Per il centrosinistra che muoveva faticosamente i primi passi le elezioni politiche del 28 aprile 1963 furono una prova del fuoco: che venne superata alla meno peggio lasciando in vita la coalizione, ma con ustioni serie per la DC.
Democristiani e socialisti avevano avuto un compito propagandistico arduo. Dovevano dimostrare di non avere abdicato, con la nuova alleanza, alle rispettive identità. Era necessario convincere l’elettorato moderato che la DC era ancora la «diga» contro il comunismo, il grande bacino di raccolta dei prudenti e dei benpensanti; e l’elettorato socialista che il PSI non si era «socialdemocratizzato», restava un Partito di sinistra entrato nella maggioranza per far trionfare il suo programma. Dal che derivava la conseguenza paradossale che i due Partiti protagonisti della «svolta» erano costretti a dare alla svolta stessa significati opposti.
Nella campagna elettorale i notabili democristiani andarono predicando che non era in vista nessuna «rivoluzione» economica, che la nazionalizzazione dell’energia elettrica sarebbe rimasta un episodio isolato, che le regioni avrebbero avuto concreta attuazione solo quando fossero state ottenute precise garanzie. A sua volta Nenni spiegava che l’ingresso socialista nella maggioranza aveva dato l’avvio a una serie di riforme incisive, e che la nazionalizzazione elettrica era l’avvio di un processo che avrebbe raggiunto più ambiziosi traguardi. La DC era incalzata dai liberali, attivissimi in quella fase, e sostenuti da larga parte della stampa.
Un’iniziativa maldestra del ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo, che militava nella Base, creò seri guai al suo Partito. In un progetto di riforma urbanistica era stata prevista la sostituzione del diritto di proprietà sul suolo con un diritto di superficie, meno pieno. L’idea fu quasi subito accantonata, per la sua impopolarità. Ma il giornalista ed esponente liberale Vittorio Zincone ebbe modo e tempo di polemizzare osservando che «il progetto del Ministro dei Lavori pubblici riduce il diritto dei privati ad un temporaneo uso del suolo simile a quello vigente per i loculi nei cimiteri». L’immagine colpì la gente, e l’allarmò.
Papa Giovanni, che era ormai in fin di vita, e che di ben altro doveva preoccuparsi che delle elezioni italiane, fu accusato d’aver portato acqua al mulino comunista con la famosa enciclica Pacem in terris dell’11 aprile, e con la non meno famosa distinzione tra l’errore e l’errante «anche quando trattasi di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale o religioso... Gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono, o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possono essere occasione per scoprire la verità... Pertanto può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico fino a ieri ritenuto non opportuno oggi invece lo sia o lo possa divenire domani». Parole che potevano essere interpretate – in una lettura di politica nazionale – come un avallo al centrosinistra, e che erano indubbiamente comprensive verso il gregge comunista. Gli erranti erano cosa ben diversa dai cosacchi in piazza San Pietro della visione pacelliana.
I socialisti erano a loro volta sottoposti al cannoneggiamento polemico del PCI, che imputava loro il tradimento della classe operaia. Nella tormentata conversione dal Fronte popolare del ’48 al centrosinistra del ’62 il PSI si era arreso, insisteva Togliatti, all’egemonia del grande capitale e al gattopardismo temporeggiatore della DC.
I guai dei due Partiti erano ingigantiti dall’esistenza, nelle loro stesse file, di correnti e gruppi che condividevano il punto di vista degli avversari. Era il caso degli oppositori di Moro – e ancor più di Fanfani – che ritenevano troppo accelerato e avventuroso il corso riformistico della DC; ed era il caso degli avversari di Nenni che quello stesso corso riformistico lo giudicavano lento e pantofolaio. In sostanza le politiche erano diventate un referendum pro o contro il centrosinistra: del resto il dilemma – lo si è già visto per l’elezione presidenziale di Segni – s’inseriva ormai in ogni episodio politico importante.
La DC uscì dalla prova se non con le ossa rotte certo con dei lividi. Le frange conservatrici del suo elettorato s’erano spaventate, ed avevano trasmigrato nelle file liberali. La DC scese infatti dal 42,4 per cento del ’58 al 38,2: parallelamente il PLI raddoppiò, portandosi dal 3,5 al 7 per cento. Il PSI tenne meglio, ma dovette anch’esso cedere qualcosa (dal 14,2 al 13,8). Progredirono i socialdemocratici (dal 4,5 al 6,3) e crollarono i monarchici dissanguati dall’avanzata liberale (dal 4,8 all’1,7). Fermi al loro modestissimo 1,4 i repubblicani e quasi fermi (dal 4,8 al 5,1) i missini.
Ma il dato più significativo fu, parallelamente a quello della flessione democristiana, l’altro della ripresa del PCI, che per la prima volta superò la soglia del 25 per cento (dal 22,7 al 25,3). L’attacco concentrico aveva prodotto i suoi frutti. I comunisti si ritrovarono con 166 seggi alla Camera (contro 140 del ’58) e i liberali con 39 seggi contro i precedenti 17. Dopo cinque anni d’una prosperità economica quale l’Italia non aveva mai avuto nella sua storia, vinse la protesta comunista, vinsero le sirene d’allarme dei liberali, e vinse anche la tattica socialdemocratica che univa la volontà d’essere nella maggioranza alla capacità di farsi interprete del malcontento. «Si ha» commentava amaramente Nenni «questa balorda situazione: che il centrosinistra procura voti ai socialdemocratici per ciò che ha fatto, e profitta ai comunisti per ciò che non ha fatto.»
Nel Consiglio nazionale democristiano Moro ammise, una volta tanto in linguaggio comprensibile, che «abbiamo perduto questa battaglia elettorale. I comunisti sono andati avanti dovunque». Il segretario DC cercò di approfondire – al di là del dilemma centrosinistra sì centrosinistra no – le cause dell’insuccesso. Parlò delle migrazioni imponenti dalle campagne alla città e dal Sud al Nord, che avevano generato una nuova categoria di ex contadini divenuti operai, ghettizzati nei sobborghi delle metropoli dove la vita era assai più cara che nelle regioni di provenienza, angosciati dalla mancanza di abitazioni. Masse che avevano fino a quel momento votato DC o monarchia s’erano convertite al comunismo non come ideologia ma come portavoce del loro scontento.
Si dice che, come la vittoria ha molti padri, la sconfitta non ne abbia nessuno. Questa volta i padri furono chiaramente, anche se non con molta equità, individuati, in casa democristiana e in casa socialista. Finirono sul banco degli imputati Fanfani e Nenni. Il primo dovette dare le dimissioni da Presidente del Consiglio, a conferma dell’alternanza d’altare e di polvere che contrassegnò tutta la sua vita politica.
È abbastanza strano, a prima vista, che la pessima prova del Partito fosse addebitata non a chi aveva la responsabilità del Partito stesso, ossia a Moro, ma a chi aveva la guida del governo. La spiegazione dell’anomalia va cercata nella personalità di Fanfani: tanto dinamico, esibizionista, presenzialista e loquace quanto Moro era reticente. Non che Moro fosse poco loquace, anzi; i suoi discorsi fiume sono rimasti memorabili per la lunghezza, ma anche per la difficoltà d’estrarne una presa di posizione esplicita.
Il centrosinistra neonato aveva avuto in Fanfani il suo Napoleoncino, e in Moro il suo piccolo Talleyrand. Così accadde che Fanfani fosse sacrificato per la Waterloo elettorale, così come nel ’58, dopo un’Austerlitz elettorale, era stato in breve tempo liquidato. Vincesse o perdesse, non riusciva a convincere.
Anche per Nenni erano momenti duri. Con giudizio lucido egli aveva scritto a Fanfani, non appena conosciuti i risultati, che loro due erano i vinti: Fanfani «perché la DC non ti perdonerà il milione di voti perduti». Lui, Nenni, «perché le elezioni hanno messo a serio rischio la prospettiva di un centrosinistra attestato su posizioni più avanzate e meglio garantite». Una sola consolazione per Nenni: Fanfani stava peggio «nel senso che non ci sono verso di me i risentimenti e i rancori che nella DC assediano Fanfani».
Le dimissioni del governo furono formalmente presentate il 16 maggio (1963). Segni, che era angosciato dai progressi del PCI, rifletté qualche giorno e il 24 maggio (la coincidenza con l’anniversario della Vittoria fu puramente casuale) affidò l’incarico ad Aldo Moro, rinunciandoall’espediente dei mandati esplorativi, che pure gli erano stati suggeriti.
Moro procedette con la circospezione che gli era abituale, un po’ confortato dall’esito delle elezioni amministrative siciliane, ai primi di giugno. La DC era andata piuttosto bene, e i secessionisti milazziani malissimo. A rallentare i negoziati per la soluzione della crisi era intervenuto un avvenimento doloroso benché non imprevisto (si sapeva che Giovanni XXIII era agonizzante): la morte del Papa (3 giugno).
Il 21 giugno 1963 l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini fu eletto Papa dopo un Conclave breve e senza contrasti. Sul nome di Montini si aggregò rapidamente una schiacciante maggioranza di Cardinali. I votanti erano stati 80, tra loro 29 italiani. Il nuovo Papa volle chiamarsi Paolo VI rinverdendo le fortune d’un nome che era da molto caduto in disuso. Anche lui, come Angelo Roncalli, s’era voluto distaccare dalla più recente tradizione della Chiesa, e dall’affollamento dei Pii. Particolarmente devoto a San Paolo, l’apostolo delle genti, l’aveva con la sua scelta onorato.
Era, Montini, il terzo d’una successione di Papi venuti dalla Curia e dalla diplomazia, non da un impegno prevalentemente pastorale. Pio XII aveva avuto una formazione e atteggiamenti da Ministro o da Sovrano. La sua fede era profonda, ma anche imperiosa. Angelo Giuseppe Roncalli che il fisico, il temperamento, l’istintiva simpatia umana sembravano designare per compiti pastorali, era stato invece nunzio apostolico durante gran parte della sua vita. Montini era vissuto e cresciuto nella Curia, e la sua nomina ad Arcivescovo di Milano sembrò ai più una anomalia se non una punizione. Si sentiva che quel soggiorno milanese era transitorio, qualcuno osservò un po’ irrispettosamente che Montini vi stette come in area di parcheggio, nell’attesa che finisse il lungo regno pacelliano.
Accomunati da questo dato – l’appartenenza alla struttura centrale e burocratica della Santa Sede – i tre Pontefici erano per tutto il resto diversi come più non sarebbe stato possibile. Le chiavi di Pietro, ch’erano passate da un aristocratico altero a un popolano bonario e insieme risoluto, finirono nelle mani d’un grande borghese macerato, lacerato, pieno di fervore e ossessionato dai dubbi. «Come sta sua eminenza Amleto?» aveva chiesto un giorno papa Roncalli a un prelato che veniva da Milano. A Pacelli, il Sovrano, o a Roncalli, il Santo Pastore, molti erano disposti a perdonare tutto. A Paolo VI nessuno perdonerà nulla.
Era nato il 26 settembre 1897 a Concesio, in provincia di Brescia, veniva da una famiglia di cattolici devoti. Il padre, Giorgio, era avvocato e giornalista: aveva aderito al Partito popolare di don Sturzo, divenendone uno dei dirigenti più in vista del Bresciano, e per due legislature aveva occupato un seggio a Montecitorio. I due fratelli del futuro Papa saranno l’uno avvocato (ed esponente della Democrazia cristiana) l’altro medico. Il ragazzo Giovanni Battista, nel quale il fisico esile fino alla gracilità s’accoppiava a un’intelligenza viva e a un’attività intensa, studiò dai gesuiti e a vent’anni entrò in seminario. A ventitré ne uscì ordinato sacerdote, a ventisei fu mandato, come segretario, nella nunziatura apostolica di Varsavia, a ventisette entrò, con la qualifica di «minutante», nella segreteria di Stato. Lì rimase per quasi trent’anni, discreto, infaticabile, onnipresente, e presto ammesso alla ristretta cerchia dei prelati che avevano accesso al segretario di Stato o al Papa. Pacelli esercitò le due funzioni, senza soluzione di continuità. Eppure il docile e sommesso Montini a volte parlava in contrasto con le direttive del Pontefice regnante, e parlava chiaro. Aveva perso ogni illusione sulla diplomazia vaticana già quando seguiva i corsi per la preparazione degli addetti alle nunziature: «Il corso interno mi irrita come una parodia di cose serie, fatte per autoingannarsi». La Conciliazione non gli era piaciuta. «Quelli che pensano sono tutti, o quasi, pieni di riserve e di malcontento. È confortevole sperare che questa insoddisfazione sarà freno a smodata compromettente letizia e, da parte nostra, indurrà a un certo salutare riserbo.»
Alla sua attività burocratica Montini ne unì un’altra – e questo dimostra di quanta fiducia godesse – che era, nei primi anni del regime fascista, d’estrema delicatezza. Fu assistente della FUCI, l’organizzazione universitaria cattolica, e grazie a quest’incarico conobbe Scelba, Fanfani, Gonella, insomma alcuni tra i notabili della futura DC.
Abbandonò nel 1933 i suoi compiti presso la FUCI. Anzi fu costretto ad abbandonarli, benché l’appassionassero (in una lettera all’arcivescovo di Brescia Giacinto Gaggia aveva scritto: «Tempo addietro proposi anche mi si dispensasse dalla segreteria se il bene dell’opera tra gli studenti sembrasse richiedere dedizione completa»). L’annuncio del cardinale Pizzardo, assistente generale dell’Azione Cattolica, che Montini s’era dimesso, mascherava la realtà. Troppo zelante, e troppo antifascista, Montini era entrato in rotta di collisione col regime e con i GUF, oltre che, sembra, con i gesuiti. Era parso opportuno defilarlo nelle penombre vaticane. Durante la guerra l’autorità e le responsabilità di monsignor Montini furono di molto superiori al suo rango ufficiale. Lo si vide accanto a Pio XII allorché questi visitò, il 19 luglio 1943, il quartiere romano di San Lorenzo bombardato dagli Anglo-americani. Protesse gli antifascisti braccati – e rifugiati in monasteri e seminari – durante i mesi bui dell’occupazione tedesca di Roma: e protesse gli ebrei con il consenso e l’incoraggiamento, anche se non ostentati e sbandierati, ma fattivi, del Papa.
Morto nel ’44 il segretario di Stato cardinale Maglione, Pio XII non lo rimpiazzò, ripartendone invece le incombenze tra monsignor Tardini (affari straordinari) e monsignor Montini (affari ordinari). Finita la guerra, nata la prima Repubblica italiana, monsignor Montini si trovò ad esercitare – per le origini familiari e per la posizione curiale – anche una crescente influenza politica. Lo si sapeva più «progressista» del collega Tardini. Ma questo non spiaceva, o così parve, a papa Pacelli, che poteva servirsi dell’uno o dell’altro secondo la convenienza del momento. Risoluto ad esercitare i suoi poteri tramite docili esecutori senza delegarli, il Papa lasciò vuota fino alla morte la poltrona del segretario di Stato anche se, nel 1952, nominò due prosegretari, i soliti Tardini e Montini. Ai quali, si disse, era stata offerta la porpora cardinalizia, rifiutata. Questa fu almeno la versione del Papa. «Dando insigne prova di virtù ci hanno chiesto così insistentemente di poter essere dispensati da così altissima dignità che abbiamo creduto di accogliere le loro ripetute suppliche e i loro voti.» Non sembra comunque che occorressero molte suppliche per indurre Pio XII a non creare nuovi Cardinali, visto il modo in cui egli lasciò per anni che il Sacro Collegio si anemizzasse, senza rinsanguarlo.
Questo cursus honorum montiniano, così stabile e prevedibile, ebbe una brusca svolta nel 1954, quando il prosegretario fu dirottato a Milano come Arcivescovo: e lo fu senza che all’investitura s’accompagnasse la porpora, com’era nella tradizione. Parve a tutti evidente che il rapporto fiduciario tra Pio XII e Montini si fosse andato incrinando fino alla rottura. Qualcuno per la verità negò che Pio XII avesse promosso Montini per punirlo. Si affacciò l’ipotesi benevola che il Papa, ritenendo Montini il più degno a succedergli, avesse voluto inserire un periodo d’attività pastorale in una «carriera» troppo curiale. Perché allora non gli diede la porpora? Perché, dopo i due Concistori del ’46 e del ’53 (in quest’ultimo divennero cardinali Siri e Lercaro) Papa Pacelli non celebrò il terzo (e si vociferò che non lo avesse celebrato perché, secondo una credenza superstiziosa, al terzo Concistoro sarebbe seguita la sua morte)? Certo è che Montini, privo della porpora, non fu perciò papabile dopo la fine di Pio XII. Ha raccontato Benny Lai che Siri, cui era stato sussurrato il nome dell’Arcivescovo di Milano come possibile Papa (nulla ostava, dal punto di vista dogmatico) si fosse infuriato, battendo un pugno sul tavolo con tale forza che l’anello pastorale saltò via dall’incastonatura.
L’opinione corrente e malevola – o realistica – è invece che Pio XII avesse allontanato di proposito un Montini troppo «deviante» e troppo influente. In Vaticano – e anche nel Palazzo politico italiano – s’era in effetti andato formando un «partito» montiniano. Esisteva un filo diretto tra Alcide De Gasperi e Montini: lo si constatò, o lo si intuì, nella querelle per le amministrative di Roma del 1952. Don Sturzo aveva proposto, e Papa Pacelli caldeggiato, una grande coalizione (includente i missini) contro la minaccia comunista. De Gasperi s’era opposto al «listone», riuscendo a far prevalere il suo punto di vista. È logico presumere che il prosegretario di Stato condividesse la tesi degasperiana. Nulla di certo è mai trapelato sui riflessi vaticani del contrasto tra Pio XII e De Gasperi. Anche i vaticanisti più informati si son dovuti accontentare d’illazioni o di opinabili confidenze. Paolo VI protestò in ogni occasione la sua piena adesione alla linea pacelliana. Fu apprezzato per questa lealtà postuma, ma non creduto.
Giovanni XXIII riparò con significativa prontezza allo sgarbo ch’era stato fatto a Montini nominandolo Cardinale già nel suo primo Concistoro (novembre 1958). Il fedele esecutore di Pio XII fu un fervido collaboratore di papa Roncalli, anche se nella prima fase del Concilio tenne un atteggiamento piuttosto prudente. Certo ammirato ma nello stesso tempo impaurito per questa iniziativa che squassava l’universo della Chiesa, e faceva affiorare, e anche deflagrare, problemi che la sottile ma ferrea mano di Pacelli aveva compressi.
Paolo VI affrontò la sua missione di Papa, che sarebbe durata quindici travagliati anni, sentendo gravare su di sé il peso del passato e il peso del futuro. Del passato, perché riceveva in eredità da Pio XII e da Giovanni XXIII due modi diversi d’essere Papa e d’essere credente. Ha osservato Francesco d’Andrea: «Se (Montini) avesse seguito, senza intermediari, Pacelli, ne sarebbe stato con ogni probabilità la copia conforme, forse anche superandolo. Dopo Giovanni XXIII si è trovato a competere con un modello che non avrebbe potuto essergli più estraneo e lontano e che, per altro, lo ha sempre affascinato profondamente. Non aver saputo resistere a questa magnifica invidia gli ha certo nuociuto... Si è detto che in lui sono state costrette a coesistere due anime, quella progressista giovannea, quella integralista pacelliana. Due anime che hanno lottato a lungo nel suo intimo, senza mai separarsi completamente». Dal punto di vista comportamentale, non riusciva ad essere né solennemente ieratico come Pio XII, né affabile e popolare come Giovanni XXIII. «Gesti» citiamo ancora d’Andrea «come quello di presentarsi» quand’era ancora Arcivescovo della città, al vecchio velodromo Vigorelli di Milano con un berretto da ciclista, o l’altro nell’udienza ai pellirosse in Vaticano in cui si lasciò fotografare con un copricapo da capo indiano, parlano piuttosto di un bisogno di simpatia ricercato con slancio ed inettitudine addirittura patetici.»
Questo Papa istintivamente schivo, amante delle letture, dello studio, del raccoglimento, scelse di viaggiare come nessun altro aveva fatto prima di lui. Questo grande borghese si accanì contro la pompa vaticana, sopprimendo la guardia nobile e la guardia palatina, i camerieri segreti di cappa e spada, i sediari e così via: unica eccezione la guardia svizzera. Questo progressista disse no alla pillola, all’abolizione del celibato obbligatorio per i preti, al divorzio, all’aborto. Questo Pontefice cauto decretò tuttavia la fine della messa in latino e l’introduzione del nuovo messale nelle lingue nazionali. Con lui Cardinali e Vescovi ebbero un limite di età, dopo il quale andavano in pensione. Gli strascichi dei Cardinali furono ridotti da sette a tre metri, e poi aboliti. Ma ancora con lui il dogma dell’infallibilità papale fu difeso, e preservato.
Ebbe, all’inizio del suo Pontificato, un impegno che lo assorbì: la conclusione del Concilio. Della seconda fase dell’assemblea – che ne generò poi una terza – riassunse così gli scopi, il 29 settembre 1963: il chiarimento dottrinale e il rinnovamento interiore della Chiesa, la ricomposizione dell’unità dei cristiani, il dialogo con il mondo contemporaneo. Per i «fratelli separati», presenti al Concilio come osservatori, fu largo di aperture. «Se alcuna colpa fosse a noi imputabile per tale separazione» disse «noi ne chiediamo umilmente perdono e domandiamo venia altresì ai fratelli che si sentissero offesi. E siamo pronti, per quanto ci riguarda, a condonare le offese, di cui la Chiesa cattolica è stata oggetto, e a dimenticare il dolore che le è stato recato nella lunga serie di dissensi e separazioni.» Un atto di contrizione con sfumature da atto d’accusa.
Paolo VI seguì e orientò i lavori del Concilio Vaticano II con maggior assiduità di Giovanni XXIII, che pur ne era stato il promotore: forse perché, meno fiducioso e meno sereno di papa Roncalli, discerneva le crepe che quell’alto dibattito aveva aperto nelle monolitiche certezze della fede.
Il Concilio si chiuse alla fine del 1965, e il 7 dicembre nelle cattedrali di San Pietro a Roma e del Fanàr a Costantinopoli Paolo VI e il patriarca ortodosso Atenagora I lessero simultaneamente una dichiarazione comune con la quale erano revocate le reciproche scomuniche tra cristiani d’Oriente e d’Occidente: così sanandosi, o almeno rimarginandosi, una ferita aperta novecento anni prima. La Chiesa volle solennemente rappacificarsi anche con il popolo ebraico, e cancellare l’accusa di deicidio con cui era stato bollato. Il documento che sancì questa storica svolta ebbe un iter tormentato, e passò attraverso sette diverse redazioni. I padri conciliari (e il Vaticano) subivano le pressioni dei governi arabi, che vedevano in questa assoluzione un implicito appoggio a Israele, e temevano rappresaglie islamiche contro le comunità cattoliche in Medio Oriente. Per di più una minoranza di partecipanti al Concilio insisteva sulla validità dell’antica maledizione contro il popolo di Giacobbe.
La stesura finale fu meno esplicita e calorosa di quanto molti avessero auspicato. Basta, per rendersene conto, mettere a confronto il testo originario del cardinale Bea, e quello adottato. Aveva scritto Bea: «Benché una gran parte del popolo eletto rimanga ancora lontana da Cristo, ingiustamente verrebbe chiamato popolo maledetto perché rimane a Dio carissimo a motivo dei Padri e per i doni ad esso largiti; ingiustamente anche verrebbe chiamato deicida perché con la sua passione e morte il Signore lavò i peccati di tutti gli uomini, causa della passione e morte di Gesù Cristo. La morte di Cristo tuttavia non fu voluta da tutto il popolo di allora, e molto meno da quello di oggi». Ecco invece il testo approvato: «Se autorità ebraiche con i loro seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo... Se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio né come maledetti». Come si noterà mancava il deicidio, con la sua ripulsa. Vi furono, per questa significativa omissione, proteste: ma Bea difese l’operato del Concilio. La sostanza, spiegò, era rimasta immutata.
Queste luci e ombre dei sedici documenti conciliari, queste audacie e queste irresolutezze, erano il prodotto delle lotte di fazione che nel Concilio s’erano scatenate. Ma erano anche lo specchio della personale tormentata indecisione di papa Montini.