CAPITOLO DODICESIMO

IL TESTAMENTO DI TOGLIATTI

Il 9 agosto 1964 Palmiro Togliatti partì per l’URSS insieme a Nilde Iotti e alla figlia adottiva Marisa Malagoli.

Intraprendeva quel viaggio controvoglia. Avrebbe di gran lunga preferito trascorrere una vacanza sulle Alpi. Accusava fastidiosi acciacchi che gli avevano ispirato propositi di ritiro. «La riacutizzazione di un male alla vescica che da qualche tempo lo tormenta» ha scritto Giorgio Frasca Polara nella premessa a una recente edizione critica del Memoriale di Yalta «gli ha dato la preoccupazione e l’angoscia, forse più che del rischio della morte, del travaglio di una malattia penosa e della sorte dell’invalido, ch’egli si prospetta con esasperato pessimismo. Ne ha scritto a Longo, a marzo, proponendo e chiedendo una revisione degli organismi di direzione del Partito che lo liberi, e non in modo formale, del compito di presiedere all’attività operativa della periferia... Del problema si discute in due successive riunioni di direzione, e alla fine Togliatti si convince a soprassedere.»

Per di più sapeva che i suoi incontri con i Grandi Sacerdoti della Chiesa madre comunista non sarebbero stati facili né gradevoli. Il leader del PCI era andato assumendo negli ultimi tempi, pur con mille cautele e con reiterate professioni d’ammirazione verso il modello sovietico, posizioni più autonome. Parlava di «unità nella diversità» e delle «vie nazionali al socialismo». Kruscev non gli andava a genio, per le sue iniziative dirompenti, per i suoi atteggiamenti volgari, per il fondo di brutalità e sincerità contadina che distingueva il suo stile politico, e che era in flagrante contrasto con lo stile togliattiano: sottile, flessibile, prudente. Le concessioni di Togliatti alla minaccia e all’insulto erano rare, volute, e gelidamente calcolate. Quelle di Kruscev erano istintive. Il Russo aveva portato a un grado d’incandescenza il conflitto con la Cina di Mao; che al di sotto e al di là delle ostentate legittimazioni ideologiche era un conflitto per la supremazia nell’universo comunista. L’URSS si proponeva d’indire una Conferenza internazionale dei Partiti comunisti – di quelli, s’intende, che le erano fedeli – per ottenervi una scomunica solenne della Cina Popolare. Alla Conferenza Togliatti era decisamente contrario. L’aveva fatto sapere a Mosca, che non se n’era data per intesa. Kruscev chiese di vedere Togliatti, probabilmente per convincerlo, e Togliatti si rassegnò ad andare a rapporto.

Vien fatto di chiedersi se, alla partenza dall’Italia, Togliatti sapesse che il potere di Kruscev vacillava; e se, sapendolo, volesse con la sua presenza in URSS dare una mano al pericolante perché rimanesse in sella, o dargli uno strattone per renderne più certa la caduta. Tutto lascia supporre che Togliatti fosse informato delle difficoltà dello zar. Con le sue antenne sensibili di uomo d’apparato, e con le informazioni portate dai «compagni» che tornavano dall’URSS dopo una visita di «lavoro» o di vacanza, aveva sicuramente captato segnali allarmanti. La consapevolezza delle difficoltà di Kruscev aiuta del resto a spiegare gli ardimenti polemici del «memoriale». Quanto alle intenzioni di Togliatti, i pareri, anche tra chi gli era più vicino, o comunque poteva avere notizie di prima mano, erano e restano divergenti. Nilde Iotti e Amendola gli hanno attribuito il proposito di schierarsi, sia pure alla sua maniera reticente, con Kruscev che in fin dei conti aveva lasciato assai più larghi margini di indipendenza ai Partiti periferici. Meglio lui d’un «duro» alla Suslov.

Togliatti si proponeva però d’insistere perché Kruscev arrivasse, abbandonando la strategia dello scontro frontale, a un accomodamento con i Cinesi. Ha dichiarato Luigi Longo: «Ho sentito dire che il viaggio di Togliatti in Russia e il Memoriale furono la goccia che fece traboccare il vaso dell’ostilità di Kruscev. Per quanto ne so io, Togliatti si mosse principalmente per evitare che la spaccatura tra Russi e Cinesi divenisse irreparabile». Leo Valiani propende per tutt’altra ipotesi. Togliatti era inserito secondo lui in una trama che includeva proprio Suslov e che aveva per scopo la defenestrazione di Kruscev. Certo è strano che, se davvero Togliatti era pro Kruscev, questi gli abbia usato – come si vedrà – lo sgarbo di non riceverlo all’arrivo.

Il viaggio aereo fu lungo e disagiato, e durò tre giorni, con soste a Francoforte, Copenaghen e Stoccolma. All’aeroporto di Mosca si fecero incontro a Togliatti Brežnev e Ponomariov. Kruscev non si fece vedere, e Togliatti ne fu molto amareggiato. I proconsoli di Kruscev – che furono anche, un paio di mesi dopo, i suoi affossatori politici – spiegarono che il Segretario generale era dovuto partire per una ispezione nelle terre vergini. Aggiunsero che altri esponenti di primo piano del Presidium erano in ferie. Insomma era il vuoto o quasi, una strana accoglienza per il veterano del Comintern e l’autorevole leader del più forte PC dell’Occidente.

Sistemato nella dacia che era d’obbligo per i visitatori d’alto lignaggio, Togliatti ebbe una riunione con Ponomariov e l’ambasciatore a Roma Kozyrev. Lì, per suggerimento della moglie di Kozyrev, fu deciso che per Togliatti e i suoi fosse conveniente il soggiorno in una località più amena. Era inutile che restasse a Mosca, isolato. Si optò per Yalta, e per la ex villa di Alessandro III. Le prime conversazioni con i Sovietici non erano state idilliache. Con Brežnev e Ponomariov il freddo Togliatti era arrivato sull’orlo del litigio, a un certo punto sbottando: «Voi non capite niente, fatemi parlare con Kruscev, con voi non si può ragionare».

Poiché l’interlocutore che gli premeva era latitante, Togliatti cominciò a stendere di getto, già a Mosca, il documento che doveva fissare nero su bianco le sue idee, e lo completò a Yalta. Può darsi che l’idea di ricorrere a una lettera per sintetizzare le sue idee fosse venuta a lui, può egualmente darsi che gli fosse stata ispirata, come qualcuno ha supposto, da Ponomariov. Certo gli piacque, e la fece sua.

Non si trattava d’uno scritto destinato alla pubblicazione, ma nemmeno, come ha osservato Bocca, d’un documento segreto. Era indirizzato a Kruscev (e Togliatti si riferiva a «ulteriori scambi di idee con voi», sottolineando con distaccata ironia «qualora questi siano possibili»), ma era sicuramente previsto che circolasse tra i dirigenti del PCUS e anche tra i massimi dirigenti del PCI.

Rispetto ai messaggi e alle relazioni di cui erano destinatari i semplici militanti il memoriale era contrassegnato da una maggiore asciuttezza, e dalla mancanza del frasario di prammatica sulle mirabili realizzazioni del comunismo e dell’URSS. La scomparsa di Stalin favoriva senza dubbio questa ricerca di sobrietà critica. Lui vivo, l’entusiasmo era d’obbligo. Completato il memoriale, Togliatti incaricò la Iotti di batterne a macchina alcune copie, e più tardi ne affidò la traduzione a una «compagna» sovietica del settore esteri.

Lo scritto aveva un piglio fermo e chiaro: il piglio d’un notabile comunista che non dimentica d’esserlo, e paga il necessario tributo agli schemi dogmatici di partito: ma che, consapevole del proprio prestigio, è altrettanto consapevole della debolezza del destinatario, e si prende delle libertà. La prima parte era dedicata alla linea di Kruscev verso i Cinesi, «le cui conseguenze giudico non del tutto buone». Certo l’Occidente restava il nemico di sempre e il vinto di domani: «Diventano in questo momento più forti le basi oggettive di una politica reazionaria, che tende a liquidare o limitare le libertà democratiche, a mantenere in vita i regimi fascisti, a creare regimi autoritari, a impedire ogni avanzata della classe operaia e ridurre il suo livello di esistenza... La crisi del mondo economico borghese è molto profonda».

Reso così il rituale – anche se più contenuto che in altre occasioni – omaggio ai luoghi comuni marxisti, Togliatti passava alla situazione dei Paesi comunisti, con ammissioni piuttosto spregiudicate. «Non è giusto parlare dei Paesi socialisti – e anche dell’Unione Sovietica – come se in essi tutte le cose andassero sempre bene.» E ancora: «La cosa più grave è una certa dose di scetticismo con la quale anche elementi vicini a noi accolgono le notizie di nuovi successi economici e politici».

Buttata in faccia a Kruscev, era una sberla mica male. Nel memoriale la situazione italiana era trattata nel contesto generale, tanto più che Togliatti ne riservava l’esame alle successive «spiegazioni e informazioni verbali».

Non poté mai darle. Per il 13 agosto era stato invitato a visitare un campo di pionieri. «Si sentiva affaticato» ha raccontato Nilde Iotti. «Ci andammo a piedi camminando per la pineta. Notai che era pallido, ma non mi parve in condizioni preoccupanti. Si sentì male durante lo spettacolo dei pionieri.» Una emorragia cerebrale aveva folgorato Togliatti che agonizzò per otto giorni. Il 20 agosto fu tentato, in extremis, un intervento chirurgico che si rivelò inutile.

Alle 13.30 del 21 Togliatti spirò. Si precipitarono a Yalta i capi comunisti che avevano disertato il suo arrivo, Kruscev, Podgorni, Kossighin. Erano già sul posto, accorsi dall’Italia, Longo, Lama, Natta e altri esponenti del PCI. Fu subito posto il quesito: pubblicare o no il memoriale? Longo era per il sì, Natta esitava. Ripartendo dall’URSS, Longo consegnò una copia del memoriale ai Sovietici, poi scrisse un promemoria per l’Ufficio politico, spiegando per quali ragioni fosse arrivato alla conclusione che era meglio renderlo noto. Ne parlò, nell’orazione funebre che pronunciò a Roma in piazza San Giovanni, «per impedire manovre che avrebbero potuto bloccare la nostra decisione». «Su questi argomenti» disse Longo alla folla «il compagno Togliatti ci ha lasciato un suo memoriale.» Curiosamente, esso fu dato poi alle stampe nell’URSS, forse per corredare d’argomenti l’attacco a Kruscev. A questo scopo Suslov ordinò che la «Pravda» lo riproducesse integralmente.

I funerali di Togliatti, il 25 agosto, mobilitarono una folla immensa. «Si sono risolti» annotò Nenni «in una imponente manifestazione di forza, come il PCI voleva. Forse c’era meno commozione e spontaneità, anche se c’era più grandiosità, che in altri funerali, per esempio quelli di Di Vittorio.» L’indomani lo stesso Nenni aggiungeva: «Dura l’impressione per i funerali di Togliatti. “L’Unità” intitola Eravamo un milione. Le cifre ufficiali parlano di duecentocinquantamila. Polemica ridicola. Al di là di un certo plafond gli zeri non contano più... Il Comitato centrale del PCI ha nominato Longo segretario generale. Era scontato: Longo è da vent’anni il vice di Togliatti. Non ne ha l’ingegno né la dottrina. Conosce meglio di Togliatti i quadri del Partito. Ho visto in Spagna come sa comandare. Nomina interlocutoria? Può darsi. Tra l’altro sembra che Longo non abbia buona salute. Ma i luogotenenti non hanno denti per affrontarlo. Ed è del resto naturale che il loro primo istinto sia di fare quadrato attorno al sergente furiere di giornata ora che il Generale è scomparso».

Per rispetto verso l’URSS – memoriale o no – i comunisti evitarono di chiedersi, in pubblico, se il loro leader fosse stato curato adeguatamente a Yalta. Privatamente Spallone, che di Togliatti era il medico e uno tra gli amici più stretti, fu molto duro. Togliatti era stato ucciso, disse, «non solo dalla trombosi cerebrale, ma da cure sbagliate e dalla mancanza di apparecchiature mediche adeguate. Fanno voli verso la luna e mancano delle cose elementari».

La nuova dirigenza del PCI fu presto messa alla prova – per quanto riguardava i rapporti con l’URSS – dal terremoto che squassò il Cremlino a metà ottobre del 1964. Il giorno 16 la «Pravda» pubblicò in quattro ipocrite righe, quasi si trattasse di routine politica, la notizia che l’impetuoso Nikita s’era dimesso «per motivi di salute».

La spiegazione, che poteva bastare per i milioni di compagni Ivan costretti a nutrirsi di menzogne e reticenze ufficiali, non convinse nessuno nel mondo di fuori. I Partiti comunisti dell’Occidente, che fronteggiavano una informazione vivace e polemica, tentarono d’avere, a botta calda, qualche maggiore dettaglio e chiarimento, ma si scontrarono con il cocciuto silenzio di Mosca. A quel punto Longo si risolse ad inviare nell’URSS una delegazione che chiedesse e se possibile ottenesse spiegazioni. A guidarla fu scelto – ed era un segno evidente della sua «crescita» ai vertici del PCI – Enrico Berlinguer, che venne affiancato da Paolo Bufalini e da Emilio Sereni. Berlinguer aveva, nella segreteria, l’incarico di seguire le questioni internazionali, e questo lo abilitava, burocraticamente, alla missione. Ma in più c’era la sua ortodossia comunista mai incrinata, e la sua ammirazione per l’URSS: tutte garanzie per gli interlocutori sovietici.

Il Berlinguer del ’64 non era però lo stesso che nella sua qualità di dirigente di organizzazioni giovanili, aveva visitato l’Unione Sovietica nel 1946 con occhi ammirati o addirittura estatici. Tutto gli era parso stupendo. O almeno diceva che tutto era stupendo. A chi, al ritorno, osò rivolgergli una domanda frivola sulle ragazze di lassù, rispose gelido (lo riferisce Chiara Valentini nella sua biografia di Berlinguer): «Nel Paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In URSS non ci sono donne, ci sono compagne sovietiche». Una risposta da burocrate di Partito e da puritano, e Berlinguer era l’una e l’altra cosa. Qualche sua convinzione s’era peraltro appannata in quasi vent’anni, qualche illusione era sfumata.

A Mosca ottenne che non lo confinassero, come voleva il protocollo, in una dacia lontana, ma che lo alloggiassero, con gli altri due messaggeri, in un albergo del centro. I tre furono dapprima ricevuti da Suslov e da Ponomariov. Berlinguer pose, alla sua maniera pignola, seria, un po’ triste, degli interrogativi molto precisi. Osò perfino dire: «Non capite che con questi metodi compromettete il nostro prestigio?». I Sovietici reagirono stizziti, affermarono che Kruscev era un improvvisatore, esclusero che il dissidio tra l’URSS e la Cina fosse stato tra le cause della sua disgrazia. E, volendo trovare un pretesto per controaccusare, imputarono al PCI d’avere reso pubblico intempestivamente il memoriale di Yalta, formato da «appunti riservati per una discussione tra compagni».

Brežnev, che vide i tre a ventiquattr’ore di distanza, fu meno aspro. Ma pose come condizione che nel rituale comunicato congiunto non vi fosse traccia delle critiche e delle perplessità espresse dalla delegazione del PCI. Tuttavia un documento della direzione comunista inserì in una valanga di frasi la constatazione che, per quanto riguardava la destituzione di Kruscev, v’erano «punti di vista diversi tra il PCUS e il PCI». Berlinguer aveva perfino acquistato, con il trascorrere del tempo e il moltiplicarsi di segni di malessere del comunismo, qualche capacità di humour. «Le leggi generali del socialismo» disse una volta a Bufalini «sono tre: le statistiche non sono vere, l’agricoltura va male, le caramelle si appiccicano alla carta.»