Gronchi si avviava alla scadenza del suo mandato, e ci si avviava male. Nelle piccole come nelle grandi cose, il Quirinale era diventato, con lui, un centro di potere ambiguo e chiacchierato, solenne nei formalismi, prepotente nei privilegi, invadente nella politica nazionale, meschino nelle ingerenze e sopraffazioni finanziarie. Gronchi aveva una fobia, tanto parossistica quanto ingiustificata, degli attentati: e Andreotti se lo fece nemico, per qualche tempo, replicando con un sorriso divertito a notizie secondo le quali paras francesi e italiani avrebbero organizzato il rapimento del Presidente per poi trasferirlo, su un sommergibile, chissà dove. Il servizio di sicurezza che egli pretese superava quello garantito all’insonne Mussolini, i semafori erano bloccati sul percorso della sua Flaminia quando, quattro volte al giorno, percorreva il tragitto tra la casa di via Carlo Fea e il Quirinale. Aveva una smania ossessiva di piacere e di impressionare, e il caso spesso lo puniva: come quando le telecamere fissarono una sua caduta, nel palco d’onore all’opera, perché qualcuno gli aveva, intenzionalmente o no, sottratto di sotto il sedere la poltrona.
Il chiacchiericcio attorno a lui s’era infittito fino a diventare coro. Gli amici di Gronchi l’alimentavano con la loro petulanza. Venivano segnalati per posti e prebende individui «vicini a un’alta posizione», «noti in alto», «amici del vertice». Alcune, come dire?, indelicatezze divennero leggendarie. Quella ad esempio del Gronchi rosa, francobollo d’una serie di tre emessi in occasione d’una visita di Stato in Perù, e ritirati perché contenevano un errore: tranne uno, quello rosa appunto lasciato per tre giorni in vendita, comprato dai bene informati a 205 lire e venduto a 250.000 come rarità filatelica.
Altre storie circolavano. Quella della svendita del patrimonio immobiliare e della catena di cinematografi dell’ECI, proprietà dello Stato, ceduti a privati sottoprezzo a rate e senza interessi: tutto per iniziativa del liquidatore dell’Ente, Torello Ciucci, amico di Gronchi e marito d’una sua amica. O quella secondo cui la caserma dei corazzieri in via XX Settembre sarebbe stata ceduta a privati per consentire la costruzione su quell’area di un grande albergo di cui imprecisati – o troppo noti – sarebbero stati i proprietari. Vi furono interrogazioni parlamentari – da aggiungere a quelle incessanti di don Sturzo – «per sapere come mai i tre consiglieri del Quirinale Giuseppe Mirabello, Francesco Cosentino e Antonio Cova, tutti molto vicini al Presidente, e il terzo suo intimo, avessero certi incarichi finanziari e un’intensa attività privata» (Domenico Bartoli).
Benché tanti sospetti e sussurri avessero appannato la presidenza Gronchi, un gruppo di democristiani ne voleva la conferma per un altro settennato. Non era numeroso quel gruppo, ma era potente perché godeva dell’appoggio politico e finanziario di Enrico Mattei. Ha scritto Renzo Trionfera: «Il petroliere Enrico Mattei gli [a Gronchi, N.d.A.] mise a disposizione un miliardo tondo: sarebbe stato speso per comperare voti in parlamento e simpatie esterne. Dell’opera di corruzione fu incaricato il generale Giovanni De Lorenzo, capo dei servizi segreti. Buste di decine di milioni furono distribuite tra grandi elettori di scarso scrupolo. Un residuo di quasi cento milioni venne offerto a un giornalista perché smettesse di combattere il vertice e i suoi amici... Di quest’ultima operazione, denunciata come tante altre, ebbe a occuparsi un procuratore generale definito di ferro che era sembrato deciso a far scattare molte manette. Non scattò nulla, tuttavia. Per le sue manovre Giovanni Gronchi si servì in modo spregiudicato del SIFAR... Il servizio segreto venne degradato alle più basse ruffianerie, politiche e non politiche. Fornì scorte ad amici ed amiche del presidente; schedò tutti i suoi possibili avversari e concorrenti».
Se una «dote» di impavidi democristiani era rimasta a Gronchi, gli mancava ormai quella di sinistra che l’aveva portato al Quirinale nel 1955. Comunisti e socialisti non erano più disposti a puntare sul suo nome. Scriveva Nenni: «Moro prevede che parecchi voti andranno a Gronchi. Per Gronchi io ho dell’amicizia, ma anche dei forti dubbi che attengono al principio stesso della rielezione, al suo gioco politico personale, ai centri di potere che ha lasciato sorgere attorno a sé. È certo comunque che una elezione concordata non porta a Gronchi, il quale potrebbe essere soltanto l’eletto di una maggioranza eterogenea, dai missini ai comunisti. Folchi mi ha raccontato questo episodio: l’ambasciatore sovietico nell’ultima visita a Gronchi si è accomiatato dicendo: “Verrò a salutarla il 2 giugno”. “Ma il mio mandato scade il 2 maggio.” “Ritengo che sarà ancora qui il primo giugno”».
Il segretario della DC, Moro, non condivideva il parere dell’ambasciatore. Il suo uomo era il settantenne Antonio Segni, sardo di Sassari, professore universitario di diritto, veterano della politica, considerato il miglior possibile candidato, in quel momento, per molte ragioni. La sua elezione avrebbe dato una soddisfazione ai dorotei, che vedevano con preoccupazione sia l’avvio del centrosinistra, sia l’approvazione della nazionalizzazione dell’energia elettrica, sia altre misure «progressiste» che il presidente del Consiglio Fanfani aveva incluso nel suo programma. Segni al Quirinale poteva dare un segnale rassicurante all’elettorato democristiano meno disposto ad aperture verso sinistra. D’altro canto l’uomo che aveva voluto le leggi di riforma agraria non poteva essere bollato come reazionario insensibile alle esigenze di socialità.
La candidatura di Segni per il Quirinale era stata conosciuta assai prima di diventare ufficiale. Ha raccontato Vittorio Gorresio che il 10 aprile (1962) Segni aveva visitato come Ministro degli Esteri la Norvegia e vi era stato accolto da un titolo di prima pagina del quotidiano «Dagbladet» che diceva: «Il nuovo Presidente d’Italia è a Oslo». E un sottotitolo spiegava: «Abbiamo l’onore di ospitare l’uomo che tra poche settimane sarà eletto alla Presidenza della Repubblica italiana». Quando i giornalisti gli chiesero cosa pensasse di quel pronostico, Segni si schermì con una delle sue risatine secche, finalmente rispondendo: «Devo dire che secondo la nostra Costituzione il Presidente viene eletto dal parlamento e non dai giornalisti».
Ben sapendo quanti e quali veleni corressero nella DC, Moro decise di chiedere ai gruppi parlamentari del Partito una votazione sulla candidatura: e ne fissò la data al 30 aprile, un lunedì, festa di Santa Caterina da Siena patrona d’Italia. Fu stabilito che gli scrutatori – per l’occasione lo stesso Moro, Benigno Zaccagnini e Silvio Gava – avrebbero proclamato solo il nome del designato, senza precisare il numero dei consensi raggiunti, né la posizione in graduatoria di altri esponenti DC. Le schede sarebbero poi state bruciate. Segni vinse. Si seppe tuttavia, attraverso le solite indiscrezioni, che a lui era andata circa la metà dei voti. Gli altri s’erano dispersi su vari nomi. Non era un inizio promettente. Anche Moro rischiava di fallire, come De Gasperi e Fanfani, nel tentativo di far accettare il candidato ufficiale del Partito.
Segni non aveva aspettato quel momento per accertare o sollecitare gli appoggi che gli erano necessari. Voleva il Quirinale: e lo voleva con la tenacia e la durezza nascoste sotto un’apparenza fragile. «Un uomo esile più che magro, un volto esangue, i capelli bianchi e soffici come la seta, una sciarpa bianca al collo quasi tutto l’anno, e due mani lunghe, affusolate, sempre sollecite a salutare la folla. In più due occhi melanconici, un sorriso benigno.» Così lo ha ricordato Nicola Adelfi. Era di salute cagionevole, e indossava un leggero soprabito anche nelle serate della Roma estiva. Vestiva senza ricercatezza, anzi con la naturale eleganza degli aristocratici. Alla vigilia della sua elezione un nobile toscano, il conte Augusto Gotti Lega, aveva pubblicato sulla «Nazione» un articolo in cui garantiva a Segni la qualifica di patrizio genovese per antico diritto di famiglia. Cortese con un’ombra di altezzosità – come si addiceva a chi era insigne, oltre che per il censo, anche per la cattedra universitaria – Segni sapeva essere pungente, e all’occorrenza tagliente. Ostentava il suo pessimismo, e ne chiariva le ragioni. «Amico mio,» disse al già citato Nicola Adelfi «io sono pessimista per abitudine. Però sinora non me ne sono mai trovato male. Vede, mio caro, io ritengo che un moderato pessimismo assicuri due vantaggi: da una parte mi impegna a lottare con maggiore energia. Dall’altra i risultati, quali che siano, appaiono poi migliori di quelli previsti.» Secondo Gorresio il pessimismo di Segni «rifletteva uno stato d’animo sospettoso, diffidente, irritato».
Nessuno potrebbe affermare, peraltro, che il pessimismo d’un democristiano candidato alla Presidenza della Repubblica fosse ingiustificato. Segni fece e ricevette molte visite in quei giorni: vide i Presidenti della Camera e del Senato per gli auguri della Pasqua, che cadeva il 22 aprile. Ma si parlò anche d’altro, ovviamente. Evitò i contatti con Moro, che era corretto e impenetrabile. Finalmente (2 maggio 1962) cominciarono le votazioni. Nella prima Segni ottenne 333 voti, ma i franchi tiratori DC si fecero vivi con 20 voti a Gronchi e 12 a Piccioni. Segni faticava. Ebbe 340 voti al secondo scrutinio, e 341 al terzo. Intanto comunisti e socialisti, che inizialmente avevano riversato i loro voti su candidati cosiddetti «di bandiera», facevano blocco con i socialdemocratici e i repubblicani per eleggere Saragat. Ma era un blocco poco solido, perché il PCI obbediva agli ordini di scuderia, ma il PSI era quasi allo sbando.
Nenni se ne rammaricava. «Giornata nera per il centrosinistra» scriveva nel suo diario il 2 maggio «e nerissima per il nostro Partito. L’elezione del Presidente della Repubblica era un compito difficile. Lo spirito di setta e la balcanizzazione del costume l’hanno terribilmente complicata. Saragat si è trovato coi voti comunisti, lui il campione dell’anticomunismo ideologico, e Segni coi voti liberali e la possibilità domani d’avere quelli fascisti, ma l’uno e l’altro senza nessuna ragionevole prospettiva di farcela. Ho anche l’impressione che oggi si siano bruciati i possibili personaggi di ricambio. Piccioni, che invece di tenersi di riserva si è buttato nella mischia, ha avuto cinquantuno voti che poi sono voti fanfaniani più qualche amico personale. Gronchi ha avuto quarantaquattro voti e se ne attendeva, a quanto dicono i suoi galoppini, quattro volte tanti. L’indisciplina democristiana ha creato una situazione in cui, a giudizio di Moro che ho visto stasera tardi, le posizioni di ricambio si avverano tutte pressoché impossibili. Il resto l’ha fatto l’indisciplina della minoranza socialista, parte per fanatismo (pensava che l’insuccesso di Saragat le servisse nella polemica interna), pochi altri forse per motivi meno nobili. Al primo scrutinio si era deciso di votare per Sandro (Pertini) ed è stato bene... Al secondo si era deciso con notevole maggioranza di votare Saragat, ma nel segreto dell’urna una cinquantina di compagni si sono astenuti o hanno votato diversamente. Non era mai successo. I minoritari hanno del resto avuto la lezione che meritavano e l’hanno avuta dai comunisti i quali hanno riversato i loro centonovantasei voti su Saragat, il quale tuttavia non è il candidato dei comunisti. Togliatti mi ha detto che il solo candidato possibile per i comunisti è Fanfani o alla peggio Gronchi, sono cioè guidati da esclusivi motivi di politica estera.»
Liquidati i primi tre scrutini, che esigevano una maggioranza di due terzi delle assemblee riunite, Segni salì a quota 396 grazie agli apporti dei monarchici e dei missini. La soglia dell’elezione era a 428 voti. Ma quest’aiuto da destra, che risolse alla lunga la situazione, fu di grande imbarazzo per Moro che, consultatosi con i presidenti dei gruppi parlamentari democristiani, stilò un comunicato dagli intenti chiarificatori. Vi si spiegava che «la piattaforma politica sulla quale l’elezione è stata proposta è di un deciso orientamento democratico, popolare, anticomunista e antifascista». Il segretario del MSI Michelini ribatté che la messa a punto non l’interessava. «Noi abbiamo votato per Segni e non per Moro. Per Moro non avremmo certo votato.»
La sera del 4 maggio tre dei maggiori esponenti della corrente dorotea, Emilio Colombo, Rumor e il sottosegretario Carlo Russo, fecero visita a Segni nella sua abitazione di via Sallustiana, e deliberarono di sostenerne la candidatura «fino all’ultima possibilità». Il che legava le mani a Moro, che per sua indole, e anche per i suoi disegni politici, sarebbe stato probabilmente disposto ad afferrare l’opportunità di cambio di cavallo che Saragat aveva offerto indirettamente alla DC. Con una lettera del 5 maggio che aveva per destinatari Togliatti, Nenni e Reale (ossia i leader dei partiti che, assieme al suo, il socialdemocratico, lo avevano sostenuto) Saragat scriveva: «Di fronte all’ingenerosa e impolitica intransigenza della DC nei miei confronti riaffermo la mia volontà di mantenere inviolato il principio che l’elezione del Presidente della Repubblica non deve essere il risultato di lotte interne di un Partito, ma della concordia dei Partiti dell’attuale maggioranza e, se possibile, d’una maggioranza anche più larga. Insisto quindi nel mantenere la mia candidatura. Ma riconfermo anche che se la DC si dichiarasse disposta a sedersi attorno ad un tavolo con i rappresentanti del Partito repubblicano, del Partito socialista e del mio Partito per concordare all’unanimità una nuova candidatura, non esiterò un istante a ritirare la mia».
Ancora una volta la DC rischiava di perdere per strada il suo candidato favorito. I liberali insistevano per l’intransigenza. Malagodi dichiarò che «il tentativo di portare al Quirinale il centrosinistra, ed anzi il Fronte popolare nella persona dell’on. Saragat, deve fallire e fallirà, e se il centrosinistra dovesse rimanere installato a Palazzo Chigi e in tanti comuni e province, a cominciare da Roma, bisognerà sloggiarlo». Con il che – e anche questo preoccupava Moro – la battaglia per la Presidenza diventava battaglia pro o contro il centrosinistra.
La Democrazia cristiana questa volta non mollò. Nell’ottavo scrutinio (chiuso alle sette di sera di domenica 6 maggio) Segni toccò i 424 voti, a un soffio dall’elezione. Un suo colloquio con il presidente del Consiglio Fanfani aveva prodotto frutti benefici: i franchi tiratori della corrente fanfaniana s’erano convertiti all’obbedienza. Fu frettolosamente indetta la nona votazione che rischiò di naufragare per un curioso incidente.
Quando cominciò la chiamata in ordine alfabetico dei votanti non tutti i senatori e deputati avevano ricevuto le schede. Fu subito il turno di Antonio Azara, democristiano, un magistrato ch’era stato primo presidente della Cassazione e Ministro della Giustizia, e che era senza scheda. Con improvvida sollecitudine un altro democristiano, Angiolo Cemmi, che nella vita privata era notaio, gli porse la scheda di cui era in possesso, e che recava a grandi lettere il nome di Segni. Azara la prese e l’imbucò senza esitazioni nell’urna. Ma due deputati comunisti avevano visto, e insorsero urlando «camorra!» mentre Leone e Merzagora, i Presidenti dei due rami del parlamento, cercavano di capire la ragione del trambusto. Finalmente Leone fu informato, sospese la seduta e ammonì Cemmi. Quindi ricevette Togliatti che aveva chiesto di parlargli urgentemente. In riassunto, Togliatti propose che la seduta fosse rinviata all’indomani, e che nel frattempo la DC riflettesse sull’accaduto, e sull’opportunità di rinunciare a Segni. Togliatti lasciò chiaramente intendere che se il candidato democristiano fosse stato lui, Leone, lo schieramento che fino allora aveva appoggiato Saragat gli avrebbe dato i suoi voti.
Leone – lo confessò tempo dopo a Vittorio Gorresio, attento cronista di questa vicenda – fu messo di fronte a un dilemma angoscioso. Il rinvio della seduta rientrava nei suoi poteri; e il Quirinale non gli dispiaceva di sicuro. Ma alla sua sensibilità di giurista, e anche alla sua esperienza di politico, erano chiare tutte le insidie che il suggerimento di Togliatti racchiudeva. Per l’opinione pubblica, e anche per la storia, Leone sarebbe stato l’uomo che aveva utilizzato le prerogative della carica per spianarsi la strada verso una carica ancor più prestigiosa. «Interesse privato in atti d’ufficio», a voler riassumere con la terminologia del codice. Perciò la gaffe dell’alto magistrato e del notaio – gli esperti sono sempre i più pronti a sbagliare – causò solo un interruzione.
Alle dieci di sera la votazione nonabis diede a Segni 449 voti. Era il quarto Presidente, eletto con i voti determinanti di monarchici e missini, mentre il governo si reggeva sui voti socialisti. Saragat e Segni, che la successione alfabetica voleva vicini nella votazione, non si strinsero la mano passando l’uno accanto all’altro. Avvenuta la proclamazione, «Segni subito lasciò Montecitorio» ha ricordato Gorresio «ed io lo vidi affilato, bianchissimo, tirati tutti i lineamenti in una maschera d’indifferenza. I suoi fidati amici gli fecero gli auguri sulla soglia del portone e lui rispose laconico con voce senza accento: “Buonasera”». Mattei era furioso per l’umiliazione subita del «suo» Gronchi: «Me ne vado da Roma» disse a un collaboratore «perché se rimanessi non so cosa farei, potrei fare del male addirittura all’ENI». E corse in automobile verso una riserva per la pesca delle trote.
Il messaggio che Segni lesse alla Camera l’11 maggio ebbe un tono ben diverso da quello gronchiano. Nenni diagnosticò: «Se lo stile è l’uomo, lo stile annuncia un Presidente notaio del parlamento, dopo Gronchi che aveva voluto essere il sollecitatore della vita pubblica nazionale e internazionale: e che in questo ruolo è fallito».
L’elezione di Segni al Quirinale non compromise la coalizione su cui si reggeva il governo Fanfani, ma la rese insieme più statica e più fredda. Nella Democrazia cristiana i dorotei, pungolati dallo scontro frontale per la Presidenza della Repubblica e impensieriti dalla vicinanza delle politiche previste per la primavera del 1963, premevano sul freno: e nel PSI i «carristi», ossia la sinistra che s’era opposta al passaggio del Partito nell’area della maggioranza, premevano sull’acceleratore sottolineando il «tradimento» della DC che aveva accettato i voti missini, e le inadempienze nell’attuazione del programma di centrosinistra. In realtà, mentre la nazionalizzazione elettrica faceva, come s’è visto, il suo corso, DC e PSI erano ai ferri corti per le regioni.
La DC, ch’era per tradizione regionalista, ora esitava a lanciarsi in un esperimento che aveva avuto anticipazioni inquietanti in quelle a statuto speciale, la siciliana in particolare (proprio in questi mesi era stata deliberata una Commissione parlamentare d’inchiesta per la mafia). Al contrario PSI e PCI, per tradizione unitari, s’erano convertiti al regionalismo più acceso. Dal PSI la DC esigeva un impegno a non formare giunte con i comunisti nelle regioni – Emilia-Romagna, Toscana, Umbria – in cui maggioranze di quel tipo apparivano non solo possibili ma altamente probabili. In risposta Nenni offrì la partecipazione diretta dei socialisti al governo per la prossima legislatura. L’offerta fu declinata. La DC voleva tenersi libera da impegni troppo vincolanti in vista d’una campagna elettorale nel corso della quale, era facilmente prevedibile, il leader liberale Malagodi avrebbe fatto suonare le campane a stormo per la disgregazione dello Stato e per la collettivizzazione dell’economia.
Quello che s’avvicinava alla prova delle urne era insomma un centrosinistra stanco e svogliato. Reso ancor più stanco e più svogliato da un incidente che sottrasse Nenni per un paio di mesi all’attività politica. A metà agosto (1962) il leader socialista trascorreva un periodo di vacanza a Cogne, in Val d’Aosta. Il 16 del mese aveva intrapreso tutto solo una lunga passeggiata. A mattinata inoltrata, sotto un sole molto caldo, sedette su un masso al bordo d’un torrente, e si accinse a leggere qualche pagina d’un libro che aveva portato con sé, Storia dell’idea d’Europa di Chabod.
«Mi ero messo a torso nudo» narrò poi Nenni «e ignoro se avessi o meno il basco. Una donna e una bambina, che poi ho saputo essere la signora Guatteri, parmense d’origine e abitante ad Aosta, mi sorpassarono. Debbo probabilmente a loro d’essere in vita. La signora mi vide precipitare e sparire nell’acqua impetuosa... Una seconda circostanza fortunata volle che le sue grida fossero udite da due giovani vercellesi, Pierangelo Sacchi (un compagno) e Giuseppe De Cecchi. Corsero, trovarono la passerella del torrente, mi raggiunsero, mi trassero fuori... I medici ritengono che sarebbe bastato un ritardo di quindici secondi perché fosse sopravvenuta la morte per annegamento.» I medici individuarono in un collasso cardiocircolatorio la causa della caduta. Nenni seppe allora quanto gl’Italiani, anche i non socialisti, magari anche gli antisocialisti, avessero in simpatia la sua bonarietà rustica, la sua emotività, le sue scoperte astuzie di tribuno, le sue intuizioni e perfino i suoi errori di politico. Quando il vecchio capopopolo riapparve in pubblico a Roma, il 7 ottobre 1962, per una manifestazione celebrativa del settantesimo anniversario del Partito socialista, le acclamazioni che l’accolsero ebbero una intensità d’affetto e di commozione che superavano di molto l’occasione ufficiale. Venti giorni dopo questo ritorno di Nenni vi fu il viaggio senza ritorno d’un altro protagonista: Enrico Mattei.
Lo schianto con cui il bireattore Morane Saulnier dell’ENI s’infranse al suolo, alle 19 del 27 ottobre 1962, nelle vicinanze di Bascapè, scosse il Palazzo italiano. Diverse ma tutte intense furono le reazioni alla catastrofe che aveva tolto di scena Enrico Mattei. Ci fu chi, costernato, vide svanire i suoi progetti e chi, sollevato, seppe che finalmente potevano avverarsi. Nessuno, tra gli appartenenti al mondo politico, parapolitico, economico restò indifferente. L’Italia perdeva un protagonista. A cinquantasei anni il grande e discusso demiurgo che aveva esercitato la sua influenza sulla nascita d’ogni governo e sulla fortuna d’ogni Ministro, e che era stato amato e odiato con eguale passionalità finiva, in senso letterale e in senso metaforico, il suo volo.
Pietro Nenni osservò nel suo diario: «In un certo senso la morte in volo è stata degna dell’uomo che per così dire aveva casa nella carlinga. Ma si tratta d’una perdita crudele che apre grossi problemi all’ENI. Mi ero sinceramente affezionato a Mattei, personaggio di una infinita seduzione... Aveva le qualità dell’uomo che si è fatto da solo, e quindi una smisurata fiducia in se medesimo. Aveva dell’uomo che si è fatto da solo anche i difetti, cioè l’accentramento. Non è sostituibile anche se la gigantesca azienda da lui creata dovrà ormai continuare senza di lui. Saremo in molti a rimpiangerlo per le sue qualità umane davvero eccezionali».
L’aereo di Mattei era decollato da Catania alle 16.57, portando a bordo, oltre al «petroliere», anche il pilota, Irnerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale. Tempo pessimo in Lombardia, con pioggia, nubi basse, foschie. Bertuzzi aveva tenuto la quota massima consentita dalla pressurizzazione, tremilacinquecento metri, e si era presentato al radiofaro di Linate in posizione anomala, quattromila piedi al di sopra della quota che avrebbe consentito l’imbocco diretto del sentiero di discesa. Alle 18.57 l’ultima comunicazione dall’aereo: «Raggiunto duemila piedi». Poi silenzio.
Il bireattore s’era disintegrato a Bascapè, tra Milano e Pavia: un paesaggio piatto di campi e marcite, a breve distanza dalla cascina Albaredo. Fu subito affacciata l’ipotesi del sabotaggio, che una prima inchiesta, decisa dal ministro della Difesa Andreotti e affidata al generale di brigata aerea Ercole Salvi, dichiarò inconsistente. La sciagura fu attribuita «a perdita di controllo per spirale a destra», ossia, in parole povere, a un errore del pilota. Il fratello di Mattei, Italo, non fu appagato da quelle conclusioni e nel ’63 presentò una denuncia contro ignoti «per avere cagionato, sabotandolo con mezzi fraudolenti nei congegni meccanici, la caduta e la distruzione al suolo dell’aeromobile Morane Saulnier». La magistratura entrò in azione, e ordinò una perizia che approdò ai medesimi risultati della precedente. In base ad essa, cinque punti – diligentemente elencati da Italo Pietra nella sua biografia di Mattei – erano pacifici e incontrovertibili: «I due reattori erano perfettamente funzionanti allorché l’aereo cadde in stallo; l’incidente si verificò repentinamente a seguito di una improvvisa spirale a destra del velivolo sfuggito al controllo del pilota; l’aereo giunse a terra integro in tutte le sue strutture; non si verificò alcuno scoppio in volo; gli aerofreni e il carrello di atterraggio erano ancora retratti». Per i tecnici e per la legge il problema era stato risolto.
Non lo fu invece per l’opinione pubblica e per molti scopritori di verità – o presunte tali – nascoste, e di sensazionali documenti e testimonianze inediti. In questa volontà d’imbastire un «giallo» ebbero parte determinante certo giornalismo speculativo e certa dietrologia strumentale. Ma la ragione prima del sopravvivere di dubbi, sospetti e accuse stava nella personalità di Mattei: come pochi altri – e forse nessun altro in Italia – sembrava essere la vittima designata e perfetta d’un attentato.
Mattei faceva incetta di nemici con la stessa assidua efficacia con cui faceva incetta d’amici. Ogni sua iniziativa era, per qualcuno, una dichiarazione di guerra. Aveva profuso miliardi per favorire l’operazione Milazzo in Sicilia, per foraggiare la Base, per sostenere Gronchi, per sollecitare l’apertura a sinistra. Era un condottiero arrogante e intelligente, inviso a tanti in Italia, e a tanti altri fuori d’Italia. Era lo sponsor delle importazioni di petrolio sovietico in Europa – Kossighin aveva visitato Metanopoli – era la bestia nera delle sette sorelle petrolifere, era inviso al Dipartimento di Stato, era odiato dall’OAS che si opponeva all’indipendenza dell’Algeria, e che sapeva benissimo con quale larghezza Mattei avesse aiutato i ribelli antifrancesi. Alla Casa Bianca s’era insediato un Presidente «progressista», Kennedy, il cui esordio fu peraltro disastroso, con l’impresa della Baia dei Porci. Ma i rapporti americani sull’economia italiana continuavano ad attribuire a Mattei il ruolo del vilain, un megalomane senza scrupoli e senza freni. «Se la gestione delle industrie pubbliche continuerà ad essere lasciata priva di controlli» fu scritto in un rapporto «esse potranno cadere sotto il dominio di speculazioni personali, come è accaduto all’ENI per Mattei, diventando nei fatti monopoli privati appoggiati dall’autorità dello Stato e delle sue risorse, ma utilizzati da avventurieri come Mattei per promuovere il proprio dominio personale.» L’OAS era andata molto più in là dei giudizi negativi. Aveva fatto sapere, dalla Spagna, che Mattei sarebbe stato «giustiziato». Considerata l’attività antifrancese svolta da Mattei nell’Africa del Nord, e in particolare per quanto riguardava lo sfruttamento petrolifero del Sahara, l’OAS «ha il piacere di comunicare le decisioni prese in una riunione segreta a Parigi: sono considerati come ostaggi e condannati a morte il commendator Enrico Mattei e tutti i membri della sua famiglia (moglie figli ecc.)». I sanguinari dell’OAS non erano molto bene informati sulla composizione della famiglia di Mattei, che figli non ne aveva. Comunque si trattava d’una minaccia che risaliva all’estate del 1961, e dopo d’allora l’OAS era stata messa in ginocchio.
Mattei dava fastidio alla CIA, alla mafia, anche a qualcuno nell’ENI. Pareva che perfino i rapporti con il fedelissimo vice Eugenio Cefis, che prenderà il suo posto, non fossero del tutto sereni negli ultimi mesi. L’espansionismo forsennato di Mattei, quel suo incessante spendere, investire, foraggiare e attaccare inquietavano il più cauto Cefis. Due giorni prima della sciagura di Bascapè il «Financial Times» s’era chiesto Will signor Mattei have to go?, il signor Mattei dovrà andarsene?
L’incidente banale dovuto a errore umano non soddisfaceva chi, affastellando questi precedenti e queste circostanze, avrebbe voluto – nella fiction cinematografica o televisiva questo avvenne puntualmente – un epilogo misterioso e delittuoso. Se non era stata collocata una bomba sul bireattore, si ipotizzò, poteva essere stato manomesso l’altimetro, o intossicato il pilota. Gli altri elementi che legittimavano l’errore e il disastro – il temporale, le nubi basse, la pessima visibilità – sarebbero sopraggiunti fortuitamente, per volere del destino: ma sommandosi al sabotaggio. Del quale non si aveva prova alcuna, tutti gli elementi erano in favore della sciagura. Eppure Mattei, si discettò, era morto al momento giusto: per i suoi nemici e forse anche per se stesso. «Un poco come se Mussolini fosse morto dopo la guerra d’Etiopia, alla stessa età in cui morì Mattei, senza poter imbarcarsi nella follia della seconda guerra mondiale.» Un accostamento che parve agli amici di Mattei irriverente, tanto che P.H. Frankel (il biografo di Mattei cui l’accostamento era dovuto), lo soppresse nell’edizione italiana del suo libro.
Impossibile dire cosa Mattei, cosa l’ENI, e cosa l’Italia sarebbero diventati se il Morane Saulnier fosse felicemente atterrato a Linate, quella sera fatale. Si può tuttavia fondatamente supporre che le vicende del Palazzo sarebbero state, con un inquilino come lui, diverse. Mattei era unico, nel bene e nel male. Non lasciò veri eredi né veri successori. Le dinastie dei personaggi di quella fatta cominciano con loro, e con loro finiscono.