Il governo fanfaniano delle «convergenze parallele», cui Moro aveva assegnato il compito di «restaurare la democrazia» incrinata dall’esperienza Tambroni, sopravvisse alle elezioni amministrative del novembre 1960, ma già con qualche turbamento, e con evidenti segni d’avvio del centrosinistra aperto ai socialisti.
Nella consultazione amministrativa la DC aveva subìto un calo, in confronto alle politiche del ’58. Nulla di catastrofico, ma un segnale d’allarme (dal 42,4 al 40,3 per cento). Il miglior risultato era stato ottenuto dal PCI, protagonista d’una delle sue molte resurrezioni (dal 22,7 al 24,5), il peggiore dai monarchici, che erano stati quasi dimezzati (dal 4,8 al 2,9) ed avevano ceduto una parte notevole del loro elettorato al Movimento sociale. Nenni disse alla Camera, a risultati acquisiti, che il benevolo attendismo dei socialisti era finito, e che bisognava riconsiderare la situazione.
Intanto a Milano (nel gennaio del 1961), a Genova (in febbraio) e a Firenze (in marzo) erano varate giunte locali con l’inserimento organico del PSI. Questa novità, che era di rilievo, provocò una protesta vibrata di esponenti e organizzazioni cattoliche. Il cardinale Siri scrisse a Moro per esprimergli il suo addolorato stupore di fronte a cedimenti democristiani che considerava deleteri per il Paese. I liberali si trovarono in una posizione di evidente disagio. Capivano che la caduta del monocolore di Fanfani – la cui azione s’accordava sufficientemente con i desideri del PLI – avrebbe aperto la strada a sbocchi politici sfavorevoli: e d’altro canto non potevano rimanere inerti mentre si moltiplicavano le avvisaglie d’una svolta a sinistra.
Fanfani viaggiava. Nel giugno del 1961 andò a Washington e riuscì a conquistarsi la simpatia del presidente Kennedy che disse: I like that fellow, questo tipo mi piace. Ai primi di agosto era a Mosca per un incontro con Kruscev che fu meno tempestoso di quello di Gronchi, ma altrettanto inconcludente. Segni, Ministro degli Esteri, accompagnò Fanfani quasi senza interloquire, e guardandosi bene dall’approvare. L’Italiano e il Russo parlarono di varia umanità, e Fanfani chiese a Kruscev se avesse letto l’enciclica Mater et magistra di Giovanni XXIII. Non l’ho letta, rispose Kruscev, e Fanfani gli domandò come facesse a occuparsi di pace con quella vistosa lacuna. Kruscev obiettò che non aveva letto tutta l’enciclica, ma conosceva il passo riguardante la socializzazione.
Da Mosca Fanfani tornò con la convinzione che fosse opportuno negoziare con i Sovietici: ma fu colto di sorpresa dalla brutale decisione con cui Mosca, il 13 agosto 1961, deliberò la divisione definitiva di Berlino e la costruzione del famigerato muro. Non si sarebbe arrivati ai fatti compiuti, si lamentò Fanfani, se gli alleati l’avessero ascoltato. Ebbe uno scambio di lettere con Kruscev, e il 28 agosto diramò tramite l’ANSA una nota polemica in cui spiegava che Kruscev aveva accolto «l’invito espressogli dall’onorevole Fanfani di dar corso a trattative sui problemi internazionali dell’attuale momento tra i governi alleati e l’Unione Sovietica».
La DC procedeva, nelle mani esangui di Aldo Moro, verso un Congresso il cui compito – non esplicitamente enunciato ma da tutti conosciuto – era di avallare l’apertura ai socialisti a livello nazionale. Un convegno democristiano a San Pellegrino, nel settembre del 1961, aveva posto le basi ideologiche del gran passo. Il sociologo Achille Ardigò vi aveva tracciato le linee d’una politica democristiana che fondesse gli ideali della socialdemocrazia avanzata con quelli della tradizione popolare cattolica. In novembre fu certo che il Congresso sarebbe stato tenuto a breve termine. Moro si sentiva in grado d’affrontarlo nelle migliori condizioni. S’era anzitutto dissipato il timore che Gronchi potesse profittare d’una crisi per sciogliere le Camere: in ottobre era cominciato il periodo finale di sei mesi del suo mandato, durante il quale questa facoltà gli era preclusa. Nessun colpo basso poteva ormai arrivare dal Quirinale. Inoltre la maggioranza detta degli «amici di Moro e Fanfani», nella quale erano confluiti i dorotei, contava su un buon ottanta per cento dei prevedibili consensi.
All’opposizione era ancora Mario Scelba, attorno al quale s’era aggregato circa il venti per cento del Partito. Ma il «destro» Andreotti, con uno dei «salti della quaglia» che hanno caratterizzato tutta la sua carriera politica, s’era spostato nell’area vincente. Ruggero Orfei, il suo biografo, ha così illustrato il giro di valzer andreottiano: «Andreotti riuscì a entrare nel Congresso di Napoli in modo storico. Ebbe la finezza di definire il discorso del segretario del Partito “un’enciclica intitolata Casti connubi ”. Un sorriso, una boutade, una bottarella sulla spalla, e il centrosinistra aveva l’assenso dell’uomo da tutti considerato come il vaticanesco oppositore dell’apertura a Sinistra».
Davanti all’assemblea dei delegati, che si riunì il 27 gennaio 1962 a Napoli, Fanfani pronunciò un discorso alla Fanfani. Molte delle sue affermazioni erano sensatissime. «Il Paese cresce» gridò «e i Partiti rischiano di restargli indietro.» Aggiunse che il cattivo funzionamento dei servizi pubblici diventava sempre più insopportabile, e che prima d’affidare all’amministrazione nuovi compiti si doveva essere certi che riuscisse a svolgere quelli che già le erano affidati.
Sottolineò la sua chiaroveggenza. «Ho avuto» disse «anche la sorpresa di vedere citate e stampate ad onore alcune delle mie affermazioni del ’56 e del ’58. Peccato – l’ho detto anche interrompendo Andreotti – che chi ora mi cita e mi approva, quando dicevo quelle cose da segretario del Partito, non mi citava e non mi approvava.»
Il compito di tracciare le nuove direttive del Partito spettava tuttavia all’altro capolista degli «amici», Aldo Moro: che parlò per sei ore, trascinando l’assemblea in un labirinto di distinguo, di tesi e antitesi, di premesse e di subordinate, ma in definitiva annunciò che il PSI poteva, anzi doveva essere accettato. Il passo più esplicito, pur nelle sue cautele, della relazione – che non prevedeva la partecipazione dei socialisti al governo – fu il seguente: «È una prospettiva (quella del centrosinistra) che attende, nella difficile situazione italiana dove sono grandi punti interrogativi e scadenze serie ed urgenti, un processo di conseguente attuazione, il quale non significa imprigionamento del PSI in una qualsiasi maggioranza di comodo o la deformazione delle linee essenziali e della funzione del Partito, il che tra l’altro non gioverebbe alla democrazia italiana, ma il superamento dell’influenza presente (e del sospetto di essa) da parte del PCI, per rendere il PSI, nella sua integra fisionomia, totalmente disponibile al servizio della democrazia italiana. Ma questo è il discorso di domani: il discorso di quella alleanza politica organica, di quel reale collegamento, di quella appartenenza ad una comune maggioranza che il Congresso di Milano [del PSI, N.d.A.] esclude, come lo esclude, allo stato delle cose, la DC, nella constatazione della rigida impostazione classista del PSI, del suo tormentato processo di totale e effettivo distacco dal PCI, dell’inevitabile peso di talune radici comuni tra i due Partiti nella prospettiva di politica estera». Per coloro che erano riusciti a seguirlo, questo esercizio contorsionistico voleva significare che il PSI era maturo per un ingresso nella maggioranza, non ancora per un ingresso al governo.
Il Congresso si concluse il 1˚ febbraio. L’indomani Fanfani presentò a Gronchi le dimissioni del governo, e si mise all’opera per formarne uno nuovo, ispirato alla filosofia del Congresso di Napoli. Da tre settimane di consultazioni e trattative uscì una coalizione DC-PSDI-PRI con l’appoggio esterno dei socialisti. Scelba e Pella rifiutarono di partecipare al governo che ebbe come vicepresidente Piccioni, come Ministro degli Esteri ancora Segni, come Ministro degli Interni Taviani, e poi Andreotti alla Difesa, La Malfa al Bilancio, il socialdemocratico Tremelloni al Tesoro.
Tra i sette punti programmatici del governo, elaborati d’intesa con il PSI, erano l’attuazione degli organi di autogoverno nelle quattordici regioni a statuto ordinario che ancora ne mancavano, la scuola media unica, l’eliminazione delle industrie elettriche private, la fedeltà alla NATO. Su quest’ultimo punto Nenni si pronunciò nettamente: «Noi non abbiamo mai sollevato il problema del ritiro dalla NATO per due motivi. Il primo perché far questo significherebbe per noi essere accusati di demagogia, secondo perché ritirarsi nelle condizioni attuali significherebbe turbare l’equilibrio europeo che, pur essendo pericolosamente instabile, contribuisce al mantenimento della tregua tra i due blocchi».
La battaglia pro o contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica – la cui prima fase terminò il 16 giugno 1962 quando Fanfani presentò la legge che sanciva la nazionalizzazione stessa – fu insieme economica, politica ed ideologica. Scontata la volontà nazionalizzatrice dei comunisti, prigionieri dei dogmi collettivisti e dirigisti, v’era nei socialisti una decisa spinta all’attuazione del progetto: che doveva essere un segnale, e in certo modo il simbolo, dell’ingresso socialista nella stanza dei bottoni. Portabandiera della nazionalizzazione era, nel PSI, Riccardo Lombardi. Onesto, serio, intransigente, Lombardi portava in questo scontro la passionalità fredda e l’astrattezza che caratterizzavano, con lui, il Partito d’azione dal quale proveniva. V’era in Lombardi un fondo puritano, un’avversione istintiva per la ricchezza, per il profitto, per quest’Italia del boom nella quale la lira stava per meritare l’Oscar delle monete assegnato dal «Financial Times». Lombardi rivestiva i suoi ragionamenti di cifre e previsioni apparentemente impeccabili e sostanzialmente fragili: ma al fondo del suo pensiero era una volontà punitiva verso il grande capitale. Per questo, pur consapevole com’era della inefficienza statale, e dell’incapacità della macchina burocratico-amministrativa di far fronte agli impegni che già aveva, si batté per la nazionalizzazione, respingendo formule meno traumatiche, pur suggerite con insistenza (da Guido Carli tra gli altri): come l’irizzazione delle industrie elettriche, che avrebbe consentito di trasferirle alla proprietà pubblica in maniera pressoché indolore, conservando loro caratteristiche gestionali «private».
Sulla barricata opposta era la Confindustria, che non rappresentava però tutta l’industria, e nemmeno il gruppo in essa dominante, la FIAT. Valletta, che per la nazionalizzazione elettrica aderì alle tesi confindustriali, se ne distaccava invece di fronte alla prospettiva del centrosinistra. Alla testa della Confindustria era stato posto Furio Cicogna, ex presidente dell’Assolombarda e della Châtillon: e preferito in quel momento dalla maggioranza degli industriali ad Angelo Costa, che la FIAT e la Montecatini avrebbero voluto rilanciare. Costa fu vicepresidente, insieme ad Alighiero De Micheli. Questo triumvirato s’era politicamente orientato in favore dei liberali, sganciandosi più o meno accentuatamente dalla DC considerata esitante e poco affidabile in una situazione di scontro frontale.
Ma Valletta aveva preso le distanze dalla dirigenza confindustriale dichiarando che «il governo di centrosinistra è un frutto dello sviluppo dei tempi. Non si può, e non si deve, tornare indietro». Aggiungeva il grande vecchio della FIAT: «Si commettono gravi errori non solo da parte dei sindacati ma anche da parte della Confederazione dell’industria. È mia impressione peraltro che quanto prima ambienti all’interno dell’organizzazione padronale faranno pressioni sui responsabili dell’attuale politica confindustriale affinché siano abbandonate certe posizioni di principio troppo rigide».
L’allarme degli industriali non derivava solo da ciò che la nazionalizzazione significava come principio (e i socialisti, con il loro solito vezzo di minacciare jatture mai verificatesi e di suscitare allarmi gratuiti, affermavano che, benché non fossero in vista altre misure del genere, non era escluso che venissero successivamente prese in considerazione); derivava anche dalle conseguenze dell’arrivo sul mercato del denaro delle somme ingentissime fissate per i risarcimenti. Somme che avrebbero consentito l’avvio di iniziative concorrenziali.
La Confindustria portò numerose pezze d’appoggio nella sua opposizione alla nazionalizzazione elettrica: rilevando altresì – dalle colonne del «Sole 24 ore» – che «la maggioranza della classe politica cattolica oggi vuole deliberatamente tentare le vie di una trasformazione sociale del Paese in cui la rappresentanza degli interessi, dei costumi, degli ideali della borghesia e soprattutto della borghesia più evoluta del Paese, che è quella della pianura padana, sia sistematicamente messa in minoranza».
La nazionalizzazione passò, e fu approvata dalla Camera, il 27 novembre 1962, con 371 voti favorevoli e 57 contrari.
Alle società espropriate fu concesso un indennizzo equo, che si tradusse in denaro fresco, millecinquecento miliardi buttati in iniziative il più delle volte disastrose. Prevalse così la tesi più favorevole alle società, in contrasto con quella, propugnata da La Malfa, secondo la quale il risarcimento doveva avvenire con il rilascio di obbligazioni agli azionisti. Cinquecento imprese finirono immediatamente nel calderone dell’ENEL, in attesa che altre centocinquanta circa ne seguissero la sorte. Nenni riconobbe che «sul piano finanziario l’operazione presenta dei rischi». Non solo sul piano finanziario, come presto si vide. «L’ENEL» ha scritto Italo Pietra nella sua biografia di Moro «dovrebbe essere un modello, una bandiera, un faro del nuovo corso voluto dal centrosinistra e inaugurato dalla nazionalizzazione: diventa ben presto la pratica dimostrazione di ciò che non deve essere il centrosinistra e di come non si devono fare le riforme.»
Per la nomina del Presidente fu subito rissa. La Malfa voleva il tecnico Felice Ippolito, Moro voleva l’avvocato Di Cagno, ex sindaco di Bari, e vinse. I socialisti dovettero accontentarsi d’una vicepresidenza, e Pertini sbottò: «Basta una poltrona ormai per placarci?». Un posto di consigliere toccò, non casualmente, a Sereno Freato, l’uomo di fiducia di Moro. Per evitare che il personale dell’ENEL creasse problemi furono elargiti a tambur battente sessanta miliardi in aumenti di stipendi e di salari. L’Ente che avrebbe dovuto incamerare i pingui profitti che prima finivano nelle casse delle società elettriche si avviò verso i bilanci in rosso. L’utopista Lombardi, che s’era comportato – la similitudine è di Piero Ottone – come Raskolnikov il quale «uccise una vecchia per dimostrare a se stesso d’essere un superuomo», era servito.
Nel quinquennio 1959-1963 il «miracolo» italiano, che già s’era sviluppato con vigore nei primi anni Cinquanta e che poi aveva sofferto una breve flessione, riprese con slancio moltiplicato. La mutazione del Paese, ch’era stata ininterrotta dopo il periodo della ricostruzione, ebbe connotazioni impressionanti. Era un’altra Italia quella che si andava delineando sotto gli occhi d’una classe politica troppo impegnata nelle sue piccole o grandi manovre, e nei suoi disegni bizantini, per avvertire la rivoluzione in atto: che era economica, sociale, e culturale in senso lato.
Una spinta determinante ai cambiamenti fu data dall’entrata in vigore, il 1˚ gennaio del 1958, delle norme CEE che riducevano gradualmente i dazi tra i sei Paesi allora membri della comunità. Gli industriali italiani, molti dei quali avevano atteso questa scadenza con angoscia, lanciando gridi d’allarme, videro aprirsi nuovi sbocchi per i loro prodotti. Infatti, tra il 1959 e il 1962, le esportazioni verso la CEE crebbero in percentuale dal 28 al 35 per cento del totale. Le statistiche facevano registrare primati italiani a catena. La produzione industriale – fissato a 100 il livello del 1958 – era a quota 142 nel ’61, a quota 156 nel ’62, a quota 170 nel ’63: tutto il resto della CEE era rimasto distanziato. Gli investimenti lordi aumentavano del dieci e più per cento ogni anno, il volume del commercio estero si espandeva gagliardamente (nel 1961 era pari a 181 rispetto a 100 nel 1957).
I salari furono molto migliorati (in valore reale, depurato dell’inflazione): secondo dati CEE, avevano avuto un incremento dell’80 per cento in un quinquennio. «In talune categorie specializzate» ha scritto Norman Kogan, che a questi temi ha dedicato pagine esaurienti «i salari offerti erano talmente alti che superavano quelli corrisposti in Germania, e questo incoraggiò in certa misura il ritorno degli emigrati.» Si assistette in quel periodo allo spettacolo paradossale degli imprenditori italiani che inviavano i loro incaricati alle stazioni ferroviarie, perché accogliessero e ingaggiassero gli operai rientranti, necessari alle loro fabbriche. Il numero delle automobili in circolazione si moltiplicava, e di pari passo si moltiplicava il numero degl’Italiani che prendevano la patente di guida: 358.000 nel 1958, 1.250.000 nel 1962.
Questo flusso motorizzato ingolfava strade troppo anguste, anche se fu allora completata l’autostrada del Sole, da Milano a Napoli (e già erano stati avviati i lavori per il prolungamento fino a Reggio Calabria). Fu poi affermato che gli investimenti autostradali, decisi in ossequio alle esigenze e alle direttive della FIAT, avevano pregiudicato gli investimenti nel settore ferroviario, rimasto vecchio e inadeguato. Si può convenire sulle carenze del sistema ferroviario italiano. Ma forte è il sospetto che, se anche non si fosse posta mano alle autostrade (con la formula Iю, o di società autonome, che si rivelò ottima) l’Italia si sarebbe egualmente tenute le sue inefficienti e parassitarie ferrovie, e non avrebbe avuto le sue eccellenti autostrade.
È vero che gli stessi dati possono essere letti in modo diverso: e per Sergio Turone, studioso della storia sindacale, la produttività industriale migliorò, negli anni del «secondo miracolo», assai più dei salari, cosicché «il peso della ricostruzione postbellica e del rilancio economico gravò per intero sui sindacati».
Opinione rispettabile, ma troppo drastica. Solo chi non avesse occhi per vedere poteva sostenere allora, che il tenore di vita degl’Italiani non si elevava, e a ritmo rapido, in tutte le fasce sociali. Resta ferma una constatazione, valida allora come venti o trent’anni dopo: una famiglia di quattro persone nella quale si abbia un solo reddito da lavoro fatica a tirare la fine del mese. Questo «caso», che a titolo polemico si vuole presentare come generalizzato e costante, è nella realtà italiana un’eccezione. Il che non rendeva e non rende meno acuto il disagio di chi si trova in quella situazione: ma non deve far dimenticare i milioni di famiglie con più salari, o con il doppio lavoro, o con redditi sommersi (si pensi agli operai, per la verità privilegiati, di talune zone agricolo-industriali del Veneto o della Lombardia o dell’Emilia, che hanno il loro campo, e il lavoro in fabbrica).
L’abbandono dell’agricoltura come unica attività divenne, negli anni di cui ci occupiamo, fuga massiccia: il che era un segno d’adeguamento e di razionalizzazione delle attività produttive: ma era anche la causa di gravi scompensi e disadattamenti. L’inserimento dei nuovi inurbati era reso più difficile da una norma di legge che richiedeva fosse dimostrata l’esistenza d’un rapporto di lavoro per la concessione della residenza: il che creava una sorta di circolo vizioso (la norma fu poi abrogata). «Durante il quinquennio del boom» ha osservato Kogan «abbandonarono l’agricoltura per cercare lavoro nell’industria e nei servizi 1.380.000 persone, circa il doppio di quelle che avevano abbandonato le campagne nel decennio precedente... Alla fine del 1963 la percentuale delle forze di lavoro occupate in agricoltura era scesa al 25,5 per cento.»
Il fenomeno si sarebbe determinato comunque. Fu tuttavia agevolato dal fallimento della riforma agraria d’impronta democristiana, concepita in modo vecchio, puntando sulla piccola proprietà contadina, destinata invece a declinare per far posto ad una agricoltura nello stesso tempo estensiva (per le dimensioni delle proprietà) ed intensiva (per i metodi di coltivazione). La piccola proprietà poteva sopravvivere solo se accoppiata ad una mentalità cooperativistica: che contrastava con l’indole diffidente e individualista del contadino italiano, soprattutto nel Meridione.
Dovunque la riforma si arenò o naufragò. L’esempio più drammatico d’insuccesso fu quello siciliano. La formula dei villaggi agricoli modello, che avrebbe dovuto creare molti nuovi proprietari, e redimerli dalla condizione bracciantile, fu rifiutata da chi doveva esserne beneficato. Nel 1964 ben 50 dei 54 villaggi modello che erano stati con grande dispendio realizzati risultavano abbandonati quasi del tutto. Paradossalmente, i contadini meridionali che riuscirono a proseguire nella loro attività, ricavandone alti guadagni, furono quelli che si trasferirono in talune zone del Nord, in particolare i floricultori insediatisi nel retroterra di Sanremo o di Imperia.Con i cultori dei fiori arrivarono in Liguria – come in Lombardia e in Piemonte – i cultori di altre meno encomiabili attività, i cascami di ambienti dominati dalla mafia, dalla ’ndrangheta, dalla camorra, dal padrinismo: esponenti della criminalità spicciola ed esponenti della criminalità organizzata. La Corte d’Assise d’Imperia che sonnecchiava senza lavoro divenne rapidamente una delle più attive d’Italia.
I massimi dirigenti dell’industria che – come Vittorio Valletta – avevano avviato questo gigantesco rimescolamento di popolazioni, di costumi, di culture, e che dilatavano i loro stabilimenti immettendovi centinaia di migliaia d’immigrati, non valutarono le implicazioni del fenomeno. Le Coree – ossia gli insediamenti suburbani delle metropoli, così chiamati dalla voce popolare che aveva fresco in mente il ricordo della guerra di Corea, e dei suoi profughi – nacquero, se non a loro insaputa, nella loro indifferenza. In fin dei conti non spettava a loro di programmare, arginare, educare, creare strutture urbanistiche e servizi: spettava ai governi, irresoluti e imprevidenti, dibattuti tra le richieste di libertà che s’opponevano a ogni freno e controllo dell’immane corsa verso il Nord, e le richieste di dirigismo onnipresente e onnipotente.
Lo strano è che le une e le altre provenivano a volte dalla stessa barricata «progressista», cosicché si arrivava a una sostanziale anche se sotterranea alleanza tra il laissez faire, laissez aller predicato dall’industria che accumulava profitti ingenti, e i garantismi liberali, o libertari, d’una parte della sinistra. Il risultato era una crescita potente e caotica, accompagnata da fenomeni economici degenerativi: come la speculazione edilizia – favorita dal lassismo delle autorità e dalla corruzione che consentiva la metamorfosi dei terreni agricoli in aree fabbricabili – che generò arricchimenti fulminei e colossali.
Si dovette arrivare al 1963 perché il governo tentasse d’intervenire nel processo di surriscaldamento dell’economia, che aveva generato sintomi preoccupanti d’inflazione. Dopo un periodo di sostanziale stabilità i prezzi salirono sensibilmente facendo segnare nel 1962 un 6 per cento in più rispetto all’anno precedente, e nel ’63 un altro balzo dell’8,7 per cento. Una forte stretta creditizia produsse, lo si vedrà meglio più avanti, il rallentamento dell’inflazione, ma anche un momento d’arresto in questa fase del miracolo.
Il rigoglio economico degli ultimi anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta portò alla ribalta una nuova generazione, o piuttosto una nuova «razza» d’imprenditori e di finanzieri, che s’affiancarono alle dinastie tradizionali e consolidate, gli Agnelli, i Pirelli, i Falck, i Volpi, tanto per citarne qualcuna. Se nel Meridione l’esemplare più insigne e pittoresco di questo capitalismo emergente e ruggente era Achille Lauro, a Milano esso ebbe i suoi campioni nei Riva, Giulio (il creatore) e Felice (il distruttore).
Giulio aveva intrapreso l’ascesa verso le vette facendo lo stradin «cioè» ha scritto Giorgio Santerini, biografo del figlio Felice «una via di mezzo tra il capo cantiere e il geometra progettista... un sarto delle strade e degli asfalti». Un buon matrimonio, e l’innata abilità negli affari, lo avviarono ad essere quello che sarebbe diventato: il proprietario d’un impero industriale e immobiliare, che aveva il suo fondamento nel Cotonificio Valle Susa. Il palazzo dei Riva, in via Borgonuovo 21, ossia nella Milano più esclusiva, aveva quattro piani più due seminterrati, trenta camere, un salone elicoidale, quindici bagni, un garage per quindici auto, due piscine, un campo da tennis, un rifugio antiatomico, giardini pensili. Appesi alle pareti quadri di Velázquez, Goya, Canaletto, Botticelli.
Giulio Riva era un manovratore quasi infallibile di pacchetti azionari (anche se qualche scalata troppo ambiziosa gli andò male): e non aveva mai badato ai mezzi pur di raggiungere i suoi fini. Una causa con il socio – diventato poi nemico – Giulio Brusadelli aveva avuto risvolti pochadistici, perché Brusadelli, volendo annullare una compravendita, aveva preteso che gli fosse stata «estorta» dalla bella e giovane moglie, istigata da Riva.
Nel 1959 Giulio Riva morì prematuramente, e il primogenito Felice gli succedette nella guida delle aziende. Anche in quel lutto improvviso si ebbero venature da commedia, a dimostrazione d’un certo modo di vivere e di pensare di questa nuova classe. Ha raccontato Santerini: «Giulio è appena spirato. La sua amante, la nota signora che aveva lasciato il marito per lui, vola verso la clinica sulla Mercedes che lui le ha donato. La donna gli vuole bene davvero: si precipita dentro l’ospedale e lascia la pelliccia in macchina. Quando la poveretta esce, sconvolta, non trova più nulla. Sono stati i figli del Giulio che hanno ritirato tutto: auto e visone».
Felice Riva volle imitare il padre: anzi superarlo. Si mise in concorrenza con i miliardari collaudati, come gli Agnelli. Se Gianni aveva la Juventus, Felice volle avere il Milan: incalzava con i suoi consigli e ammonimenti Gipo Viani, l’allenatore. Voleva volare alto, in ogni campo, aggirando con le sue trovate finanziarie le vecchie volpi delle banche, insegnando il calcio a chi ne era sempre vissuto, e precipitò. Quando il Cotonificio Valle Susa fece bancarotta, e Felice Riva, dopo l’arresto e qualche giorno a San Vittore, fuggì a Beirut – dove subì un altro e ben più brutale periodo di prigionia –, si concluse una storia a suo modo esemplare del boom – e controboom – dei ricchi.
L’Italia del miracolo fu anche questo. Luci e ombre, realizzazioni impensabili e scandali avvilenti, un progresso la cui rapidità non aveva precedenti nella storia dell’Italia unita – tranne forse quello dei primi anni giolittiani – e insieme le premesse del degrado urbanistico e delle convulsioni sociali.
Su questa Italia che correva con bruschi scarti e con qualche inciampo, i governi stavano in sella preoccupati di non essere disarcionati più che di tenere saldamente le redini e raggiungere una meta.