spagnola, e sostituendolo con la seconda persona plurale «voi».76 Fu assecondato da ex nazionalisti come l’esimio geografo Giotto Dainelli, che, con il rigore tipico dei puristi di lingua francese, si rivelò particolarmente abile nello scovare i nomi «stranieri» degli alberghi e altre analoghe, malsane influenze provenienti da oltreconfine. Non mancarono risultati grotteschi. Il presidente del Touring Club tentò di sostenere che il nome della sua organizzazione derivava dalle parole latine globus e tornus.77 I proprietari dell’Hotel Anglo-Americano di Firenze si accollarono un compito degno di Sisifo: nel 1940 cambiarono nome al loro hotel chiamandolo Albergo America, nel 1941 divenne il Regina, nel 1943 fu Mercurio e nel 1944 di nuovo Hotel Anglo-Americano.78
In questa sarabanda di parole, il ruolo principale di Mussolini fu di coniare altri slogan, che Starace tentò poi di trasformare negli equivalenti politici di quei jingle pubblicitari che già allora stavano contribuendo al processo di ottundimento mentale determinato dall’universale trionfo del consumismo. Mussolini, il capo che aveva sempre ragione, aveva convinto il suo popolo che CHI SI FERMA È PERDUTO; che era meglio vivere un giorno da leoni che cent’anni da pecora, ma soprattutto che dovevano CREDERE, OBBEDIRE E COMBATTERE. Insieme a LIBRO E MOSCHETTO, FASCISTA PERFETTO, dovevano proclamare NOI TIREREMO DIRITTO. Stimolato da tanto altisonante retorica il Duce optò, almeno a parole, per la linea più «totalitaria» nella maggior parte delle situazioni. Oltre a Starace, il suo collaboratore più entusiasta era Bottai, che nel 1936 aveva sostituito l’enfatico De Vecchi come ministro dell’Educazione nazionale. Anch’egli coniò il proprio motto, che non risultò tra i più orecchiabili: LA SCUOLA È IL TERMOMETRO DELLA VITA MORALE DEL PAESE.79 Al fine di promuovere questo ravvivato interesse per la linguistica, nel 1939 Bottai pubblicò la Carta della scuola,80 il cui titolo faceva pomposamente eco alla Carta del lavoro del decennio precedente. L’istruzione, dichiarava, era rimasta una fortezza della «borghesia», ma finalmente ora poteva essere tolta da quelle mani e posta sotto il controllo dello Stato e del popolo fascista.81 Spiegò che, come la politica razziale, questo cambiamento era un altro naturale risultato della conquista dell’Impero.82 L’istruzione era lo strumento essenziale per forgiare nuovi uomini e nuove donne imperiali. Era l’elemento che permetteva a Mussolini di presiedere a una «rivoluzione permanente».83
Malgrado il ricorso a parole infuocate, la battaglia per la creazione di una cultura fascista sembrava persa in partenza. La nuova generazione di giovani acculturati guardava i film americani, leggeva i romanzi americani84 e, quando ne aveva la possibilità, spendeva alla maniera americana. Edda Ciano, modello sociale fortemente contraddittorio per le giovani donne vicine all’élite, accompagnando il marito a Shanghai scoprì che era elegante bere Coca-Cola.85 Nelle campagne l’analfabetismo continuava a imperare86 e le politiche educative fasciste attuate per debellare questo tradizionale flagello erano inconsistenti al confronto con quelle adottate, per esempio, in Unione Sovietica. Il livellamento culturale attuato da Starace irritava alcuni settori della classe dominante, consapevole della propria intellettualità, e continuava comunque a emarginare molti contadini, intellettualmente ben poco riformati da due decenni di «rivoluzione» fascista. Tanto nelle alte sfere quanto tra il popolo la fiducia nel fascismo si stava smorzando. Come reagiva il Duce a queste innumerevoli dimostrazioni dell’abisso esistente fra la teoria e la pratica del fascismo?
Un membro del Gran Consiglio ricorda la sua «collera» crescente.87 Questo sentimento, che aveva sempre caratterizzato il modo del Duce di approcciarsi alla vita, era adesso inasprito dalla consapevolezza che, tanto in Italia (persino nell’ambito della sua famiglia) quanto in Germania, egli era considerato inadatto al ruolo di ferreo forgiatore di anime umane.88 «Non sono il dittatore, sono uno schiavo» disse a Claretta nel maggio 1938. «Non sono padrone neanche a casa mia.» In realtà, aggiunse, «sono stufo, stufo di tutto, di casa, di Forlì, di vivere in questo vecchio mondo. Ho bisogno di un nuovo mondo che riuscirò a creare».89 Ma alcuni destinatari di quel perpetuo rancore non si facevano spaventare. Vito Panunzio, figlio di uno dei maggiori ideologi del fascismo, ricorda, per esempio, che nel 1938-39 lui e i suoi compagni d’università presero l’abitudine di lamentarsi ereticamente di Starace e dell’alleanza con la Germania. Erano anche addolorati dall’evidente disprezzo di Mussolini per l’umanità e si chiedevano sediziosamente se il «loro» fascismo non si sarebbe potuto dimostrare migliore del «suo».90 La polizia funzionava ancora con grande efficienza e, per il momento, non sembrava esservi un risveglio dell’antifascismo.91 Man mano che la crisi di Danzica si approfondiva, però, si aveva la sensazione che il regime fosse in difficoltà. La mollezza di questo periodo era imputata soprattutto «ai fascisti» (specialmente al sudaticcio e sgradevole Starace), e non a Mussolini.92 Tuttavia un intellettuale, nel segreto del suo diario, riportò le voci secondo cui il Duce telefonava tutti i giorni ai medici per controllare la propria salute e quelle che ne mettevano in dubbio la decantata bravura come nuotatore.93 Sebbene la retorica ufficiale sul Duce «abbronzato», sulla sua «tensione muscolare costante» e sul suo ritmo stacanovista di lavoro si facesse sempre più ossessiva,94 nella mente di molti era sorto il dubbio che questo dio potesse avere i piedi d’argilla.
I dubbi sulle doti atletiche di Mussolini non erano comunque l’unico argomento di discussione. Nel luglio 1938, a cinquantacinque anni compiuti, il Duce indulgeva ancora ai suoi peccatucci sessuali e qualcuno ne era al corrente. Secondo i bene informati, il problema dei Petacci stava diventando pressante. Durante le estati del 1938 e 1939 la famiglia Petacci si stabilì presso lo splendido Grand Hotel di Rimini (che il regista Federico Fellini avrebbe reso celebre nel suo Amarcord, acuta e ironica analisi cinematografica del fascismo). Nel loro opulento ritiro essi si trovavano appropriatamente vicini alla casa di vacanza del Duce sull’Adriatico, a Riccione, e presto iniziarono a correre voci sugli atteggiamenti civettuoli di Claretta quando il suo amante la chiamava al telefono.95 Tra i ricordi più felici della sua vita, stimolati dall’esperienza del carcere nel 1943, lei annoverava un’alba in cui si erano incontrati sulla spiaggia deserta dell’Adriatico; lui l’aveva chiamata «Baby» e le aveva detto che l’amava e l’adorava. La ragazza rammentava le parole che il Duce aveva pronunciato: «Sei la parte più bella della mia vita. Tu sei la mia giovinezza».96 Ancora peggio delle smancerie di lei erano le scapestrate iniziative del fratello Marcello, che si assicurava sfacciatamente il buon esito degli esami di chirurgia mediante «raccomandazioni» rese inattaccabili dal suo legame con il Duce. Si comportò in modo così sfrontato da guadagnarsi la codarda approvazione dei professori scelti per esaminarlo e un commento sarcastico dei burocrati che facilitarono e registrarono la procedura.97 Anche a Roma si era fatto conoscere per il suo comportamento inurbano; un incidente nel quale il suo cane aveva morsicato un giornalista a un orecchio fu riferito in modo ostentatamente anonimo dal «Messaggero».98 Nell’Italia fascista non era mai venuta meno un’atmosfera di generale «corruzione» e, man mano che il regime e il Duce invecchiavano, la venalità e l’immoralità si diffondevano.
Se il controllo delle menti delle persone non poteva dirsi totale, che dire delle basi legali del regime e della sua ideale rivoluzione permanente? Le crisi dei tardi anni Trenta determinarono un riesame della Costituzione dello Stato fascista. Aveva bisogno di modifiche? La risposta ufficiale a questa domanda fu affermativa: si doveva dare un nuovo impulso alla rivoluzione. Già dal settembre 1924, su richiesta di Mussolini, una serie di commissioni aveva esaminato la struttura istituzionale del fascismo.99 Le relazioni prodotte non furono però mai seguite da atti concreti. Solo nel marzo 1939 si passò all’azione, quando la Camera dei deputati fu abolita e sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. I membri, comunque, rimasero in prevalenza gli stessi e, cosa ancor più inconsueta, il Senato sopravvisse intatto. La definizione di «democrazia sostanziale»100 attribuita alla nuova struttura non risultò convincente, come non lo fu il commento di Mussolini secondo cui «il Senato è romano, la Camera anglosassone».101 Divenne sempre più chiaro che il suo modo di intendere la rivoluzione permanente contribuiva ad accrescere in lui la sensazione che il resto dell’umanità non fosse fatto a sua immagine e somiglianza (arroganza che copriva solo in parte il suo senso di inadeguatezza e il sospetto che il fascismo non avesse mai raggiunto completamente il rigore intellettuale di quel socialismo che lui aveva abbandonato da tanto tempo).
Il ruolo del re costituiva un ulteriore tema di discussione, con Mussolini che in privato sminuiva il sovrano come un altro personaggio simbolo del carattere non eroico degli italiani, tiepido nei confronti dell’Asse. In numerose occasioni Vittorio Emanuele si pronunciò negativamente in proposito,102 soprattutto per la classica convinzione del vecchio soldato secondo cui gli alleati dell’ultima guerra dovevano esserlo per sempre. Nel marzo 1938 il dissidio tra il sovrano e Mussolini si approfondì quando fu improvvisamente annunciato da Costanzo Ciano che il Duce sarebbe stato nominato Primo maresciallo dell’Impero, un grado senza precedenti e con una potenziale valenza semiregale.103 Egli avrebbe assunto il comando ufficiale delle forze militari italiane in caso di guerra, compito fino ad allora riservato al sovrano.
Vittorio Emanuele espresse chiaramente il proprio rammarico per la perdita di una prerogativa regia, inducendo Galeazzo Ciano e Starace a discorsi sconsiderati sulla necessità di costituire prima o poi una repubblica fascista.104 Mussolini provò invece un sottile piacere nel trasmettere al re il parere – «che io, quantunque profano, considero esauriente» –105 di un giureconsulto fascista che ribadiva la legalità del nuovo ruolo. Malgrado tutto, contento come già in precedenza anche soltanto per il fatto di aver compiuto un gesto, il Duce lasciò che le sue relazioni con il sovrano scivolassero di nuovo sui vecchi binari. Qualche anno prima aveva affermato che loro due condividevano una camera da letto, ma senza un letto a due piazze,106 ed era una metafora che ben descriveva quale fosse stato e quale continuasse a essere il loro rapporto. Entrambi cercavano rifugio nella misantropia e nella misoginia, che si approfondirono con il passare del tempo. Probabilmente Mussolini annuì quando sentì dire che il re era convinto che «le donne servono a fare la calza e ad andare a letto»107 e che considerava il capo di stato maggiore generale, Badoglio, un uomo che «ha le idee corte e il cervello come un passero, ma in fatto di caparbietà ha la forza degli elefanti».108 Bottai fu forse convinto di aver scoperto una formula arguta quando definì Vittorio Emanuele «un re di Stato totalitario, espressione del popolo organizzato»,109 ma il sovrano e il Duce continuavano a sospettare che, come ogni altro prodotto del genere umano, le parole fossero scorie.
Il Duce e il re-imperatore condividevano l’antipatia per i preti. Nell’ultimo anno del pontificato di Pio XI, morto il 10 febbraio 1939, nacquero tensioni tra la Chiesa e lo Stato. Nella sua enciclica Mit brennender Sorge del marzo 1937, il papa aveva attaccato il regime nazista, condannandolo come un male quasi identico a quello che regnava nella Russia comunista, quanto a Stato, ideologia e moralità. Il fascismo veniva risparmiato, ma le alte gerarchie ecclesiastiche non approvavano il «modello del fascismo» e Pio XI era contrario alla campagna razziale, nutriva dubbi sull’Asse e si preoccupava di far conoscere le sue obiezioni a Mussolini. In reazione il Duce non nascondeva la sua antipatia per il pontefice e si rifiutò in modo stizzito di piangerne la morte; il Vaticano, diceva, era troppo debole per meritare l’attenzione di un guerriero granitico come lui.110 Nondimeno, l’elezione di Pio XII fu accolta con favore dal governo fascista,111 com’era giusto in considerazione delle origini del nuovo papa, figlio di una famiglia nobile e attiva nell’alta finanza italiana, del suo dichiarato anticomunismo112 e della sua preferenza per il fascismo contro tutte le ideologie moderne che tenevano avvinta un’umanità peccaminosa. Malgrado i futuri urti con Mussolini, l’insediamento al soglio pontificio di Pio XII non fece presagire fratture di sorta tra la Chiesa e lo Stato nell’Italia fascista.
Nel 1939 il Duce cominciò a protestare con irritazione per l’inadeguato ardore rivoluzionario del fascismo in patria, ma gli affari internazionali dominavano i titoli d’apertura dei giornali, costituendo necessariamente le priorità di Mussolini nella sua carica di dirigente. A questo proposito, i mesi successivi al patto di Monaco furono animati da nuove clamorose richieste da parte del regime di premi o pagamenti. Il bersaglio era la Francia; le acquisizioni desiderate erano Nizza, la Corsica, la Savoia, Tunisi e Gibuti.113 Mussolini confessò a Claretta che i francesi avevano sempre tentato di imbrogliarlo e avrebbero dovuto pagare per la loro perfidia.114 Ma quanto era da prendersi seriamente il ricatto fascista alla Francia? Non molto, visto che i preparativi militari contro il vicino nordoccidentale furono essenzialmente difensivi e i piani operativi contro la Corsica e Tunisi soltanto teorici. Gli abboccamenti di Mussolini con Ciano illustrano bene, invece, tutti i limiti del potere carismatico e dimostrano ancora una volta che, per il Duce, quasi tutto era negoziabile.115 Come dichiarò al Gran Consiglio, «non punto sulla Savoia, perché è fuori della cerchia alpina. Tengo invece presente il Ticino perché la Svizzera ha perduto la sua forza di coesione».116 Ma fin dove si sarebbe spinto per Gibuti? O il vero scopo della campagna era, come aveva millantato Mussolini in più occasioni, di fungere da cortina fumogena per un futuro assalto dell’Italia all’Albania? Ma anche per quell’evento, da tempo premeditato, i preparativi restavano di scarsa importanza.117 Forse la dichiarazione più illuminante sullo screzio con la Francia venne dal re: «La Corsica dovrà fatalmente divenire italiana quando in Europa si produrrà la grossa crisi».118 L’avidità del sovrano dimostra come un leader italiano non dovesse per forza essere un fascista convinto per nutrire ambizioni su un territorio dove persino Ciano ammetteva che «un irredentismo corso non esiste».119
Con il nuovo anno i rimproveri della stampa alla Francia continuarono, ma la politica italiana spostò la propria attenzione sull’Inghilterra. Neville Chamberlain e il suo segretario agli Esteri, Lord Halifax, si recarono a Roma nel gennaio 1939. Mussolini giudicò Halifax una personalità «funerea», circondata da un alone di malinconia.120 Impressionato da quello che considerava «il contegno sobrio e riservato» del Duce a Monaco,121 il primo ministro britannico cercava di usare i buoni uffici del dittatore italiano per raggiungere l’enigmatico (o almeno egli sperava si trattasse solo di questo) Hitler con un ultimo piano di pacificazione. Chamberlain continuava a essere ottimista, facilmente tranquillizzato da piccoli gesti come, per esempio, il fatto che Mussolini si fosse presentato a un banchetto in abito da sera anziché in uniforme.122 Il Duce, riferì, aveva un bell’aspetto, era dotato di un grande senso dell’umorismo e di un sorriso cordiale, ed era «simpatico» nella conversazione. Però «era rimasto per tutto il tempo assolutamente fedele a Hitler».123 Ciano, meno caritatevole, riassunse i dialoghi come una partita conclusa «zero a zero».124 Chamberlain non aveva portato nulla di concreto da offrire agli italiani.
In ogni caso, durante e dopo quella visita, l’attenzione di Mussolini e di Ciano fu realmente riservata soltanto ai sempre attivi tedeschi. Ribbentrop aveva suggerito che il «patto anti-Comintern» fosse trasformato in un’alleanza su vasta scala; l’idea piaceva ai dirigenti italiani,125 ma ancora una volta il loro entusiasmo si rivelò limitato. Nel gennaio-febbraio 1939 Mussolini respinse i consigli dei comandanti delle forze armate di formalizzare un trattato militare con la Germania poiché non condivideva il loro timore di un’imminente invasione francese.126 Tentò addirittura di lasciar perdere i tedeschi, dicendo a Ciano, il 10 marzo, che erano un popolo militare ma non bellicoso: «Date ai tedeschi molta salsiccia, burro, birra e una macchina utilitaria e non vorranno mai più farsi bucare il ventre» dichiarò.127
Non era la prima volta che i giudizi di Mussolini si rivelavano così privi di fondamento. Il 15 marzo Hitler prese possesso del territorio boemo, facendo al tempo stesso da patrono a monsignor Josef Tiso, che divenne l’alquanto improbabile governatore clerico-fascista della Slovacchia. Non fu fatto alcun tentativo di avvisare il governo italiano, colto di sorpresa da questi sviluppi. Mussolini, contrariato, borbottò: «Gli italiani riderebbero di me: ogni volta che Hitler prende uno Stato, mi manda un messaggio».128 A villa Torlonia, Ciano trovò il Duce imbronciato, stanco, invecchiato e convinto che nessuno avrebbe potuto arginare l’avanzata tedesca verso l’egemonia in Europa.129 Poco dopo il Gran Consiglio esaminò la situazione. L’Inghilterra aveva deciso di opporsi alla Germania nazista se la Polonia fosse stata il suo prossimo bersaglio, creando così le condizioni dell’imminente «guerra per Danzica», la prima delle seconde guerre mondiali. La descrizione della riunione del Gran Consiglio fornita da Bottai è eloquente. I membri cominciarono a passare in rassegna gli articoli della stampa straniera sulla situazione internazionale, ma Mussolini prese la parola esprimendo «ironia, ira, noia, disgusto, disprezzo». Queste emozioni si trasmisero al resto del Gran Consiglio. Proprio quando sembrava imminente una durissima risposta alle demoplutocrazie, il Duce cominciò in tono più calmo a fare il punto sulla situazione della Germania. Qui l’evidenza era indiscutibile. Il paese era irresistibilmente forte, sia dal punto di vista militare che demografico: «ottanta milioni» di tedeschi prevalevano su quarantacinque milioni di italiani, riconobbe con amarezza Mussolini. In ogni caso, aggiunse ripetendo quella che sembrava ormai la sua ossessione, non potevano esserci altri «giri di valzer».130 Che piacesse o no, l’Italia era legata ideologicamente e nella pratica alla Germania.131
Un settore che giustificava la superiorità tedesca, a cui Mussolini fece riferimento con ovvia brevità, era l’economia. Notò che la produzione industriale tedesca superava quella italiana nel rapporto di dodici a uno. Il Duce amava sostenere, come disse nel 1937 a un importante industriale, che «mai una questione economica ha arrestato il cammino della storia».132 Tuttavia, negli ultimi anni erano state avviate relazioni commerciali che avevano finito per legare l’Italia, nel movimento di merci e di uomini, sempre più strettamente alla mostruosa macchina tedesca, il che venne confermato nel febbraio 1939, quando i due Stati totalitari sottoscrissero un nuovo trattato commerciale.133 Ebbe grande effetto propagandistico il trasferimento in Germania di «operai ospiti» fino a un totale di 500.000 uomini.134 La storia di questi individui, che si trasferivano da un paese che aveva abolito il termine «emigrazione» dal proprio vocabolario verso una nazione impegnata a trasformarsi in un’entità statale razzialmente pura, è di per sé sconvolgente, ma ha risvolti anche più allarmanti. Gli italiani in Germania divennero in pratica ostaggi virtuali. Poteva il regime fascista, che faceva espatriare gli operai con tale clamore, pensare poi a un dietrofront in questa o in qualunque altra vicenda nella politica dell’Asse? Se gli operai non fossero tornati a casa, quali sarebbero state le implicazioni per la dittatura italiana? Con la sua esportazione di forza lavoro, l’Italia non era diventata «il primo satellite del Reich»?135
Ancora una volta, sembrava impossibile allontanare gli incubi che tormentavano il governo italiano. Come capì brillantemente un diplomatico romeno:
Mussolini aveva sfidato troppo a lungo il destino per non sentire la minaccia di un rovescio sempre imminente. Come il fortunato Policrate, avvertito da cupi presentimenti, sembrava preoccupato di scongiurare la sorte. Lo inquietava la sua unione con Hitler, che disponeva di forze infinitamente più grandi. Si vedeva trascinato su una via che egli stesso aveva aperta, prigioniero del sistema che gli doveva la vita, e di passioni che egli aveva scatenate, verso uno scopo che gli sembrava perlomeno incerto. Avendo provocato il vento, temeva la tempesta; una tempesta che gli arrivava addosso e sfuggiva al suo potere. Sperava ancora di poter utilizzare la velocità acquistata per passare attraverso gli scogli: il suo istinto, contrariamente a quello di Hitler, non era di scagliarsi contro l’ostacolo, ma di evitarlo con profitto. La coscienza che aveva del pericolo non lo liberava però dalle passioni che avevano presa su di lui: vecchi rancori, violente irritazioni, continui alti e bassi d’amor proprio. Di fronte alla sciagura che intuiva, il suo presentimento doveva dimostrarsi ogni giorno più esatto.
Inoltre, un senso di inadeguatezza personale si aggiungeva alla problematicità della situazione internazionale, sempre più minacciosa. Mussolini, conclude la testimonianza, «doveva sopportare accanto a sé lo sguardo lucido di quel giovane giocatore [Ciano] come un avvertimento che il potere di già gli sfuggiva di mano».136
Fu proprio per scongiurare l’umiliazione di un simile scenario che il regime mussoliniano finalmente invase e fagocitò l’Albania. Lo fece nel modo più spregevole, attaccando nel giorno del Venerdì Santo,137 dopo che la regina albanese Geraldine aveva dato alla luce un figlio maschio. Di sicuro, nemmeno re Zog fu un modello di virtù, visto che fuggì dal paese portando con sé cento sacchi d’oro, un tesoro che gli fece un gran comodo quando si trattò di sistemare se stesso e il suo folto entourage al Ritz di Londra.138 La prospettiva per l’Italia di ottenere un protettorato senza un atto di forza fu respinta da Mussolini,139 che però aveva lasciato la maggior parte dei preparativi a Ciano e alla sua cerchia. Questi non lavorarono bene. Malgrado l’assenza di un’opposizione politica, il popolo albanese non cedette in alcun modo il proprio cuore al potere italiano, sapendo anche meglio dei siciliani che i regimi passano, ma la vita quotidiana continua. Vittorio Emanuele acquisì un altro regno per la sua corona; fu presto organizzato un Partito fascista albanese, ma il radicamento del nuovo potere rimase superficiale e costoso. Anche se l’Albania era un paese europeo e l’aggressione italiana assunse una sinistra aria nazista, l’occupazione prese subito l’aspetto di un altro avamposto imperiale, scarsamente assimilato allo Stato «totalitario» e lasciato a languire nella sua insignificante «arretratezza».
Il Duce avrebbe dovuto essere abituato ai trionfi pieni di amarezza, ma l’Albania gli provocò comunque un attacco di collera. Un piano di pace elaborato da Roosevelt, commentò sprezzantemente, era «un frutto della paralisi progressiva».140 Tuttavia, comportarsi in modo scortese con la lontana America non avrebbe risolto nulla. Le continue difficoltà e la manifesta inadeguatezza rivelata dalle forze armate italiane durante il tentativo di sbarcare in Albania – gli osservatori militari parlarono di «dilettantismo infantile» –141 finalmente provocarono una revisione dell’organizzazione militare nazionale. Dopo la mossa tedesca contro Praga, Mussolini aveva dichiarato: «La parola d’ordine è questa: più cannoni, più navi, più aeroplani. A qualunque costo, a qualunque mezzo».142 Sei settimane più tardi, però, Ciano ammetteva che la potenza militare italiana era «un bluff tragico». Non c’erano truppe di riserva e l’equipaggiamento, anche solo per la difesa, era antiquato o inesistente. Il Duce, dichiarò con tristezza, era stato ingannato dai militari.143 Poco dopo Felice Guarneri inviò notizie altrettanto deprimenti sui conti con l’estero;144 il ministro degli Scambi e valute si diceva scettico già da molto tempo sulla possibilità per la nazione di permettersi gesti grandiosi in politica estera e voleva dare al Duce un consiglio che considerava «spregiudicato e superiore» ma «aperto alla realtà».145 «L’Impero», ammonì, con le spese che ne derivano «sta ingoiando l’Italia.»146 Le leggi razziali e le costanti crisi diplomatiche erano, per esempio, un male per il turismo, la vera fonte di ricchezza nazionale, che secondo le sue stime nei primi sei mesi del 1939 aveva subìto un crollo del 60 per cento.147 Insomma, l’economia italiana era «estremamente precaria»,148 non poteva assorbire altri colpi, non poteva sostenere un conflitto internazionale.
Per il fascismo diventava difficile negare l’abisso che si era spalancato tra le promesse e i fatti, e gli eventi stavano ormai precipitando. Mussolini usava ancora un piglio bellicoso parlando dell’«inevitabilità» della guerra, eppure ammetteva che l’Italia aveva bisogno di pace per «tre» anni o più (il numero non significava nulla, l’importante era restare nel vago).149 Frattanto Ciano si era recato a Milano per incontrare Ribbentrop e, in conformità con gli ordini di Mussolini del 7 maggio, firmò un’alleanza con la Germania nazista, il cosiddetto «Patto d’acciaio».150
Compiuto questo fondamentale passo, ricominciò la deriva. Il re avvisò che, appena i tedeschi avessero capito di non aver bisogno dell’Italia, si sarebbero dimostrati «quei mascalzoni che sono».151 In risposta alla lugubre profezia reale, Mussolini disse rabbiosamente: «Io sono come un gatto, cauto e prudente, ma quando spicco il salto sono sicuro di piombare dove voglio». Il Duce si chiedeva di nuovo se fosse giunto il momento buono per eliminare Casa Savoia.152 Ma egli stesso non si sentiva affatto pronto per cominciare una guerra. Il 30 maggio inviò a Hitler una fumosa relazione sul motivo per cui la guerra, sebbene fosse «inevitabile», doveva essere rinviata «alla fine del 1942». Ammise che l’Italia aveva qualche piccolo compito da sbrigare, come la sistemazione della Libia e dell’Albania, la pacificazione dell’Etiopia, il trasferimento delle sue industrie belliche dalla valle del Po al Sud. Aveva bisogno di sei corazzate nuove, di artiglieria più efficace e di migliorare il morale del paese (a questo proposito aggiunse, in un ultimo tentativo di ergersi a dispensatore di buon senso, che i tedeschi avrebbero fatto meglio a normalizzare le relazioni con il Vaticano). L’autarchia avrebbe dovuto essere perfezionata ulteriormente. Magari, suggerì, nelle prime fasi della futura guerra del 1942, o in un altro momento, l’Italia avrebbe potuto fornire gli uomini e la Germania i mezzi.153 Hitler non obiettò nulla, facendo soltanto presente quanto gli sarebbe piaciuto incontrarsi di nuovo con il Duce.
Cominciava così l’ultima estate di pace in Europa. Il governo italiano, intanto, faceva assai poco per modificare la propria linea di azione o per rimediare alle vistose carenze nel processo di modernizzazione della macchina militare e della società. L’ambasciatore italiano a Berlino riferì che Stalin non aveva intenzione di togliere altre castagne dal fuoco e che il regime sovietico era sempre più insofferente di fronte alla lentezza e all’arroganza con cui gli anglo-francesi tentavano di addivenire a un’intesa con l’URSS.154 Vi furono cordiali scambi di comunicazioni con il vittorioso Franco, il quale non nascondeva la convinzione che «nelle presenti sue condizioni la Spagna non potrebbe affrontare una guerra europea».155 In risposta, Mussolini, come sempre anche troppo pronto a diventare il protettore di chiunque considerasse suo inferiore, sollecitò il Caudillo ad «andare decisamente verso il popolo», aggiungendo un invito a recarsi a Roma quando gli fosse aggradato.156 Vi era poi la questione polacca. Per quanto riguardava Danzica, Mussolini confidava nella possibilità di trovare un’altra intesa, come era avvenuto a Monaco, anche se naturalmente giurò che l’Italia sarebbe intervenuta se l’Inghilterra avesse scatenato la guerra.157 Agli occhi degli italiani, comunque, la situazione sul fronte settentrionale sembrava abbastanza tranquilla, tanto che Ciano annotava sul suo diario sarcastici commenti sull’allarmismo di alcuni membri del corpo diplomatico.158
Quanto il suo ottimismo fosse privo di fondamento è cosa che scoprì l’11 agosto, quando si incontrò con l’egregio Ribbentrop a Salisburgo. Era arrivato portando un messaggio del Duce secondo cui una guerra mondiale sarebbe stata «per tutti disastrosa».159 Ma in risposta, il ministro tedesco, Hitler e il resto del gruppo dirigente nazista furono «implacabili».160 Dieci interminabili ore di discussione con Ribbentrop e un incontro con il Führer non cambiarono minimamente le idee dei tedeschi né servirono a modificare la loro convinzione che quello fosse il momento appropriato per la guerra: non importava che l’Italia fosse d’accordo o meno né avevano alcun valore le precedenti affermazioni secondo cui la Germania avrebbe atteso diversi anni prima di far scoppiare un conflitto. Ciano ritornò a Roma convinto, e molto seccato, di essere stato «tradito» e divenne immediatamente antitedesco.161 Si vide costretto a mettere un freno persino alla sua avidità. Solo l’assoluta paura dei nazisti poteva giustificare la sopravvivenza dell’Asse. La politica estera fascista, nel modo in cui era stata gestita dal genero del Duce, era crollata.
E Mussolini? Il 13 agosto, quando Ciano andò a fargli visita a palazzo Venezia, le sue reazioni furono «di varia natura. Dapprima mi dà ragione. Poi dice che l’onore lo obbliga a marciare con la Germania. Infine afferma che vuole la sua parte di bottino in Croazia e in Dalmazia».162 Sebbene Ciano non lo rilevasse, la scelta di quei territori da parte di Mussolini aveva un che di ironico, implicando la creazione nell’Italia nordorientale di una sorta di baluardo contro il germanesimo.163 Nei giorni successivi, mentre il Duce sondava sempre più affannosamente le varie soluzioni possibili, diventava sempre più difficile reprimere «la paura dell’ira di Hitler». E se, domandò Mussolini a Ciano, la marcia indietro dell’Italia avesse indotto i nazisti a rinunciare alla Polonia e a «saldare il conto dell’Italia»?164
L’unico fatto certo, in quel periodo di gravissima crisi, era la mancanza di un’effettiva capacità di prendere delle decisioni. Alcuni mesi prima Mussolini si era vantato dicendo che i ministri del suo governo erano gli equivalenti di «una lampadina elettrica: io la accendo e la spengo a mia volontà».165 Ora non vi era più alcuna idea sul modo di chiarire e ridiscutere adeguatamente la situazione internazionale, nessuna possibilità di scrutare il futuro se non procedendo a tentoni. I principali esponenti dell’entourage del Duce rimanevano all’oscuro di ciò che stava accadendo riguardo a Danzica, sebbene Bottai (che veniva ritenuto intelligente) si chiedesse vanamente se era sorto un conflitto tra la coscienza «dionisiaca e nicciana [sic]» di Berlino e l’essenza «formale e giuridica» di Roma.166
Mussolini e Ciano si trovavano su posizioni differenti e diedero vita a un animato confronto che sarebbe continuato per parecchi mesi. Ciano, offeso dalla malafede tedesca, rifiutava l’idea dell’alleanza con i nazisti in guerra. Il Duce, per quanto si affannasse, non vedeva alternativa all’accettazione di quella stessa alleanza.167 Avvicinò Hitler con la contorta dichiarazione per cui l’Italia non sarebbe stata pronta a partecipare a una guerra di vaste dimensioni innescata dall’invasione tedesca della Polonia ma, se la Germania si fosse trovata costretta ad agire dopo un eventuale fallimento dei negoziati «per intransigenza altrui», essa sarebbe intervenuta «a fianco della Germania».168 Ma Hitler aveva in serbo altre sorprese per il suo infelice alleato. Il 21 agosto venne annunciato il patto Ribbentrop-Molotov (sottoscritto due giorni dopo), ma di nuovo senza che Roma ricevesse alcun preavviso.169 Vittorio Mussolini disse in seguito che, una volta letta la notizia sul «Resto del Carlino», pensò si trattasse di un errore di stampa.170 Ciano vedeva nel patto «un colpo da maestri»: la situazione europea veniva «sconvolta», ma l’Asse stava recuperando credibilità. Sperava che le altre questioni non precipitassero, ma ora anche lui era ansioso di prendere «la nostra parte di bottino in Croazia e Dalmazia».171
Tornarono, tuttavia, in auge atteggiamenti più moderati poiché i comandi militari italiani sottolineavano lo stato di assoluta impreparazione del paese. Anche il re si pronunciò per la «neutralità» (ma non dimenticò di chiedere un comando militare per suo figlio, in caso di guerra).172 Mussolini rimase solo nel tentativo di spiegare a Hitler che, sebbene approvasse «completamente» il patto Ribbentrop-Molotov e concordasse con la posizione tedesca secondo cui l’intransigenza polacca non poteva essere tollerata per sempre, l’Italia sarebbe potuta intervenire in tempi brevi solo se la Germania avesse inviato una grande quantità di «mezzi bellici e materie prime». Ce ne sarebbe stato bisogno, aggiunse il Duce in malafede, «per sostenere l’urto che i franco-inglesi dirigeranno prevalentemente contro di noi».173 Ciano commentò con sarcasmo che, nel caso i tedeschi avessero accettato le richieste italiane,174 ci sarebbero voluti 17.000 treni per il trasporto di 170 milioni di tonnellate di merci ed espresse stupore all’idea che i tedeschi potessero pensare di affrontare la Gran Bretagna e la Francia quando le loro stesse riserve erano così scarse.175
Il 26 agosto Mussolini scrisse di nuovo a Hitler implorandolo di immaginare il suo «stato d’animo» nel trovarsi costretto da «forze superiori» alla sua volontà a negargli la propria «solidarietà positiva nel momento dell’azione».176 In risposta Hitler chiese altri operai immigranti e cercò «l’appoggio psicologico» del Duce durante l’evolversi della crisi.177 Mussolini tentò di spingere con prudenza i tedeschi verso una soluzione pacifica della questione di Danzica,178 e forse accarezzò per un breve momento il sogno di recuperare il ruolo che aveva avuto a Monaco.179 Ciano ne osservava con ansia gli sbalzi d’umore, un giorno riconciliato con gli eventi, il giorno dopo impaziente di agire.180 Il Duce era contrariato soprattutto dall’ipotesi di una possibile «neutralità», parola che richiamava alla mente il 1914 e la politica estera liberale. Ma, ancora una volta, il destino dell’Italia fascista sarebbe stato quello di entrare in gioco a guerra ormai iniziata. Mussolini era forse stato capace di far viaggiare i treni in orario, come diceva la sua propaganda, ma evidentemente le guerre erano tutt’altra cosa.
Bocchini rese noto al Vaticano di aver detto al suo capo che «tutta l’Italia odia la guerra e la gente non vuole combattere per i tedeschi».181 Tra gli alti esponenti del regime, il solo Starace era favorevole all’ingresso immediato, anche se si tirò indietro quando scoprì, stupito, che quel piano di razionamento che si era vantato di poter applicare con il minimo preavviso in realtà non esisteva affatto.182 Franco e Salazar, il dittatore portoghese, approvavano l’idea che l’Italia attendesse a bordo campo.183 Circondato da queste voci, Mussolini si arrese all’inevitabile, come racconta Ciano, nella notte del 2 settembre:
Il Duce è convinto della necessità di restare neutrale, ma non ne è affatto contento. Ogni volta che può accenna alle nostre possibilità di azione. Gli italiani, invece, sono nella assoluta totalità felici delle decisioni che sono state prese.184
Due giorni dopo, con l’Inghilterra, la Francia e la Germania ormai ufficialmente in guerra, Mussolini si struggeva ancora nel tentativo di ribadire la «solidarietà piena» che, ne era sicuro, legava tra loro il nazismo e il fascismo.185 Il conflitto si rivelò una curiosa competizione che aveva messo i nazisti contro le riluttanti potenze occidentali, una guerra giustamente descritta come «fasulla» da tutti, fuorché dai polacchi, aggrediti con tanta brutalità dalla Blitzkrieg nazista. La non belligeranza dell’Italia (come doveva essere obbligatoriamente chiamata per evitare il termine «neutralità») si sarebbe rivelata altrettanto fasulla? Una generazione prima, i nazionalisti avevano sostenuto con convinzione la necessità che l’Italia liberale affrontasse la «prova» della prima guerra mondiale, conquistando il «professor Mussolini» alla causa dell’interventismo. Come avrebbe potuto il regime fascista sopravvivere alla prova di un nuovo conflitto? Aveva la possibilità, o il dovere, di calcolare i vantaggi dell’una o dell’altra parte in causa? O, invece, l’Italia era inevitabilmente obbligata a unirsi alla Germania nazista nel sostenere la causa criminale del fascismo universale?