Si era dunque, nella prima quindicina di giugno del 1963, alle trattative per la formazione d’un governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro che contasse sulla partecipazione diretta della DC, del PSDI e del PRI, e sull’appoggio esterno dei socialisti. Nenni avvertiva sintomi di rivolta nel suo Partito, ma era certo di poterlo trascinare con sé a patto che reggesse la sua maggioranza autonomista, alcuni elementi della quale, in particolare l’irrequieto Riccardo Lombardi, davano palesi segni d’insofferenza. Furono faticosamente ripercorsi, in riunioni tra i socialisti e i democristiani, i punti del programma. Di passaggio si parlò anche d’un ennesimo scandalo che travagliava la vita pubblica, quello delle banane la cui importazione era affidata ad un ente statale dalla gestione molto discutibile (e ben presto abolito). Ma i nodi veri erano i soliti: le regioni, la legge urbanistica, i criteri di politica finanziaria, la scelta degli uomini. Anche quest’ultimo era diventato un tema spinoso, perché la DC doveva inserire nel futuro Ministero dei moderati che placassero le ansie d’una parte – forse la più cospicua – del suo elettorato, e i socialisti volevano dei fautori senza arrière-pensées delle riforme. «Un programma» insisteva Nenni «è un elenco di cose che divengono vive se gli uomini sono vivi, se cioè ci credono. Se Moro si mette attorno gente che alle cose progettate non crede, tutto allora diventerà lettera morta.»
Gli ultimi vertici tra democristiani e socialisti si svolsero nel Centro studi della DC alla Camilluccia, e lì Nenni pose un caso di coscienza – era il 14 giugno, venerdì – a un inserviente. Non soddisfatto dai tramezzini «di dubbio contenuto» che venivano offerti alle delegazioni, ne chiese uno di pane e salame. L’inserviente esitò, non sapendo se dovesse acconsentire, in una sede così cattolica, a quella trasgressione, ma Silvio Gava lo trasse d’impaccio assicurando che gli ultrasessantenni erano dispensati dall’osservanza del precetto.
Nenni, dopo che Moro ebbe riassunto la situazione, e gli accordi raggiunti, ritenne che l’insieme fosse accettabile, perciò garantendo, da parte del PSI, l’astensione, non un voto favorevole. Un comunicato annunciò che «è stata delineata la base politica e programmatica del nuovo governo». Sembrava ormai che Moro avesse via libera. Lui forse sì. Ma non l’aveva Nenni che si trovò di fronte a una vera tempesta quando riunì successivamente gli aderenti alla corrente autonomista e al Comitato centrale del Partito perché avallassero l’intesa.
La notte di San Gregorio – dal 16 al 17 giugno – fu per il PSI anche una notte dei lunghi coltelli, durante la quale il governo Moro fu, sia pure con le più sofisticate motivazioni politiche, pugnalato. Lombardi, che in generale era meglio avere come avversario che come alleato, abbandonò Nenni. Questi registrò sul suo diario (con riferimento alla prima riunione, quella degli autonomisti): «Il gruppo Lombardi non accetta il compromesso concordato nell’incontro della Camilluccia. Lascio da parte il fatto che vi ha tecnicamente collaborato. Ciò che emerge è la divisione della maggioranza [nel Partito, N.d.A.]. Lombardi, Giolitti, Codignola, Jacometti e Santi lo hanno detto chiaramente dalla tribuna. Alle cinque del mattino era chiaro che siamo in pieno disaccordo, e quindi battuti e preda ormai della nostra sinistra e di quella esterna... Quando ci siamo separati stanchi anzi esausti, non c’era praticamente altro da fare se non informare Moro che non era possibile assicurargli l’astensione socialista». Il Comitato centrale del Partito prese atto della nuova situazione con quella che Nenni definì una «constatazione notarile» di rottura: «Alla fine di una giornata di lavori il Comitato centrale si è aggiornato a domani pomeriggio 18 giugno dopo una dichiarazione del segretario del Partito intesa a precisare che in seguito a dissensi determinatisi intorno alla valutazione del programma governativo il Comitato centrale non è stato in grado di dare la propria adesione per la formazione del nuovo governo». Nenni era stato messo in minoranza. Moro non perse tempo. Non appena seppe del rifiuto socialista rinunciò all’incarico.
Segni, che s’illudeva d’aver risolto la crisi, fu così al punto di partenza. Chiese consiglio a Nenni, che forse in quel momento aveva più bisogno di riceverne che di darne. E Nenni fece i nomi di Saragat e di Fanfani. Ma Segni – che aveva pronta la designazione, e fingeva soltanto di consultarsi – tagliò corto: «A Saragat non avevo pensato, ma non c’è da sperare che riesca. Fanfani è impossibile, la DC non lo accetta. La preclusione della DC verso i liberali, la decisione di Saragat che non ci sarà governo senza l’appoggio socialista, l’impossibilità per la DC di tentare con altri uomini ciò che non è riuscito al suo segretario, rendono impossibile il governo di centrosinistra. Non c’è quindi altro da fare che un governo di attesa». Per questo Ministero «balneare» s’imponeva, secondo Segni, la scelta del bonario Presidente della Camera, Leone. Al designato, Segni assicurava che, se avesse fallito, sarebbe stato pronto il decreto di scioglimento del parlamento, con la convocazione di nuove elezioni.
La mossa del Quirinale era insieme ovvia e astuta. I Partiti – e i parlamentari neoeletti – furono messi di fronte alla prospettiva d’una seconda faticosa e incerta campagna elettorale. Solo i socialdemocratici e forse i comunisti, confortati dall’esito del 28 aprile, erano disposti ad affrontarla con qualche ottimismo. DC e PSI la vedevano come un’incognita pericolosa, anche a non voler tener conto degli interessi e delle personali ambasce di chi s’era conquistato un posto a Montecitorio o a Palazzo Madama. I socialisti che avevano negato i loro voti – o almeno le loro astensioni – a Moro, si trovarono a questo punto nella spiacevole necessità di decidere se dovessero bocciare Leone – il che avrebbe portato alle elezioni – o lasciarlo passare, accettando un monocolore democristiano dopo ch’era stato ripudiato un centrosinistra.
Leone fu esplicito. «Faccio il governo per sentimento del dovere. Non ho in tasca il decreto di scioglimento, ma voi sapete, perché Segni ve lo ha detto, che lo scioglimento sarebbe la conseguenza d’un mio insuccesso. Vorrei non avere i voti dei liberali e di destra: ma per questo mi occorre la vostra astensione.»
Si assistette allora, nel PSI, all’imbarazzato voltafaccia di coloro che avevano rotto la maggioranza nenniana e che affermavano – Lombardi in testa – d’essere stati fraintesi e d’essere vittime d’un «linciaggio morale». La posizione di Lombardi s’era fatta insostenibile perché anche Pertini, sempre alla carica con foga donchisciottesca, questa volta era partito lancia in resta a favore di Nenni. Aveva definito la notte di San Gregorio «un 25 luglio senza ambulanza». Il 21 giugno 1963 – lo stesso giorno dell’elezione di papa Montini – Leone era Presidente del Consiglio. I socialisti gli concessero l’astensione che lo pose al riparo dall’insidia di voti determinanti dalla destra.
L’interludio leonino, che durò fino all’inizio di novembre, fu la premessa d’un avvenimento storico: l’ingresso dei socialisti non soltanto nella maggioranza, ma nel governo. Non si trattava, a rigore, di una prima volta. Nenni e i suoi erano stati parte dei governi ciellenistici, tra il 1944 e il 1947. Ma quelli di allora erano governi di emergenza, espressione d’un momento politico anomalo e irripetibile. Era poi venuto il Fronte popolare, con i socialisti vincolati strettamente al PCI, e la DC con i suoi alleati a far diga contro la «minaccia marxista». Vent’anni dopo – o poco meno – il PSI ritrovava i moderati, questa volta per precisa scelta politica.
Il Congresso del PSI cui spettava di decidere se il Partito dovesse o no avere responsabilità di governo fu celebrato in una Italia tuttora sotto choc per la catastrofe del Vajont, nel Bellunese: tanto terrificante nel bilancio dei morti quanto fulminea nel suo svolgimento.
Alle 22.40 del 9 ottobre 1963 dal monte Toc, che dominava un invaso in cui era raccolta l’acqua per l’alimentazione d’una centrale elettrica, si staccò una frana di proporzioni colossali. Come un pugno vibrato in una tazza piena d’acqua, quei milioni di metri cubi di terra piombarono nel lago artificiale. La diga che sbarrava il torrente Vajont e imbrigliava il lago tenne: ma l’acqua s’impennò sopra lo sbarramento, lo scavalcò, e s’abbatté sul sottostante abitato di Longarone. Fu come se un maglio fosse andato a schiacciare il paese: con i suoi abitanti, le sue case, le sue botteghe, tutto. La divisione tra ciò che era stato distrutto e ciò che era stato risparmiato appariva netta, il taglio d’un bisturi. Furono contati quasi duemila morti a Longarone, circa duecento a Erto e Casso, due paesini issati sul monte Toc e investiti dall’ondata di riflusso.
L’Italia pianse i morti e, come sempre in queste luttuose circostanze, si abbandonò all’acre piacere delle polemiche che si trascinarono per anni: prima per le responsabilità della catastrofe e per l’omissione di misure di sicurezza dopo ch’erano stati segnalati smottamenti (sarebbe stato prudente procedere al graduale svuotamento del lago); poi per le speculazioni che, com’è ormai regola, sulla ricostruzione s’innestarono. Ci furono molti vivi che s’arricchirono sui morti.
Quindici giorni giusti dopo la strage di Longarone, il 24 ottobre, si aprì il Congresso socialista che durò fino al 30 ottobre, e si concluse con la vittoria di Nenni. Non fu una vittoria a mani basse, e nemmeno una vittoria senza ombre (lo si vide a breve scadenza). Ma la dirigenza del PSI ebbe l’autorizzazione a partecipare, direttamente e impegnativamente, a un governo «borghese». La mozione di Nenni raccolse il 57,42 per cento dei voti. Il 39,29 andò alla sinistra, il 2,18 a una mozione di Pertini che propugnava lo scioglimento delle correnti e l’unità interna.
La maggioranza nenniana non era compatta. «C’è stato un tira e molla del diavolo» scrisse lo stesso Nenni «per assicurare ai lombardiani una equa rappresentanza nel nuovo Comitato centrale. Scottata dalla notte dei lunghi coltelli [quella di San Gregorio, N.d.A.] la maggioranza non voleva saperne. Ma cadere nel settarismo è sempre un errore.» A sua volta la sinistra raccoglieva elementi disparati, e ideologicamente addirittura opposti. Basso, Foa, Libertini erano dei libertari antistalinisti che si rifacevano a Trockij o a Lenin; Vecchietti, Valori, Vincenzo Gatto erano invece filocomunisti nel senso più ortodosso dell’espressione, e in sostanza filosovietici.
Il placet socialista apriva la strada a un centrosinistra finalmente organico. Nenni sapeva che la DC non era disposta a concedere più che tanto, in tema di riforme. Ma a lui stava a cuore la formula, in quel momento, assai più che il programma. Dimessosi Leone ai primi di novembre, Moro riebbe l’incarico cui era stato costretto a rinunciare per lasciar posto al governo balneare.
Il negoziato fu laborioso, per l’insistenza dei socialisti nell’esigere – sulle regioni, sulle leggi urbanistiche e su altro ancora – un impegno ad accelerare i tempi, e per le resistenze della DC, che non poteva sfidare né il desiderio di stabilità della potente corrente dorotea né i segnali che con molta chiarezza le erano giunti dal suo elettorato. L’assassinio a Dallas del presidente Kennedy, con i suoi riverberi politici e psicologici, diede forse un impulso al raggiungimento dell’accordo: che fu sancito l’indomani, 23 novembre. Le delegazioni dei quattro partiti del centrosinistra seppero della tragedia che atterriva l’America mentre stavano discutendo della Federconsorzi, e del suo assetto. «Anche la nostra crisi ministeriale, piccola cosa rispetto al deprecato evento, prende proporzioni diverse» annotò quella sera Nenni, che era politico fino al midollo, ma era anche un uomo sensibile.
Fatta l’alleanza, ci volle un’altra decina di giorni perché si riuscisse a compilare la lista dei Ministri; e vi fu il rischio che tutto andasse all’aria perché le correnti DC avanzavano pretese irrealizzabili sulla spartizione dei sottosegretariati (che dovevano essere 38 e furono 42, ancora pochi rispetto alle infornate degli anni successivi). Nenni fu vicepresidente del Consiglio, Saragat Ministro degli Esteri, il repubblicano Reale Ministro della Giustizia. Questi gli incarichi più rappresentativi dal punto di vista dell’alleanza. Per il resto la DC presentò uno schieramento ministeriale che rispecchiava la natura composita del Partito, con la sola eccezione della destra (Scelba, Pella) e dello sdegnoso Fanfani appartato nel suo personale Aventino. Andreotti occupò, anzi rioccupò la Difesa, Taviani fu agli Interni, Emilio Colombo al Tesoro. Venne imbarcato in segno di rispetto l’anziano Attilio Piccioni, Ministro senza portafoglio per i rapporti con il parlamento. Tra i socialisti Giolitti ebbe il Bilancio (l’avevano offerto a Fanfani e a Riccardo Lombardi, dai quali erano venuti due no, poi si era parlato di La Malfa); il socialdemocratico Tremelloni ebbe le Finanze.
Il cammino del primo governo con i socialisti dopo quelli ciellenistici del ’44-47 fu subito accidentato. La sinistra socialista meditava la scissione. Intuendolo, Nenni aveva inviato a Foa, segretario dei metalmeccanici e figura di primo piano della CGIL, una lettera con questo passaggio: «Vorrei dirti di non cedere, tu e i tuoi compagni, né all’impazienza, né alla irritazione, né all’orgoglio. Non c’è che una cosa da fare: affidarci al tempo (un tempo che sarà breve) perché i fatti dicano chi ha torto e chi ha ragione». Ma erano parole al vento. Nel voto sulla fiducia Lelio Basso annunciò, a nome della sinistra socialista, che venticinque deputati si sarebbero sottratti alla disciplina di Partito e, uscendo dall’aula, avrebbero attestato la diversità della loro posizione.
Era la premessa della nascita d’un terzo partito socialista, il PSIUP (Partito socialista italiano di unità proletaria): che dimostrò, organizzando una prima manifestazione a Roma, di disporre d’ingenti mezzi finanziari. La stretta parentela – nell’ideologia e negli obiettivi – tra i «carristi» della sinistra socialista e il PCI può far supporre che i finanziamenti arrivassero dalle casse comuniste o da quelle dell’ambasciata sovietica. Altri – ad esempio Giorgio Galli la cui dietrologia è solitamente diretta contro la DC – suppone invece, sulla falsariga d’un cui prodest? non del tutto convincente, che i democristiani avessero incoraggiato le defezioni. L’ENI e i potentati elettrici avrebbero a loro volta largheggiato in impegni e promesse per favorire la scissione che «avvantaggia la DC nella misura in cui riduce considerevolmente il peso elettorale, e quindi politico e contrattuale, del PSI». Il PSI perdeva così circa il venti per cento della sua rappresentanza parlamentare e (lo si vide presto) una fetta analoga del suo elettorato.
Ammesso e non concesso che la DC abbia fomentato questa rivolta in casa altrui, è sicuro invece che si adoperò – ci riferiamo a Moro e alla sua segreteria – per spegnere i molesti fuochi di ribellione dai quali era disturbata in casa propria. Scelba, Pella e una trentina di loro amici avevano dichiarato di non voler votare a favore del governo, e di voler uscire da Montecitorio durante il dibattito sulla fiducia. Intervenne con un editoriale perentorio, per riportare le pecorelle smarrite all’ovile, «L’Osservatore Romano»: verosimilmente ispirato da papa Montini, già chiamato a far sentire la sua influenza sulle cose italiane. Il Partito cattolico, ammonì il quotidiano vaticano, doveva rimanere unito. Scelba e Pella fecero marcia indietro, e il governo cominciò a lavorare.
Moro e Nenni si vedevano poco – tranne che nelle riunioni prefissate – non per cattiva volontà o per reciproco malanimo, ma per la diversa organizzazione della loro giornata. Di buon mattino Nenni era già a Palazzo Chigi e ne usciva poco dopo mezzogiorno, per la colazione. Moro arrivava press’a poco a quell’ora, restava fino alle tre o alle quattro del pomeriggio, poi usciva per concedersi una pausa (sovente dedicata al cinematografo). Nel frattempo Nenni tornava. Alle otto di sera se ne andava, e allora riappariva Moro. Con questi due nocchieri non comunicanti il governo si trascinò, tra fermenti sociali e inquietudini interne dei Partiti, fino al 25 giugno 1964, quando fu messo in minoranza alla Camera su una questione minore: l’approvazione del paragrafo 88 che, nel bilancio della Pubblica istruzione, assegnava maggiori fondi alla scuola privata.
Era un’occasione per resuscitare antiche polemiche sulla laicità dello Stato e sugli espedienti con cui la DC, partito confessionale, cercava di privilegiare gli istituti religiosi. Il Ministro della Pubblica istruzione, che era il democristiano Gui, sosteneva che l’incremento (149 milioni) delle somme destinate alla scuola privata era un fatto automatico, derivante dagli aumenti delle retribuzioni agli insegnanti. I «laici» ribattevano che con quella misura era stato violato il principio della separazione tra Stato e Chiesa. Nel voto decisivo – Moro, stranamente, non pose la questione di fiducia – la DC restò sola: 228 voti contrari e 221 a favore. L’indomani Moro si dimise.
Quest’epilogo era scontato, e la querelle sulla scuola aveva l’aria d’un pretesto. Nella DC – dove Moro aveva ceduto la carica di segretario al doroteo veneto Mariano Rumor, morbido per temperamento e mediatore per vocazione – s’erano alzate da tempo autorevoli voci dissidenti, prima tra tutte quella di Amintore Fanfani. Detronizzato sotto l’accusa d’eccessivo centrosinistrismo, Fanfani proclamava adesso che il centrosinistra non era irreversibile, così prospettando chiaramente la sua candidatura a una formula diversa. Ma la causa più profonda della rottura va cercata nella crisi economica che, dopo un lungo e splendido periodo di boom, stava investendo l’Italia: e che divenne un detonatore politico quando fu resa pubblica una lettera del ministro Colombo che sottolineava i contrasti esistenti nel governo, dove un «partito» dell’austerità e dell’ortodossia antiinflazionistica – che aveva i suoi capifila nello stesso Colombo e nel governatore della Banca d’Italia Guido Carli – si scontrava con un partito keynesiano, preoccupato soprattutto d’evitare fenomeni di recessione, che si riconosceva nella spinta riformistica socialista. Colombo, che non nascondeva la sua apprensione per il degrado dell’economia, chiesta udienza a Segni il 14 maggio, l’indomani aveva inviato a Moro una lettera in cui ammoniva sulla gravità della situazione, e chiedeva fosse dato corso alle contromisure severe che erano nelle intenzioni del Ministero del Tesoro e della Banca d’Italia.
Ricorrendo alla sua collaudata tecnica dilatoria, Moro aveva messo la lettera in un cassetto, fingendo di scordarsene. Ma non se n’era scordato Colombo. Il 27 maggio (1964) parte del contenuto della lettera fu pubblicato con grande rilievo dal «Messaggero». La fuga era stata certamente voluta, e fu attribuita a uno dei più stretti collaboratori del Ministro, Ferdinando Ventriglia.
Sul comportamento del Ministro, e del suo entourage, i pareri furono divisi. I più benevoli l’attribuirono ad una non immotivata preoccupazione per la sorte della lira, e all’irritazione per l’attendismo di Moro: i meno benevoli (come Nenni) dissero che «ciò che sostiene Colombo può essere difendibile o può non esserlo» ma «il metodo è quello di chi intenzionalmente colloca un petardo sotto i piedi del Ministero di cui fa parte». Il caso Colombo fu liquidato dai leader dei quattro partiti alleati con una nota che ribadiva l’accordo programmatico. Questa conferma cartacea della vitalità del governo fu diramata il 4 giugno. Venti giorni dopo il governo era morto.
L’economia italiana aveva, in effetti, rallentato il suo passo. Non era una recessione di dimensioni drammatiche, ma era una battuta d’arresto in un Paese che s’era andato abituando alla prosperità e, come poi si prese a scrivere, al consumismo. Nelle città del Nord una famiglia su tre aveva l’automobile, una famiglia su due aveva il televisore, i contadini inurbati assaporavano i piaceri e maceravano i dolori della condizione operaia, ma tutto questo stava avvenendo nel disordine amministrativo e nell’imprevidenza.
Carli, dal suo ufficio di governatore della Banca d’Italia, premeva per iniziative deflazionistiche, scontrandosi con la riluttanza del Ministro del Bilancio, il socialista Antonio Giolitti, e con le perplessità un po’ ingenue del vicepresidente del Consiglio Nenni. La nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’ingresso del PSI nel governo, che alla classe imprenditoriale e ai potentati finanziari privati erano parsi le premesse d’un corso «dirigistico» dell’economia, avevano provocato una massiccia fuga di capitali all’estero e sensibili perdite delle quotazioni borsistiche. Ma c’era dell’altro. Nel suo diario Nenni andava via via registrando – siamo nella fase che precedette l’affaire della lettera di Colombo e la caduta del governo – i segni di peggioramento.
«La tesoreria è a secco,» scriveva il 7 gennaio 1964 «le aziende di Stato o a partecipazione statale sono indebitate fino al collo. Le aziende private non stanno meglio. Secondo Carli, se non si adottano misure finanziarie spietate tutto il sistema monetario è destinato a saltare entro sei mesi. Queste le condizioni in cui noi socialisti arriviamo al governo.» Il 13 gennaio: «Per sei mesi, forse per un anno, bisognerebbe poter resistere a ogni nuova spesa, mentre ci sono esigenze in senso contrario e rivendicazioni da soddisfare». Il 14 febbraio: «Nuovi sintomi allarmanti. Si prevede che in estate cento, centocinquantamila muratori rientreranno dalla Svizzera per mancanza di lavoro. Donat Cattin mi dice che in poche settimane a Torino gli operai iscritti alla cassa integrazione sono passati da poche centinaia a sedicimila... C’è chi parla di ritorno ai campi». 13 marzo: «Con un provvedimento provocatorio la FIAT annuncia la riduzione delle ore di lavoro da 48 a 44». L’ENI era in difficoltà e Cefis progettava di tagliare i rami secchi, tra essi «Il Giorno». «C’è stata la scorsa settimana» sempre Nenni, l’8 aprile «una nuova offerta di Rizzoli (sette miliardi). Ma vorrebbe stampare il giornale nei suoi stabilimenti, forse per sopprimerlo dopo l’uscita di “Oggi”. L’eni offre la comproprietà del “Giorno” e di “Oggi” con la gestione affidata a Rizzoli. Non se ne farà niente.»
Le misure che Carli e Colombo vararono, mentre gli Stati Uniti concedevano un prestito d’oltre un miliardo di dollari, appartenevano all’ortodossia economica: vale a dire che piacevano ai dorotei ma non piacevano ai socialisti. Fu innalzato il tasso d’interesse, aumentato il prezzo della benzina, imposta una soprattassa sull’acquisto di automobili e limitato il ricorso alla rateizzazione. Il mercato immobiliare ebbe un crollo. Vi fu una perdita secca di occupazione e un quasi totale arresto dell’afflusso di mano d’opera dall’agricoltura all’industria.
Questo fu il quadro nel quale s’inserì la disputa tra le due scuole di pensiero economico (Carli e Colombo dauna parte, Giolitti dall’altra) e in cui sopravvenne l’incidente dei fondi per la scuola privata. Il declino dell’economia fu per la verità abbastanza breve. Già nel 1965 il momento difficile poteva dirsi superato. In quegli stessi mesi tuttavia la crisi politica andò acquistando connotazioni ambigue e inquietanti. L’estate del 1964 fu meno violenta di quella del 1960 (Tambroni) ma sotterraneamente non meno «calda». Un’estate di mormorazioni e di sospetti.