CAPITOLO PRIMO

GRONCHI

Nell’aprile 1955, con l’elezione di Giovanni Gronchi alla Presidenza della Repubblica, l’Italia voltò pagina.

Non è che, entrato il nuovo inquilino al Quirinale, cambiassero le strutture politiche del Paese. La Democrazia cristiana ne restava la trave portante, i governi continuavano ad essere formati suppergiù con le stesse formule e tra le stesse faide per l’assegnazione delle poltrone ministeriali; l’apertura ai socialisti rimaneva una prospettiva a lunga scadenza e di ardua realizzazione; il PCI era più che mai vincolato alla fedeltà verso la chiesa madre di Mosca. Lo scenario della rappresentazione era insomma pressoché lo stesso: ma con altri protagonisti, con altro stile.

Nell’Italia della ricostruzione – che era stata impetuosa – e dell’espiazione – che con il Trattato di pace era stata severa – i protagonisti si chiamavano Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi: fatti per capirsi, per stimarsi, per integrarsi, ciascuno di loro apportando al tandem le sue qualità. De Gasperi, «il trentino prestato all’Italia», aveva garantito otto anni di gestione politica intelligente, prudente, dignitosa. Einaudi, economista prima che politico, non aveva mai fatto mancare al Presidente del Consiglio il suo appoggio e i suoi suggerimenti: l’uno e gli altri preziosi, perché De Gasperi capiva poco o niente d’economia. Ma sapeva di non sapere, e s’affidava agli esperti.

Tra questi ultimi Einaudi aveva una posizione particolare: non solo perché era il Capo dello Stato, non solo perché la sua dottrina in materia era profonda, ma soprattutto perché era disinteressato. Non poteva covare maggiori ambizioni politiche, non soffriva di nepotismi, dava valore al denaro ma non ne era avido e tantomeno era corrotto. Le prediche che dal suo scrittoio rivolgeva, di tanto in tanto, al governo, potevano riuscire inutili, perché le clientele e i voti contano più d’ogni ragionamento; ma non erano mai gratuite e superflue. Così il liberalcattolico De Gasperi, e il liberale e cattolico Einaudi, lavorarono insieme e lavorarono bene, fino alla fatale sconfitta elettorale della DC e del suo leader nelle elezioni parlamentari del 7 giugno 1953.

Poco più di un anno dopo De Gasperi, già giubilato alla Presidenza della Democrazia cristiana, morì nella sua casa di Sella di Valsugana. A sua volta Einaudi fu messo in pensione, per scadenza del mandato presidenziale, nella primavera del 1955. Nessuno poteva muovergli appunti per ciò che aveva detto o fatto durante i sette anni trascorsi al Quirinale. Le poche e rispettose critiche erano di carattere politico, perciò opinabili. Riguardavano in particolare la designazione a sorpresa di Pella come successore di De Gasperi: secondo Domenico Bartoli «l’unico errore, forse, e certamente il più serio che il Presidente commettesse». Ma motivato – sempre nella diagnosi di Bartoli – da «motivi precisi», non «dal capriccio del momento» perché Pella era ritenuto da Einaudi un eccellente economista, e inoltre s’imponeva l’opportunità «di designare qualcuno che avesse fama di persona onesta e non fosse troppo compromesso con la formulazione della legge elettorale» (quella che fu bollata come «legge-truffa»).

Comunque quest’episodio, da alcuni ritenuto negativo ma da altri elogiato, non aveva appannato il prestigio di cui Einaudi godeva. Poteva quindi sembrare sensato, dopo la scomparsa di De Gasperi, che si volesse affermare la continuità delle istituzioni rieleggendo Einaudi alla Presidenza. La conferma aveva però una controindicazione scritta nell’anagrafe, e degli oppositori che dell’anagrafe si facevano forti per i loro disegni politici. Eletto a settantaquattro anni, Einaudi ne contava ottantuno dopo il primo settennato, ne avrebbe avuto ottantotto alla fine del secondo. È vero che la carica di Capo dello Stato equivale in Italia – unica eccezione finora Antonio Segni – a un elisir di lunga vita. Ma il rischio non tanto della fine del Presidente, tanto d’un obnubilamento che sarebbe stato difficile denunciare e imbarazzante da superare con i meccanismi costituzionali, era senza dubbio grave. Il nome di Einaudi ottenne sempre un rilevante numero di voti dalle Camere riunite, ma servì più per attestare delle dissidenze che per lanciare una seria ricandidatura.

Non lo voleva Amintore Fanfani, che reggeva, con la sua corrente di Iniziativa democratica, la segreteria del Partito, e s’illudeva a torto di reggere anche il Partito; non lo voleva Pietro Nenni; non lo voleva Concentrazione – un cospicuo gruppo di parlamentari della DC provenienti dalla destra del Partito, dalla dirigenza sindacale, ma anche dalla sinistra – che aveva il suo unico comune denominatore nell’avversione a Fanfani.

Questi aveva tentato d’imporsi con il pugno di ferro. C’era riuscito, finché s’era trattato soltanto di espellere due deputati, Mario Melloni (il Fortebraccio dell’«Unità») e Ugo Bartesaghi, che erano diventati – soprattutto Melloni – comunisti con etichetta DC. Ma quando volle indicare il Presidente del gruppo parlamentare a Montecitorio (il suo uomo era Aldo Moro) fu ripagato con un primo evidente segno di ribellione. Moro passò con 138 voti, ma Andreotti, «portato» da Concentrazione, ne ebbe 109.

Tra gli esponenti di questa corrente, ha scritto Giulio C. Re in Fine di una politica, «è numeroso lo stuolo degli ex, e anche di alto lignaggio. Gronchi ha sempre aspirato a rappresentare il numero due della Democrazia cristiana, dopo De Gasperi, ed è stato, prima che Presidente della Camera, Ministro; Pella è stato Presidente del Consiglio e Ministro del Bilancio, del Tesoro, delle Finanze, degli Esteri; Gonella Ministro della Pubblica istruzione e segretario del Partito; Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Ministro dell’Interno; Rapelli, segretario generale dei sindacalisti bianchi, prima di Giulio Pastore; Scoca, Ministro senza portafoglio; Del Bo, sottosegretario al Lavoro; Marazza Ministro dei Lavori pubblici, e così via. Essi hanno tutti la sensazione di essere ormai considerati bruciati e superati dalla nuova classe dirigente del Partito, e tagliati fuori dalle preferenze. Anche qualcuno di coloro che hanno basi abbastanza solide alla periferia si vede minacciato da provvedimenti della segreteria centrale, la quale ha sciolto varie federazioni, specie nel Sud: ultima la federazione di Roma, in cui sono forti gli andreottiani e i gronchiani».

Nenni che preparava il Congresso del suo Partito – fu celebrato ai primi di aprile, ed egli lo definì «il più bello del dopoguerra» perché l’aveva visto trionfatore – lanciò con largo anticipo un siluro contro Einaudi. Annotava il 27 febbraio 1955, sul suo diario: «Nell’articolo di oggi sull’“Avanti!” ho gettato un sasso nelle acque stagnanti dell’elezione del nuovo Capo dello Stato. Ho preso posizione contro la rielezione di Einaudi con molto garbo e rispetto verso la persona del Presidente, ma con fermezza».

Si delineava così la manovra che avrebbe portato Gronchi al Quirinale, contro il Presidente del Senato Cesare Merzagora, ideologicamente liberale ma compagno di viaggio dei democristiani. Il 15 aprile Nenni precisò ancor meglio il suo disegno, che doveva avviare l’apertura a sinistra e che «favorisce una candidatura democristiana (nell’ordine delle mie preferenze: Gronchi, Vanoni, Zoli)». Il solo Pertini, nella direzione socialista, si disse contrario a queste designazioni. «Gli altri riconoscono che non possiamo mettere veti a un democristiano senza spezzare sul nascere l’apertura a sinistra già di per sé così difficile.»

Fanfani, sempre nei ricordi di Nenni, «propende per Merzagora (ma forse è una finta). Non vede altri possibili candidati liberali. Insiste per Zoli. In subordine fa i nomi di Vanoni o Segni (ma per quest’ultimo teme i latifondisti del suo Partito). Dice che Gronchi non avrebbe venti voti dalla DC». Un errore di calcolo, quest’ultimo, derivante, come spesso accadeva a Fanfani, da eccessiva sicurezza.

Alle spalle di Fanfani, e a sua insaputa, si stava tessendo una trama «milazzista» ante litteram: un pasticcio ideologico che faceva convergere sul nome di Gronchi, portabandiera d’un populismo cattolico spregiudicato, i favori della destra delusa e della sinistra rampante. I notabili della DC volevano Gronchi per dare uno schiaffo a Fanfani, che li emarginava, e al Presidente del Consiglio Scelba, che pur essendo dei loro li aveva «traditi». Merzagora era il candidato della segreteria DC, Gronchi era il candidato d’una coalizione, e d’una cospirazione, che coagulava la protesta, e la nobilitava con l’«afflato» sociale. Per questo ruolo il Presidente della Camera, bell’uomo, oratore trascinante e lucido anche quando sotto le parole la sostanza latitava, era l’interprete ideale.

Giovanni Gronchi era nato a Pontedera in provincia di Pisa – la cittadina poi divenuta famosa anche perché vi ha sede la Piaggio – il 10 settembre 1887. Il padre, contabile e rappresentante, non poteva dare alla famiglia più d’una decorosa povertà. A sei anni Gronchi rimase orfano della madre. Descrisse se stesso come un «ragazzo male in arnese, non per cattiva volontà della famiglia, ma per assoluta insufficienza di mezzi determinata e dalla salute di mio padre e da molte sfortunate coincidenze».

Fu uno studente brillante tanto che era in grado di dar lezioni private ai suoi compagni. Ammesso alla prestigiosa Scuola Normale di Pisa, vi conseguì nel 1909 la laurea in lettere con una tesi su Daniello Bartoli, e poi insegnò nelle scuole secondarie. Rimasto vedovo nel 1925 della prima moglie, Cecilia Comparini, sposò nel 1941 Carla Bissatini che gli diede due figli, Mario e Maria Cecilia. Il lungo intervallo tra i due matrimoni non deve far pensare a un Gronchi macerato nella solitudine.

Vedovo o sposato, egli ebbe una attività galante che – soprattutto, e si spiega, dopo l’elezione a Presidente – suscitò pettegolezzi e alimentò un’abbondante e piccante aneddotica. Si può rilevare per inciso che le propensioni d’alcova, sulle quali s’era anche basata l’opposizione democristiana alla candidatura presidenziale di Carlo Sforza nel 1948, non turbarono i timorati di Concentrazione che su Gronchi riversarono poi i loro voti.

Questo tombeur de femmes (non si sa quanto precoce) fu molto precocemente un cattolico impegnato e praticante (la coesistenza pacifica tra fede religiosa ed erotismo non è inconsueta, molti Re cattolicissimi ne diedero insigne esempio). Militò presto nelle organizzazioni giovanili cattoliche, assumendovi incarichi direttivi. Espresse simpatia per le tesi moderniste di Romolo Murri, alle quali si sentì sempre vicino anche se evitò la sconfessione della Chiesa, dalla quale Murri fu invece colpito.

Alla vigilia della prima guerra mondiale Gronchi fu risolutamente interventista: uno dei non molti cattolici di spicco – Domenico Bartoli nel suo Da Vittorio Emanuele a Gronchi ricorda Giosue Borsi e Attilio Piccioni – che vollero la guerra contro l’Austria, e che si arruolarono volontari. Come ufficiale di fanteria meritò tre ricompense al valore militare: ambizioso, ma anche coraggioso.

Il primo dopoguerra consacrò la sua ascesa nelle file del Partito popolare: Pisa lo elesse due volte deputato, nel 1919 e nel 1921. Segretario della Confederazione italiana del lavoro, il sindacato cattolico, si collocò alla sinistra del suo Partito senza tuttavia sconfinare nel «comunismo bianco».

Quando Mussolini costituì, dopo la marcia su Roma, il suo primo governo, il Partito popolare accettò che vi fossero inseriti alcuni suoi rappresentanti: nell’illusione – di breve durata – di poter imbrigliare e parlamentarizzare il movimento vittorioso delle camicie nere, e il suo capo, non ancora Duce. Vincenzo Tangorra e Stefano Cavazzoni ebbero rispettivamente i Ministeri del Tesoro e del Lavoro, quattro furono i sottosegretari cattolici, Gronchi (per l’Industria e il Commercio), Merlin, Milani e Vassallo.

Ben presto, tuttavia, tra il fascismo e il Partito popolare fu dissidio, e poi rottura. Mussolini non tollerò una collaborazione condizionata e svogliata: e definì sostanzialmente antifascista il Congresso che il Partito popolare (pipì come dicevano spregiativamente gli avversari) aveva tenuto nell’aprile del 1923. Eppure in quell’assemblea i toni verso il fascismo furono ancora possibilisti, e un ordine del giorno De Gasperi sulla situazione politica approvò «la partecipazione dei popolari all’attuale Ministero, come apprezzabile concorso perché la rivoluzione fascista s’inserisca nella Costituzione».

I popolari furono comunque costretti ad andarsene dal governo. Molti di loro ebbero in quel frangente tentennamenti: numerose furono le diserzioni e i passaggi al campo opposto. A Gronchi non poterono essere rimproverati, sotto questo aspetto, cedimenti. Pronunciò discorsi di critica dura a Mussolini; rivolse un saluto commosso a Sturzo il giorno in cui il Vaticano, compromissorio quasi fino alla resa, lo costrinse ad abbandonare la segreteria del Partito popolare (gli succedette un triumvirato composto appunto da Gronchi, Rodinò e Spataro); tentò di opporsi alla repressione sindacale fascista riassumendo la guida della Confederazione del lavoro.

Piero Gobetti fu molto colpito dalla personalità del giovane politico, e nel suo periodico «La rivoluzione liberale» diede di lui un giudizio fin troppo elogiativo: «Gronchi sorprende e domina per l’agilità giovanile, per la modernità inquieta ed enciclopedica. In un mondo che prende quasi tutti i suoi soloni dal neotomismo, Gronchi sembra una rivoluzione paradossale, uno scopritore di nuovi orizzonti. Non può non stupire la fresca eleganza con cui egli cita Sorel e Maurras, Croce e Bergson. L’astuzia di Gronchi è di avventurarsi in queste scorribande senza presunzione e senza pedanteria, conservandosi la fama di dialettico brillante».

Nel 1926, proclamata e già affermata la dittatura, la carriera politica di Gronchi era spezzata. Egli stesso, probabilmente, temette che fosse finita per sempre. Poteva tentar di riprendere la strada dell’insegnamento: anche se, per il suo passato, non gli sarebbero mancati ostacoli. Ma non l’imboccò. Scelse invece la strada degli affari, e negli affari rivelò l’altra faccia della sua personalità: la scaltrezza spinta fino alla spregiudicatezza, la capacità di simulazione, l’avidità di denaro.

Riemerse dalla penombra dell’opposizione silenziosa al fascismo dopo la sconfitta, ed ebbe – com’era giusto – una posizione di primo piano nella Democrazia cristiana. Subito si riagganciò alla tematica sociale che gli era congeniale: lo attestano i discorsi che, come Ministro dell’Industria o come Presidente della Camera, andava pronunciando. Affermava che «classi che hanno dimostrato la loro impotenza vengono ad essere gradualmente sostituite da classi nuove perché la civiltà capitalistica è in fallimento»; che «l’opporre ferma resistenza al bolscevismo, come dottrina e come regime politico-sociale, non equivale a sbarrare il passo alle classi lavoratrici nelle loro aspirazioni a una migliore giustizia». Dopo il trionfo democristiano del 1948 avvertì che quel 18 aprile era stato «il più grosso equivoco dei ceti conservatori industriali ed agrari»: i quali votando DC avevano creduto di proteggere i loro interessi, e si sbagliavano. Erano, le sue, tesi nobili e magari in più d’un punto tesi giuste. Ma asservite a una volontà di fronda, di protagonismo e di potere che mal si conciliava con l’altezza dei concetti.

Gronchi era ostile a De Gasperi, che a sua volta l’aveva in uggia fiutando nelle enunciazioni populiste e nelle ostentazioni religiose dell’uomo molto opportunismo, se non molta doppiezza. Come Ministro dell’Industria Gronchi aveva appoggiato il «petroliere» Enrico Mattei, che non dimenticava i favori, e sapeva come retribuirli. Nella DC era un notabile di grande prestigio, privo tuttavia d’una solida base parlamentare e «correntizia», tranne che nel suo collegio. Poiché nel governo gli dava ombra, e gli creava fastidi, De Gasperi credette di neutralizzarlo issandolo, l’8 maggio 1948, alla carica altamente onorifica e scarsamente operativa di Presidente della Camera.

La poltrona si addiceva alle qualità di Gronchi, di parola pronta, di tratto superficialmente amabile, colto, duttile nel guidare i dibattiti e agguerrito nel risolvere le questioni procedurali. Dal suo ufficio di Montecitorio poteva avere contatti, e stringere accordi, con gli esponenti dei vari partiti e delle varie fazioni.

Fu in quel posto di comando che maturò la strategia antifanfaniana e antiscelbiana dell’elezione presidenziale. È vero che già la volta precedente il candidato ufficiale della DC, Sforza, era stato bocciato: lo era stato benché De Gasperi disponesse della maggioranza assoluta in parlamento e d’una autorità mai poi eguagliata nel Partito e nel Paese. Ma Einaudi era stato una «seconda scelta» gradita, in fin dei conti, al leader democristiano. Questa volta l’infortunio fu più spiegabile – essendo radicalmente mutato il quadro nel quale Fanfani agiva – ma fu anche più grave perché la candidatura vincente consacrò come perdente il segretario del Partito.

Questi aveva preventivamente convocato a Palazzo Barberini i deputati e senatori DC perché ratificassero la candidatura Merzagora. Non s’era verificata una rivolta – in casa DC si ha maggior propensione per le congiure – ma l’atmosfera era tesa. Infatti alla prima votazione, il 28 aprile 1955, fu chiaro che Merzagora era impallinato. A Parri andarono i 308 voti delle sinistre – un omaggio simbolico, mentre ancora non v’era nulla di deciso perché le prime tre votazioni richiedevano una maggioranza di due terzi –, Merzagora ne ebbe 288, Einaudi (candidato dei laici) 120, Gronchi 30.

Era un segnale. Che si precisò alla seconda votazione quando, ritirato il nome di Parri, Merzagora, anziché progredire, scese a 225 voti, Gronchi salì a 127, Einaudi ne ebbe 89. Alla terza votazione Gronchi prese la testa: 281 voti contro i 245 di Merzagora e i 61 di Einaudi. Il duello era anche visivamente emozionante – per la prima volta la televisione trasmise le sedute in diretta – perché Gronchi dava lettura delle schede, e Merzagora, seduto accanto a lui, ascoltava accigliato.

La DC era spaccata. Moro, Presidente dei deputati democristiani, promosse in fretta e furia un’assemblea, cui intervenne, pallido e corrucciato, Fanfani. Si dibatté accanitamente, e finalmente a carte scoperte. Fu provocatoriamente chiesto, da chi voleva Gronchi, se la Democrazia cristiana dovesse dare i suoi voti a un indipendente come Merzagora, che per di più era in fama di massone se non di ateo, o se invece le convenisse concentrarli su un uomo suo, di vecchia tradizione cattolica e di spiccata personalità. Gonella, Emanuela Savio, Giuseppe Vedovato sostennero a spada tratta la causa di Gronchi: la sostennero con tanta tenacia che Aldo Moro batté un pugno sul tavolo, cedendo a uno scatto di nervi per lui inconsueto. Fanfani, furioso ma non rassegnato, chiese una pausa: e corse da Gronchi per domandargli di ritirare spontaneamente la candidatura. Tornò poco dopo, ostentando serenità. Il passo, annunciò, aveva avuto esito positivo, Gronchi «lasciava».

Così i parlamentari se ne andarono (era sera tarda) con propositi e pensieri diversi. Quelli fedeli alla segreteria erano convinti che Fanfani ce l’avesse fatta, quelli di Concentrazione erano decisi a utilizzare le poche ore che restavano per indurre Gronchi a resistere. Per iniziativa di Pella e Gonella i gronchiani si diedero appuntamento in casa dell’onorevole Salvatore Scoca: intanto Gonella e la Savio bussavano alla porta dell’alloggio privato di Gronchi a Montecitorio – che egli di norma non utilizzava, ma in cui aveva deciso di trascorrere, eccezionalmente, la notte – pregandolo di vestirsi e di andare anche lui a casa Scoca. Lì erano in attesa Pella, Andreotti, e altri.

A domanda – la prima e la più importante – Gronchi rispose di non aver mai detto a Fanfani ciò che Fanfani aveva riferito. Precisò anzi d’aver replicato – quando Fanfani aveva sottolineato l’inopportunità che un cattolico avesse la nomina presidenziale – che un simile punto di vista offendeva prima la Democrazia cristiana, poi lui. «L’opposizione ufficiale della Democrazia cristiana» disse «lo colpiva nella sua dignità politica e morale, per cui se gli si chiedeva un atto di rinunzia si doveva motivare tale richiesta non con quell’insostenibile pretesto, ma con ragioni che non somigliassero neppure lontanamente ad una squalifica della Democrazia cristiana e sua personale».

Posta la questione in questi termini, Gronchi si appartò con Pella in un salottino. I due presero, a quattr’occhi, gli ultimi accordi. Quindi Gronchi strinse calorosamente la mano a tutti i presenti, e fu salutato da Pella con questo discorsetto solenne: «Siamo lieti di aver sostenuto e di sostenere un democratico cristiano, inopportunamente e ingiustamente discriminato da una maggioranza composita. Tu Gronchi domani, anzi oggi (sono le tre del mattino), sarai Presidente della Repubblica. Sarai il primo cattolico alla guida dello Stato. Non ti chiediamo nulla per noi, ti diciamo soltanto: non essere il Kerenski della politica italiana! E difendi la nostra libertà parlamentare...».

Mentre Gronchi era già alla porta, la Savio gli rivolse un’estrema invocazione: «Presidente, mi raccomando, niente apertura a sinistra». Con questo viatico conservatore, Gronchi uscì soddisfatto, e pronto ad avere, insieme a quelli dei suoi amici di Concentrazione, i voti della sinistra.

La mattina del 29 aprile, di buon’ora, Pella ricevette una telefonata di Fanfani che, avendo saputo del «complotto» in casa Scoca, covava propositi bellicosi. I dissidenti dovevano essere ricondotti alla disciplina di partito. Pella fu gelido e irremovibile. Prese appuntamento con Fanfani nella sede della DC in piazza del Gesù, e gli ribadì che Gronchi era l’uomo di Concentrazione, e non soltanto di Concentrazione. Con la bile alla bocca, Fanfani si rassegnò a comunicare a Gronchi che la sua candidatura era diventata ufficiale.

A dar man forte a Gronchi sopravvenne il monarchico Covelli, da lui incontrato nel Transatlantico di Montecitorio. «Qualche battuta sulla battaglia in corso» citiamo ancora dal libro di Giulio C. Re «poi Gronchi dice: “Io non posso accettare i voti delle sinistre se non ho i voti delle destre”. E Covelli: “Allora: Gronchi al Quirinale e Pella al Viminale!”. Una stretta di mano suggella l’intesa, e Gronchi ritorna al seggio di Presidente della Camera, accanto a Merzagora. Un’ora dopo egli viene eletto Presidente della Repubblica con una maggioranza eccezionale: 658 schede a favore, contro 70 andate ad Einaudi, 92 rimaste bianche e 13 disperse.» Ad Einaudi erano rimasti fedeli, fino all’ultimo, i liberali e Saragat.

Gronchi – cui spettava come Presidente della Camera il compito di leggere i nomi scritti su ogni scheda – aveva scandito il suo «con totale distacco da emozioni», come osservò Vittorio Gorresio. Il quale inserì nella sua cronaca dell’elezione un episodio piuttosto divertente. Quando il nome di Gronchi era risuonato per la quattrocento-ventiduesima volta, superando il traguardo fatidico della maggioranza semplice, gran parte dei deputati e senatori s’era alzata in piedi ad applaudire, con grida di «Viva la Repubblica». Al banco del governo, Scelba non s’era associato al tripudio. «Si vide allora avvicinarsi a lui un commesso che su un vassoio di argentone gli offriva un bicchiere pieno di liquido scuro. Cynar, un aperitivo poco alcolico a base di succo di carciofo raccomandato dalla pubblicità commerciale come efficace contro il logorio della vita moderna, e particolarmente contro gli attacchi di fegato. Scelba, che non lo aveva ordinato, non ebbe la presenza di spirito di accettarlo fingendo di nulla. Anzi lo respinse con un gesto irritato ed il commesso portò via il bicchiere intatto mentre l’assemblea si squassava in un’enorme risata per lo scherzo fatto a Scelba, perdente, dal deputato comunista Velio Spano dietro consiglio del suo malevolo compagno Giancarlo Pajetta. Severo e dignitoso, nascondendo benissimo il proprio divertimento, Gronchi placò le risa continuando a sillabare il proprio nome.»

Nel messaggio che lesse alle Camere l’11 maggio 1955, in occasione del suo giuramento, Gronchi non fece mistero del modo in cui concepiva le funzioni di Capo dello Stato, né degli orientamenti che avrebbe voluto dare alla politica italiana. Parlò di «un’ansia di rinnovamento» che pervadeva il Paese, ammonì che «nulla è possibile costruire in uno Stato senza il concorso del mondo del lavoro», ribadì che bisognava «far entrare i lavoratori nell’edificio dello Stato». Il quale Stato aveva non solo il diritto, ma il dovere, d’ingerirsi maggiormente nella gestione dell’economia, per «contrastare il predominio delle multinazionali in Italia, attuare una vera politica di programmazione democratica ed attenuare, anzi eliminare, i dislivelli sociali ancora persistenti nella realtà economico-sociale del Paese». «Abbiamo finalmente un Perón italiano» commentò Saragat «il Perón di Pontedera.» L’uomo era molto sicuro di sé. «Kerenski?... Se ne accorgeranno» disse a un parlamentare. Insistette sulla genuinità della sua elezione. E ad uno degli autori di questo libro dichiarò: «Sono contento del modo in cui questa investitura mi è venuta, ossia della quasi unanimità che mi rende indipendente da ogni partito e fazione».

Indipendente, forse. Invadente, di sicuro. Gronchi non perse occasione, da allora in poi, per esprimere le sue opinioni e le sue intenzioni che non sempre collimavano con quelle del governo: il che determinava una situazione ambigua, perché alla politica dell’esecutivo, che è responsabile di fronte al parlamento, si contrapponeva una politica del Capo dello Stato, per Costituzione irresponsabile. Tanto che proprio il vecchio fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo, senatore a vita, il 24 novembre 1955 presentò a Palazzo Madama un’interrogazione per sapere se e in qual modo il governo intendesse richiamare il Capo dello Stato al rispetto dei limiti che le sue prerogative avevano. Gronchi reagì tra lo stizzito e lo stupito: «Possibile che un Capo dello Stato non abbia il diritto di parlare? Non è possibile che la Costituzione preveda un Presidente della Repubblica impagliato. Ma io non mi faccio imbalsamare in questa gabbia, io son chi sono».

Gronchi aveva ereditato Scelba come Presidente del Consiglio, e aveva fretta di sostituirlo: convinto che l’operazione fosse facile perché Fanfani e Scelba erano stati gli sconfitti dell’elezione presidenziale, perché tra l’eletto e Concentrazione erano stati intrecciati (l’abbiamo visto) patti più o meno solenni, infine perché il governo doveva rassegnare nelle sue mani, secondo prassi, le dimissioni.

Con Scelba, Gronchi aveva un conto aperto. Pochi mesi prima, quando Piccioni s’era dimesso da Ministro degli Esteri, il Presidente della Camera aveva lasciato capire con chiarezza che gli sarebbe piaciuto succedergli.

«Venne a offrirsi» raccontò poi Scelba «e io gli dissi che la sua autocandidatura mi onorava, ma che non si potevano improvvisare conversioni e trasformazioni. Gli dissi: “Tu un mese fa, ad Anzio, hai pronunciato un discorso contro la NATO: e come puoi ora fare il Ministro degli Esteri? Sembra che si voglia fare un dispetto agli Stati Uniti. Se io sapevo di questo tuo desiderio si poteva preparare tutto, ma così non mi pare che si possa”.» Agli Esteri era infatti andato il liberale Gaetano Martino.

Adesso Gronchi era in posizione di vantaggio, pronto a rendere la pariglia. Aspettava Scelba al varco delle dimissioni – che avrebbe dovuto dare, non foss’altro che per un gesto di doveroso ossequio al nuovo Capo dello Stato – e meditava di rimpiazzarlo subito. S’è visto che un successore, Pella, era già alle viste. Ma Scelba era di tutt’altro parere. Corrado Pizzinelli ha così ricostruito il dialogo che tra i due si svolse al Quirinale.

Scelba: Sono venuto a rassegnare le dimissioni come at to formale d’ossequio al nuovo Capo dello Stato.

Gronchi: Cosa vuol dire atto formale d’ossequio?

Scelba: Vuol dire atto formale d’ossequio.

Gronchi: Ma allora ti dimetti o no?

Scelba: Dove sta scritto nella Costituzione che il Presidente del Consiglio si deve dimettere?

Gronchi: Ma questa è la prassi!

Scelba: Di quale prassi parli? Questa è la prima Repubblica. Quali precedenti ci sono? Nello Statuto albertino per caso?

Gronchi: Ma tu ti devi dimettere come hanno fatto gli altri.

Scelba: (traendo di tasca un libretto): E dove sta scritto nella Costituzione? Prego... (glielo porge).

Gronchi: Ma proprio lì...

Scelba: Niente affatto. Leggi l’articolo 94. Il governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Quindi è chiaro: la fiducia me l’hanno data le Camere e le Camere me la debbono revocare. È venuta per caso meno? Solo loro, caro Presidente, possono costringermi a dare le dimissioni e non tu. Quindi il mio è un atto formale d’ossequio e niente più.

Scelba restò, ma lo scontro era soltanto rinviato di poche settimane. Il detonatore della crisi ebbe l’etichetta del PRI che annunciò al Presidente del Consiglio, con una lettera, di non potergli più assicurare il suo appoggio esterno. Nulla era avvenuto, in parlamento, che denunciasse lo sfaldamento della maggioranza. Ma Gronchi prese la palla al balzo: e in nome della logica partitocratica, disse a Scelba che il suo governo non aveva più i consensi necessari, e che doveva ritrovarli, o defungere.

Nella circostanza, Gronchi ebbe, per uno di quei giri di valzer che nelle vicende intestine dei partiti sono così frequenti, la solidarietà di Fanfani. Concentrazione si stava disgregando: e l’uscita di scena di Mario Scelba liberava Fanfani della presenza ingombrante dell’ultimo notabile della vecchia guardia scampato al terremoto provocato dal caso Montesi. Alle undici di sera del 21 giugno 1955 Aldo Moro, alla testa d’una delegazione DC, portò a Scelba il verdetto del Partito, che era un verdetto di condanna. La segreteria invitava il governo a «dare le dimissioni per permettere di esaminare la situazione creata dal distacco del PRI. L’indomani Scelba consegnò a Gronchi le sue dimissioni, questa volta sostanziali.

Il governo che Antonio Segni formò dopo una crisi durata un paio di settimane, e contrassegnata come di consueto da preannunci di fallimento e da subitanee schiarite, fu uno dei più longevi del dopoguerra. Durò 679 giorni, dal luglio del ’55 al maggio del ’57. Ebbe una connotazione centrista, anche se i repubblicani, che avevano fatto deflagrare la crisi, rifiutarono di entrarvi. Saragat ebbe la vicepresidenza del Consiglio, agli Esteri andò il liberale Gaetano Martino, alle Finanze l’immancabile Andreotti, alla Giustizia Aldo Moro.

La vera novità di questa compagine fu l’assegnazione d’uno dei dicasteri più importanti, gli Interni, al rampante Fernando Tambroni, contro il quale s’appuntavano già molte diffidenze, tanto che Nenni annotava sul suo diario: «A questo (di Tambroni) proposito Segni dice di non aver potuto fare diversamente. Non ha salute per reggere il peso degli Interni. Moro non ha voluto o potuto. Sorveglierà Tambroni. (Per la verità sarà Tambroni a sorvegliare lui.)».

I socialisti avevano manifestato verso il nuovo governo una generica «disponibilità per una politica di rinnovamento». La definirono anche «opposizione propulsiva». Segni, che appariva fragile ma aveva soprassalti di risolutezza, si accinse alla nuova fatica con ostentato scetticismo. «Se non va, torno alla mia università» andava ripetendo. Intimamente conservatore, prestava tuttavia orecchio a chi voleva accentuare il ruolo «pubblico» nell’economia. Pochi giorni dopo il suo insediamento come Presidente del Consiglio presentò infatti un disegno di legge per l’istituzione del Ministero delle Partecipazioni statali.

Mancava, nel provvedimento, la disposizione più fortemente voluta dalle sinistre, e più decisamente avversata dalla Confindustria (la cui leadership stava passando dal prudente e morbido Angelo Costa al duro Alighiero De Micheli), ossia l’autonomia sindacale «pubblica». In pratica, si trattava di sottrarre le aziende di Stato alla disciplina confindustriale, e di assoggettarle a un regime proprio. Questo, si asseriva, per impedire lo strapotere del capitale.

Senza voler sottovalutare l’influenza della grande imprenditoria e della grande finanza sul Palazzo, resta il sospetto che i promotori dello «sganciamento» sindacale dell’IRI non fossero mossi da stimoli disinteressati e virtuosi. Si vide in seguito che le aziende pubbliche, sciolte dai legami con l’industria privata, s’andarono sempre più politicizzando, e diventarono facile preda dello strapotere sindacale e di quello partitico.

Il disegno di Segni, ripetiamo, non disponeva nulla in proposito. Ma i parlamentari socialisti e comunisti, e anche i sindacalisti democristiani, provvidero a proporre emendamenti che mettessero riparo alla lacuna. Fu accolto un emendamento di Giulio Pastore, democristiano e sindacalista: esso disponeva che entro un anno dalla creazione del nuovo Ministero sarebbero cessati «i rapporti associativi delle aziende a prevalente partecipazione statale con le organizzazioni sindacali degli altri datori di lavoro». Le resistenze al progetto furono via via vinte, e finalmente nel novembre del 1957 il ministro delle Partecipazioni statali Giorgio Bo, legato a Gronchi e a Enrico Mattei, dispose con una circolare perentoria che «è necessario che tutte le aziende e società interessate provvedano immediatamente, ciascuna nella propria competenza, in obbedienza al comando legislativo».

Era una vittoria sonante per il boss dell’ENI, che in quei mesi – precisamente il 16 febbraio 1956 – aveva perduto uno dei suoi più fidati amici e il suo più autorevole sostenitore politico, Ezio Vanoni, stroncato da un malore poco dopo un intervento nell’aula del Senato. Ansioso di trovarsi un grande protettore che valesse quello perduto, Mattei si rivolse, la sera stessa del funerale, ad Andreotti. Secondo il racconto di Italo Pietra gli disse: «Le offro un cane da tenere a guinzaglio. È un purosangue dei cani, ha addirittura sei zampe, ma non può fare a meno di una guida. Perduto Vanoni, il grande problema è questo: se uno come me non ha un solido rampino politico è a terra».

Ma Andreotti, che militava allora nella destra della DC, disse di no alla sua maniera felpata. «Non ho mai avuto dimestichezza coi cani. Da ragazzo, abitavo in una casa senza giardino e senza orto, c’era da pensare a ben altro che ai cani. Lei è tanta parte di una corrente, la Base, che è un rispettabile rampino e che sta a sinistra, molto lontano da me.» Mattei non si lasciò impressionare per così poco, e ribatté sicuro: «Quelli (della Base) li faccio cambiare io in quattro e quattr’otto». Ma Andreotti fu irremovibile: «Il guinzaglio è fuori discussione. E non c’è bisogno del mio appoggio per le cose buone che lei intende fare. Al momento buono, tutte le persone oneste e obiettive le daranno una mano».

Non per questo Mattei si sentì proprio orfano. Rampini ne aveva, comunque. Segni stesso gli dimostrava stima. Il 12 aprile visitò solennemente Metanopoli, la creatura matteiana alle porte di Milano, e disse: «Noi continueremo in questa attività statale che serve ad equilibrare il potere dei grandi monopoli. Lo Stato non può lasciarsi sopraffare dalle forze economiche accentratrici».

Sempre ansioso d’avere solidi appigli, e solide armi per assicurarseli, Enrico Mattei si fece editore, tra la primavera e l’estate del 1956. A Milano era sopravvenuto, nell’editoria quotidiana, un avvenimento rivoluzionario: dopo alcuni tentativi fiacchi e abortiti dell’immediato dopoguerra, una nuova testata s’era alzata a contrastare il virtuale monopolio del «Corriere della Sera», affidato alle curatissime e morbide mani di Mario Missiroli. «Il Giorno» – questo il nome del quotidiano anticonformista che vide la luce il 21 aprile del 1956 – fu il frutto di una combinazione alla quale Mattei parve all’inizio formalmente estraneo. Demiurghi noti dell’operazione furono Gaetano Baldacci, inviato speciale del «Corriere della Sera», siciliano di non scorrevole prosa ma d’intelligenza viva, di piglio arrogante, di grande spregiudicatezza manovriera; e Cino Del Duca. Era quest’ultimo un marchigiano – come Mattei – di famiglia e di convinzioni socialiste e antifasciste che, emigrato in Francia, vi aveva fatto fortuna con la presse du coeur, la stampa popolare e dolciastra che anche in Italia stava ottenendo successo. «Nous deux» tirava due milioni di copie, un milione «Intimité», quattrocentomila «Bolero». Nelle discussioni che precedettero il lancio del «Giorno» ebbe una parte Leo Longanesi, che con la prodigalità di talento che lo contraddistingueva suggerì alcune idee preziose.

«Il Giorno», dalla testata pariniana e puritana – benché poggiasse sui miliardi di Del Duca e sul petrolio di Mattei –, volle essere l’anti-«Corriere». «Fondi» brevi e secchi – uscito di scena Baldacci questa norma, che era buona, andò perduta –, fotografie in abbondanza, niente terza pagina, poca letteratura, tanta cronaca, vistose concessioni al gusto popolare, inserti, supplementi. Una formula che senza dubbio anticipò alcune strategie dei quotidiani nei decenni successivi, e che ebbe un discreto successo di vendita, riuscendo ad aprire brecce nel fortilizio un po’ sguarnito del colosso di via Solferino.

Ma alla riuscita diffusionale corrispose un disastro gestionale. «Il Giorno» divorava milioni con un appetito che neppure il ricchissimo Del Duca sarebbe stato in grado di saziare a lungo. In pochi mesi se n’era andato in fumo mezzo miliardo (nel 1956!). Del Duca lasciò senza rimpianti, e la sua Società editrice lombarda fu incamerata da un’entità finanziaria innominata e introvabile. Le voci secondo le quali la SEL aveva in dote 134 ettari di terreno a San Donato Milanese – che con l’espansione edilizia promettevano di diventare una fortuna immensa – la diceva lunga sul potentato che stava nell’ombra alle spalle del quotidiano. Ma ufficialmente il governo stesso non sapeva quasi nulla, e il pochissimo che sapeva smentiva ogni ipotesi che attribuisse la proprietà all’ENI. Ancora nel 1958 Adone Zoli – Presidente del Consiglio – dichiarava a Montecitorio: «Si può escludere che l’ENI e le società da esso dipendenti posseggano partecipazioni azionarie nella SEL, né risulta che ne possegga l’ingegner Mattei in proprio». Zoli era un’eccellente persona, e un galantuomo, ma fu costretto a dire le bugie. Un anno dopo Ferrari Aggradi, Ministro dell’Industria del momento, ammise – era ora – che «Il Giorno» era stato acquistato dalla società Sofid del gruppo ENI.

Mattei non aveva aspettato così a lungo per valersi, con discrezione, delle possibilità di pressione e di allettamento che il quotidiano gli consentiva. A Gronchi diceva suadente: «Giovanni, da questo giornale non dovrai temere attacchi», a Nenni confidava con aria complice: «Per lei ho fatto quello che nessuno ha fatto, cioè “Il Giorno”». Le polemiche divampavano: l’ENI aveva come compito statutario la ricerca e lo sfruttamento del metano e del petrolio, non il finanziamento d’un quotidiano fortemente passivo; ma in definitiva lasciarono, e continuano a lasciare, il tempo che trovano.