CAPITOLO TREDICESIMO

LA SFIDA DI NATALE

Mentre Segni era impedito, e Kruscev era liquidato, il centrosinistra dovette passare un altro esame. La tornata di elezioni amministrative prevista per il 22-23 novembre 1964 coinvolgeva 74 consigli provinciali e ben 6767 consigli comunali: in tutto trentadue milioni di Italiani erano chiamati alle urne. Il test era di particolare importanza per i tre partiti maggiori. La DC, che le politiche del ’63 avevano punito, doveva valutare, in questa prova d’appello, la sua tenuta. Nel Partito, che aveva celebrato a metà settembre il suo Congresso confermando alla segreteria Mariano Rumor, era sempre dominante la corrente moro-dorotea: che tuttavia, con una metà scarsa dei consensi congressuali, doveva fare i conti con le altre componenti: i fanfaniani (21 per cento), la sinistra di Base e di Forze nuove (20 per cento), gli scelbiani e scalfariani (11 per cento).

Per i socialisti l’appuntamento di novembre era ancor più significativo, e più spinoso. Si sarebbe visto, non più in parlamento, ma nel Paese, quale fosse stato l’impatto della scissione, e quanta «base» il PSIUP fosse riuscito a strappare al vecchio tronco. Nenni era insieme risoluto e rassegnato. La strada del centrosinistra, imboccata dopo tanto travaglio e tante esitazioni, gli pareva l’unica percorribile. Il responso degli elettori poteva confortarlo o avvilirlo, non indurlo a rettifiche. Ma attorno a lui era tutto un ribollire di critiche, ansie, ambizioni e puntigli. Nenni fu volta a volta il capo e il padre nobile del PSI, non ne fu mai il padrone alla maniera di Craxi. Di personaggi notevoli – che erano magari creduti, o si credevano, eccezionali – il PSI ne aveva in abbondanza, della vecchia guardia e della nuova (Bettino Craxi faceva ancora il suo tirocinio milanese). Semmai ne aveva troppi. Era un PSI di unanimismi rari e retorici, di scissioni e riunificazioni ricorrenti per la convivenza necessaria e impossibile tra le sue due anime di sempre, la riformista e la massimalista. Ora, staccatisi quelli del PSIUP, il PSI era più riformista, ma non per questo più compatto. Nenni sapeva benissimo che un calo vistoso l’avrebbe messo sul banco degli imputati.

Infine la nuova dirigenza comunista saggiava lo stato di salute del PCI che la morte aveva privato di Togliatti, che aveva in Mosca un punto di riferimento sempre meno affidabile, e che soffriva, al suo interno, di ben dissimulati contrasti sulla linea politica: in particolare sull’atteggiamento da tenere verso la DC e il PSI, con Ingrao che coltivava disegni di cattocomunismo, e Amendola che propendeva invece per una grande sinistra, una riedizione aggiornata del Fronte popolare. I due diversi obiettivi presupponevano due diverse strategie. Ma la contesa restò confinata nell’ambito degli eletti, e gli elettori comunisti andarono alle urne sollecitati da una problematica molto più banale, quella del malcontento che deriva dal malessere sociale, ma deriva anche dall’accresciuto benessere. Il PCI era costretto a spiegare alle masse popolari come mai il mondo occidentale, nonostante la breve recessione italiana, progredisse impetuosamente, e come mai i due colossi del comunismo, l’URSS e la Cina, fossero arrivati alle soglie della guerra. Si vide poi che l’elettorato s’accontentava di chiarimenti che non chiarivano nulla. I capi comunisti assicurarono comunque che, se fossero arrivati al potere, avrebbero accettato l’esistenza d’una opposizione (corredarono peraltro questa apertura liberaldemocratica con una precisazione inquietante: i partiti d’opposizione avrebbero dovuto acconsentire alla costruzione d’una società socialista); annunciarono inoltre che riconoscevano il dovere d’un partito e d’un regime, quando fosse diventato minoranza, d’abbandonare il governo. Erano concessioni (solo verbali, e indimostrabili nella pratica) al metodo democratico occidentale, ossia a quel tipo di democrazia che il compianto Togliatti aveva sempre schernito come di gran lunga inferiore alla democrazia «socialista», inverata a Mosca o a Varsavia o a Budapest.

Le urne non premiarono ma nemmeno bastonarono la DC, che ebbe una flessione molto lieve nel raffronto con le politiche del ’63, (dal 38,3 al 37,36 per cento), flessione giustificata in larga parte dal carattere locale della consultazione. Assestarono invece un colpo serio al PSI, i cui capi dovettero amaramente costatare che con il PSIUP non se n’era andato soltanto un gruppo di notabili: se n’era andato il venti per cento degli elettori. Dal 14,2 del ’58 all’11,30, con un PSIUP che si prendeva il 3 per cento. Nenni fu accorato nel suo commento: «(Siamo) vinti dal nostro rodimento interno... Nelle maggiori città siamo sopravanzati dai liberali, in alcune persino dai missini. Siamo partiti nel 1946 dal 20,7 vicino a un Partito comunista che veniva dopo di noi e che oggi raccoglie il 25,26 dei voti. Due scissioni ci hanno pressoché distrutti e non si può non ammirare la fedeltà dei tre milioni di elettori che ci seguono malgrado tutto».

Per la verità la percentuale comunista era stata un po’ superiore a quanto Nenni avesse scritto a caldo: il 26,02 per cento, una nuova paradossale attestazione di vitalità da parte d’un Partito che doveva aver tutto a suo sfavore, gli avvenimenti esteri, la prosperità nazionale, l’apertura a sinistra del governo, anche la creazione d’un PSIUP su alcune tematiche più a sinistra del PCI; e che pure avanzava di elezione in elezione, e ora poteva vantarsi d’aver superato, dopo quella del 25 per cento nel ’63, la soglia del 26 per cento.

I trionfatori, insieme ai comunisti, furono i liberali che toccarono l’8 per cento dei voti, e che capirono – o forse non capirono, se si guarda alla loro politica e ai loro risultati successivi – che la posizione conservatrice di critica dura al centrosinistra era elettoralmente fruttuosa.

Sostanzialmente azzerati i monarchici, fermi i repubblicani e i missini, e infine in ulteriore progresso i socialdemocratici (dal 6,1 al 6,68).

Ciò rinfocolò le speranze di Saragat, il quale sapeva ormai ineluttabilmente vicina – per il perdurare delle condizioni di Segni – l’elezione presidenziale, e affacciava con vigore una implicita anche se non ancora confessata candidatura (anzi una ricandidatura, tenendo conto di ciò che era avvenuto due anni e mezzo prima).

Individuando in Fanfani il potenziale candidato della DC, e quindi un rivale, Saragat ne aveva denunciato, nel Comitato centrale socialdemocratico dei primi di ottobre (1964), le disinvolte escursioni tra vari settori dello schieramento democristiano: «Che dire di un gruppo di potere che, nella fase più delicata della politica di centrosinistra, ha rovesciato nel modo più spregiudicato le sue posizioni e – peggio ancora – ha realizzato un’ambivalenza opportunistica, per cui può riscuotere simultaneamente il plauso della stampa fascista e di quella comunista, e può indifferentemente collocarsi in posizione critica nei confronti del governo, oggi con argomenti demagogici di destra, e domani con argomenti demagogici di sinistra?».

Sistemato così Fanfani che non badava a mezzi pur di cattivarsi appoggi, Saragat si preoccupava però di blandire i comunisti, che quando era stato contrapposto a Segni l’avevano sostenuto, e che anche questa volta, se ne rendeva conto, gli sarebbero stati necessari. «Noi diciamo» affermò Saragat in una intervista televisiva di circa un mese dopo «che non è possibile collaborare con i comunisti al governo: vale a dire che non è possibile assumere una corresponsabilità governativa con un Partito che non crede nella democrazia politica. Ma se domani fossero possibili delle convergenze sul piano pratico, vale a dire, per esempio, in una lotta sindacale in cui la classe operaia socialdemocratica [quale?, N.d.A.] si trovasse a combattere per una giusta causa, non si può respingere l’alleanza con un sindacato comunista. Se ci troviamo a votare in parlamento una legge giusta, con le forze reazionarie che fanno il sabotaggio e i franchi tiratori che cercano di impedire che la legge passi, io dico: i voti comunisti sono accettati, ben vengano i voti comunisti.» Da queste parole Malagodi trasse spunto per dire il 6 novembre (1964) che Saragat era più a sinistra dei comunisti. Tanto che Rumor allarmato – si era alla vigilia delle amministrative del 22 novembre – intervenne per spiegare che, secondo lui, non conveniva allo sviluppo della democrazia «ipotizzare la possibilità di contingenti e momentanee convergenze con i comunisti».

Con le premesse che abbiamo illustrato l’elezione presi denziale del dicembre 1964 – quinta nella storia della Repubblica, e terza nel decennio percorso da questo libro – s’annunciò come ancora più controversa e incerta delle precedenti. La Democrazia cristiana era, secondo tradizione, rissosa: e lasciava ampi spazi sia alle manovre interne delle correnti, sia a quelle degli altri Partiti. Mancava, nell’opposizione, un regista della sottigliezza e della disinvoltura di Togliatti, capace di piegare la dirigenza comunista ai suoi disegni. Ma non c’era bisogno d’un tessitore di trame sopraffine per approfondire le lacerazioni democristiane, affiorate con chiarezza quando, il 15 dicembre, i gruppi parlamentari del Partito dovettero designare il loro candidato al Quirinale. La scelta del candidato – quella che in America chiamano nomination – cadde su Giovanni Leone («ci sono andato con la più stupida innocenza» confidò più tardi Leone stesso) ma con significative defezioni. Circa duecento voti a Leone, un’ottantina a Fanfani, una quarantina al sindacalista Giulio Pastore, una trentina a Scelba, gli altri dispersi. Come armata, quella DC era degna di Brancaleone. Fanfani, che nel Partito era minoritario, sapeva peraltro di poter contare su potenziali appoggi esterni, che sarebbero diventati operativi il giorno in cui la sua candidatura si fosse sufficientemente consolidata. Sperava insomma in una riedizione, corretta e riveduta, del meccanismo che nel 1955 aveva issato Gronchi al Quirinale. I comunisti si tenevano di riserva (infatti nelle prime votazioni diedero compattamente i loro voti a Terracini): ma Ingrao era disposto ad appoggiare Fanfani, e Amendola era piuttosto in favore d’un candidato socialista.

A loro volta i socialisti s’erano pronunciati, all’unanimità, per Saragat. «Ma è una unanimità fittizia» osservava Nenni. «Lombardi, Bertoldi e altri hanno insistito sul mio nome ed espresso il convincimento che ci si arriverà. Questo è il segreto pensiero dei compagni che hanno condotto con me la battaglia autonomista. Ci pensano sino a esserne ossessionati.» Nenni era del parere – alla lunga smentito dai fatti – che i due primi candidati «veri», ossia Leone e Saragat, fossero destinati a «bruciarsi» vicendevolmente e che tutto si sarebbe risolto con il sopravvento d’un terzo. Pertini dava vincente Fanfani al quarto scrutinio (sbagliava anche lui).

Saragat, pur scottato dalla sconfitta del 1962, voleva fortemente la candidatura, e nello stesso tempo voleva evitare una crisi di governo, avendo preso gusto a fare il Ministro degli Esteri. Erano due desideri difficilmente conciliabili, perché la candidatura Saragat lo poneva in rotta di collisione con la DC. «Se la DC designasse Saragat» aveva confessato mestamente Moro a Nenni «l’elezione di Fanfani diverrebbe ineluttabile per la ribellione dei gruppi parlamentari.» Saragat, generoso ed egocentrico nello stesso tempo, faticava a capire l’ostilità che i democristiani gli riserbavano per il Quirinale. Già nel 1962, in una accorata lettera personale a Moro, aveva ricordato che «quando si tentò di trascinare la DC nel fango colpendola con voci calunniose (voci partite purtroppo dal seno della DC stessa) nella persona del suo attuale Presidente [Attilio Piccioni per l’affare Montesi, N.d.A.] fui io l’unico tra i capi partito a levarsi per difendere con la verità le condizioni stesse della convivenza democratica... Ebbene la DC in questo momento mi sta elevando un monumento, ma un monumento di ingratitudine». La gratitudine non è di questo mondo, e ancor meno del mondo politico, ma Saragat, veterano del Palazzo, fingeva di dimenticarlo.

Il quorum necessario per l’elezione del Presidente (beninteso al quarto scrutinio, i primi tre, con la loro prescritta maggioranza di due terzi, non contavano) era di 482 voti. Se tutti i democristiani (399) e in più i liberali (57), i missini (42) e i monarchici (10) avessero votato per lui, Leone sarebbe riuscito con una maggioranza alla Segni. La situazione presentava invece ben altre prospettive.

Leone esordì il 16 dicembre con una buona dote di 319 voti, mentre Fanfani ne aveva appena 18, e Saragat 140.

Dopodiché Leone procedette di bene in peggio, con estenuanti alti e bassi (304, 298, 290, 294, 278, 313, 312, 305, 299). Dal primo al decimo scrutinio Fanfani andò progredendo, portandosi fino a quota 129, e Saragat restò fermo, anzi con un lieve regresso (138) per qualche defezione, si suppone, lombardiana e della destra socialdemocratica (Paolo Rossi). Il suo tetto era infatti a quota 149.

Per Fanfani votavano, oltre a una parte dei dissidenti democristiani, anche i socialproletari. Tra i DC s’erano formati altri due gruppi, uno per Pastore (una quarantina), un altro per Scelba (una trentina). Era la stessa veste d’Arlecchino della DC che s’era vista quando i gruppi parlamentari avevano designato il candidato. Leone definì questa prova «un supplizio cinese perché era tutto un gioco complicato di schede bianche o dirottate su candidature di comodo perché si perdessero le tracce dei franchi tiratori». Il Paese assisteva tra il disgustato e il divertito allo spettacolo che il parlamento gli offriva, in tutta gratuità e inverecondia.

La DC in pezzi aveva un tenue motivo di consolazione nelle piroette degli altri Partiti. I liberali decisero il 19 dicembre di schierarsi con Leone, il che lo spinse provvisoriamente un po’ più in alto, ma gli fece perdere una ulteriore fetta di consensi tra i cosiddetti «amici» del Partito. Saragat inviò quello stesso giorno ai tre Partiti laici del centrosinistra (PSI, PRI, PSDI) una lettera che suonava come una rinuncia alla candidatura, ma in serata un suo portavoce comunicò alla stampa una nuova dichiarazione dalla quale risultava che il leader socialdemocratico era sempre in gara. Fanfani annunciava propositi di resistenza a oltranza e chiedeva la solidarietà di Nenni: il quale gli rispose che non poteva votare per lui anche se non sposava «i rancori moro-dorotei».

Il 20 dicembre Saragat sembrò spacciato. Quando era corsa voce della sua rinuncia, qualcuno che nel PSI non vedeva l’ora di liberarsene, aveva preso la palla al balzo: e proposto che fosse finalmente affacciato il nome di Nenni. Saragat, che come abbiamo visto non aveva affatto abbandonato, fu invitato a un incontro chiarificatore con La Malfa e con Nenni. «A me che gli telefonavo affinché venisse alla riunione» questa la versione di Nenni «ha risposto che la mia candidatura era una manovra ordita contro di lui, che io ero dietro la campagna dell’“Espresso”, che il gruppo socialista tradiva lui e avrebbe tradito me ecc. ecc. L’ho mandato al diavolo! Avendolo poco dopo incrociato durante le votazioni in un corridoio mi è venuto incontro sorridendo.»

In questo frangente i tre «laici» optarono, interlocutoriamente, per la scheda bianca, il che avvenne il 20 dicembre.

Nei due giorni successivi si ebbero delle novità rilevanti, o se vogliamo chiamarli così, dei colpi di scena, ma le fumate continuarono ad essere nere. Anzitutto i socialisti e i repubblicani convogliarono i loro voti su Nenni, presto imitati dai comunisti; i missini si aggregarono allo schieramento di Leone; i socialproletari abbandonarono Fanfani ma non ne vollero sapere di Nenni, e invece tornarono al loro candidato di bandiera (Alcide Malagugini); infine Fanfani e Pastore uscirono di scena, almeno formalmente.

Agli inviti che gli venivano rivolti perché si ritirasse – uno particolarmente autorevole e pressante del Vaticano, tramite monsignor Dell’Acqua che sicuramente agiva per incarico di Papa Montini – Fanfani replicò dapprima con un escamotage dialettico: non poteva, disse, ritirare una candidatura che non aveva mai presentato. Ma poi si rassegnò dichiarando che, «nella situazione venutasi a creare», era costretto ad attenersi alle decisioni degli organi dirigenti della DC. Pastore si limitò ad osservare che la propria candidatura era andata incontro alle aspirazioni dei ceti popolari.

Pareva fatta, per Leone, e non lo era per niente. Al quattordicesimo scrutinio egli toccò la quota 406, il suo record (Nenni 353, Malagugini 40, Saragat 8, bianche 129). Qualche scheda portava il nome del senatore Lodovico Montini, fratello di Paolo VI, forse come segnale polemico per il veto opposto dal Vaticano a Fanfani. Gli ex fanfaniani e pastoriani s’erano dunque convertiti in massima parte alla scheda bianca, il che toglieva i nomi dei due notabili democristiani dalle schede, ma non li aggiungeva al gruzzolo di Leone, che era cotto. Se ne rendeva conto lui e se ne rendevano conto Moro e Rumor, tanto che entrambi esaminavano già una rosa d’altri nomi: Campilli, Fanfani, Pastore tra i loro, e Saragat. Un po’ grottescamente, Mariano Rumor ritenne che fosse quello il momento più adatto per usare il pugno di ferro verso i ribelli della DC: proclamando d’avere individuato i promotori della secessione in De Mita e Donat Cattin, li sospese «per atti di rilevante indisciplina politica». Leone sapeva di non poter fare affidamento alcuno sugli effetti di quest’improvviso sussulto d’energia del segretario del Partito. Che tuttavia aveva lanciato l’effimera scomunica contro esponenti di secondo piano, anche se molto attivi come agit-prop della dissidenza, non contro i protagonisti della dissidenza stessa. Leone ne ebbe abbastanza, e lo comunicò alla direzione democristiana con una lettera di rinuncia «dignitosa e polemica» (così la qualificò Nenni). Leone spiegava d’essere estraneo alle correnti, e d’aver accettato una candidatura offertagli attraverso una scelta democratica. Forte dei meriti acquisiti con otto anni d’imparziale Presidenza alla Camera, era convinto che la DC potesse schierarsi compatta sul suo nome, ed avere il consenso dei Partiti democratici «dai quali per altro più volte avevo ottenuto i più ampi riconoscimenti di lealtà e d’equilibrio». Era stato invece deluso dai suoi colleghi di partito, «sconcertante fenomeno sul quale, in un momento così delicato ed impegnativo, devo per ora rinunciare a dare indicazioni e a formulare un giudizio». Il suo ritiro, precisò Leone, era irrevocabile.

La DC aveva perduto Leone senza essere in grado d’avanzare un altro nome. «Fatto mai accaduto nella sua vita più che centenaria», come ha rilevato Vittorio Gorresio, il parlamento italiano tenne seduta il giorno di Natale di quel 1964. Fu un Natale amaro per i democristiani (ma se l’erano voluto) che infilarono nell’urna scheda bianca, incapaci com’erano di vincere ed esitanti a confessare la loro bancarotta. Mentre sfilavano davanti all’urna di vimini, i deputati e senatori DC raccoglievano sarcasmi – o peggio – da altri parlamentari. Il senatore socialproletario Adelio Albarello gridava «Vergognatevi» ad ogni passaggio, monarchici e missini, con variazione sul tema, urlavano «svergognati», poi finì che l’estrema destra si azzuffò con l’estrema sinistra, e i commessi s’interposero per evitare pugilati. In piazza Montecitorio sostava una piccola folla che commentava le cronache delle radioline con l’epiteto «buffoni!». I giornalisti più versati in materia storica e politica ricordavano che il parlamento italiano meritava un posto nel Guinness perché era stato battuto ogni record mondiale di lunghezza delle elezioni presidenziali. Il precedente primatista, François Coty, era stato eletto in Francia, dopo tredici votazioni, il 23 dicembre 1953: ma gli era toccato anche d’essere l’ultimo Presidente della Quarta Repubblica francese.

Il giorno di Santo Stefano Saragat tornò prepotentemente alla ribalta perché i democristiani erano disposti ormai ad accettarlo, per stanchezza più che per convinzione. Ma non bastava. Il segretario socialdemocratico Mario Tanassi non esitò, per propiziargli la vittoria, a compiere un gesto d’umiltà chiedendo ed ottenendo d’essere ricevuto in via delle Botteghe Oscure, sede del PCI. Lo accolsero Longo, Terracini e Ingrao, disposti – lo dissero subito – a trasferire i loro voti da Nenni a Saragat purché fosse messo nero su bianco, in un comunicato, che quei voti erano stati esplicitamente richiesti, e che il PSDI avrebbe accettato la confluenza di tutti i Partiti democratici ed antifascisti (con l’esclusione dunque del MSI).

Tanassi s’illuse d’aver trionfato. Ma quando riferì del colloquio a Rumor, il segretario della DC chiese tempo: doveva consultarsi con i suoi. Lo fece provocando la reazione dell’incollerito Scelba. Il comunicato era inaccettabile. Per effetto di quest’irrigidimento democristiano Saragat toccò quota 311, ma Nenni fu più in alto (380). Esterefatti, gli italiani registrarono la contrapposizione di due leader socialisti.

Poiché Tanassi aveva fallito nella sua opera di mediazione, toccava ora a Saragat in persona il compito di ricucire quella che Nino Valentino, in La battaglia per il Quirinale, ha definito «la tela strappata» della sua candidatura. In compagnia di Antonio Cariglia e di Mario Tanassi (secondo Gorresio) o di Tanassi e Castelli (secondo il diario di Nenni) Saragat andò la sera del 27 dicembre nella sede del gruppo parlamentare socialista. «Gli ho stretto la mano» scrisse Nenni «dicendogli che c’è tra noi un caso personale da risolvere in separata sede. Ha risposto che non c’è più nessun caso personale [la magnanimità dei candidati in cerca di voti è infinita, N.d.A.]. Discussione molto franca e molto serena. Ha detto che se ci fosse una possibilità su cento di successo per me avrebbe dato i suoi 40 voti (non 47 perché sette socialdemocratici votano contro di lui). Ha riconosciuto che la sua elezione dipende dai comunisti. Ha preso tempo fino a domani mattina per chiarire coi comunisti se può avere i loro voti. Diversamente, chiuso lo scrutinio, ci riuniremo per decidere o il ritiro dell’una o dell’altra candidatura, oppure il ritiro di tutte e due.»

Vi fu l’indomani un fitto scambio di lettere. Nenni scrisse alla direzione del suo Partito per informare che Saragat gli aveva offerto i voti socialdemocratici ma che, mancando alla sua (di Nenni) candidatura i voti necessari anche con quell’apporto, «io credo che tocca a noi riversare i nostri voti sulla candidatura Saragat». Tanassi scrisse a Nenni per ringraziarlo. Saragat scrisse, per le agenzie di stampa, che «ho posto per la seconda volta la mia candidatura a Presidente della Repubblica e mi auguro che sul mio nome vi sia la convergenza dei voti di tutti i gruppi democratici e antifascisti». Tanassi scrisse a Longo per dirgli che la dichiarazione di Saragat gli pareva «la conclusione del colloquio nel quale insieme abbiamo cercato di trovare una soluzione positiva per l’elezione del Presidente della Repubblica». Francesco De Martino, segretario socialista (Nenni aveva lasciato l’incarico quando era entrato nel governo), scrisse allo stesso Longo per fargli osservare che nel testo di Saragat «mancava ogni discriminazione nei confronti del PCI». Non veniva riconosciuto esplicitamente che i voti comunisti erano stati chiesti, non offerti: ma Longo s’accontentò.

La sera del 28 dicembre Giuseppe Saragat diventò Presidente con 646 voti su 927 votanti (150 schede bianche per almeno due terzi democristiane), 9 liberali insistettero sul nome del loro presidente Gaetano Martino, e i missini su quello di Augusto De Marsanich. I sette dissenzienti socialdemocratici si pronunciarono per Paolo Rossi. Come osservò il « Times», «l’uomo migliore era stato scelto nel modo peggiore».

Migliore certo di tantissimi altri, ma imprevedibile. Con atteggiamento ispirato aveva detto a Nenni, pochi momenti prima dell’ultima votazione: «Gente come te e come me, al Quirinale, se c’è una sommossa di destra, spara: se ce n’e una di sinistra, si spara».

Per sua buona fortuna gli mancò l’occasione di confermare, nei fatti, la validità dell’assunto.

Il messaggio del quinto Presidente, letto a Montecitorio alle 11 del 29 dicembre, subito dopo il giuramento, volle evitare sia i velleitarismi gronchiani sia il grigiore di Segni. Il pezzo forte fu nell’elogio della Resistenza – sarà il leitmotiv del settennato – che, «nata spontaneamente da tutti i ceti, ha consentito al nostro Paese di occupare in un momento tragico della sua storia un posto onorevole tra i combattenti della libertà. Ad essa l’Italia democratica deve una grande parte del suo patrimonio politico e morale». Saragat abitò il Quirinale: ed essendo vedovo dal 1961, affidò il ruolo di padrona di casa alla figlia Ernestina, moglie di un noto odontoiatra romano (il figlio Giovanni era diplomatico di carriera).

A sessantasei anni – era nato il 19 settembre 1898 a Torino, e s’era fatto socialista nel 1922 – Saragat era vigoroso, imperioso, umorale. La sua presenza aveva portato nella vita politica italiana del dopoguerra una nota di grande nobiltà e di sostanziale coerenza sui grandi temi, insieme ad una certa capricciosità bizzosa nel quotidiano. Ma questo antifascista vero, e intellettuale autentico, mandato al Quirinale anche dai voti del PCI e del PSI, poteva rivendicare, di fronte alla democrazia italiana, un merito grande e incancellabile: la scissione di Palazzo Barberini, nel gennaio del 1947. Con notevole coraggio, dati i tempi, Saragat aveva rifiutato l’abbraccio tra socialisti e comunisti nel Fronte popolare. Scelse l’Occidente, e divenne il «caro nemico» di Pietro Nenni (e la bestia nera di Togliatti).

Non era un uomo facile, e tutto sommato nemmeno un uomo simpatico. Riusciva difficile instaurare con lui un rapporto amichevole, da pari a pari. Il dialogo con Saragat non era mai altro che un monologo di Saragat. Questa che nell’ordinaria amministrazione era la sua debolezza, fu la sua forza nel momento dell’emergenza. Solo un uomo impermeabile alle voci altrui poteva affrontare i comizi e sfidare le piazze del 1947-48, schiumanti di rabbia e di odio contro di lui, il socialfascista, il socialtraditore, il rinnegato. Impassibile sotto quell’uragano, Saragat svolgeva le sue argomentazioni: asciutte, serrate, senza concessioni alla retorica tribunizia.

Non si può dire che Saragat si fosse fatto ripagare il grande servigio reso alla democrazia in sostanziose fette di potere. Nei vari Ministeri che occupò, aveva brillato per la sua assenza. Anche come capo del PSDI lasciava alquanto a desiderare. Forte del fatto di averlo inventato lui, e di schiacciare con la sua personalità quella di tutti gli altri, se ne curava poco. S’era sempre considerato parecchie spanne al di sopra della nomenklatura, e lo era specie sul piano culturale. L’unica carica che considerava all’altezza della sua altezza, e per la quale veramente si era battuto, era la Presidenza della Repubblica. Al primo tentativo aveva fallito. Al secondo, come sappiamo, riuscì. Purtroppo sappiamo anche in quale tortuoso modo riuscì. Ma le elezioni passano presto, i Presidenti durano sette anni. Saragat sarà un buon Presidente.

Dopo la tragicommedia dell’elezione presidenziale la DC doveva rimarginare le sue ferite, che erano profonde: e sulle quali avevano buttato sale le polemiche interne. Gli scelbiani, sul loro settimanale «Il Centro», avevano aspramente deplorato sia il comportamento dei dorotei, sia quello di Fanfani. Dei dorotei per aver scelto Leone «senza aver cercato un previo accordo con nessuno»; di Fanfani per aver insistito sulla sua candidatura quand’era apparsa bruciata. «Giunti a questo punto» scriveva «Il Centro» «la DC non fu in grado di proporre un suo nome per la massima magistratura dello Stato, né poté proporre il nome di Merzagora senza avere la possibilità di assicurargli neppure la totalità dei voti dei suoi parlamentari. La candidatura di Saragat prese l’avvio e d’altronde l’uomo aveva i titoli per assolvere degnamente l’alta funzione.»

A loro volta i fanfaniani, in una lettera apocrifa fatta circolare dagli amici di «Nuove Cronache», accusavano la segreteria del Partito d’aver rifiutato l’unica soluzione (Fanfani) capace di raccogliere «la più ampia e svariata confluenza di voti» e di togliere qualsiasi significato politico alla maggioranza elettorale, nonché qualsiasi significato in contraddizione con la prospettiva generale e la linea politica della DC. «Fu sbagliata» insistevano gli «amici» «la tattica rigida in luogo di quella elastica della rosa dei nomi; fu sbagliato pretendere la disciplina del voto segreto, contro i precedenti in materia e contro la natura costituzionale morale e politica del problema; fu sbagliato il calcolo politico sulla candidatura di Leone, che non poteva riuscire se non coi voti dei liberali e dei missini.» Quasi non bastasse, il fanfaniano Barbi aveva pubblicamente accusato Moro di «furbizie levantine».

In un altro contesto queste prese di posizione sarebbero state la premessa di rotture definitive. Nella DC furono la premessa d’un embrassons-nous, tanto sospetto nella sostanza quanto spettacolare nella forma, che avvenne durante una riunione del Consiglio nazionale, ai primi di febbraio del 1965. Rumor aveva proposto all’assemblea un interrogativo inquietante: «La DC, come corpo rappresentativo, unitario, delle forze cattoliche democratiche e di ispirazione cristiana, ha ancora una ragion d’essere nella realtà politica italiana?». Il segretario del Partito era certo che sì, quella ragion d’essere rimaneva: ma rischiava d’essere compromessa «dall’accentuarsi e dall’esasperarsi delle visioni particolari: la volontà di avere la meglio o con la forza della quantità o con il condizionamento degli equilibri interni ed esterni, o con l’accentuazione spesso artificiosa delle differenziazioni per legittimare le contrapposizioni organizzate».

Le espressioni erano quelle d’una impasticciata reprimenda, ma in bocca a Rumor, con la sua leggera e suadente inflessione veneta, assumevano il tono d’un invito al pentimento e alla concordia. Le esortazioni di Rumor erano autorevoli. Ancor più autorevoli furono, si suppone, quelle che arrivavano da oltre il portone di bronzo, e che «L’Osservatore Romano» aveva riecheggiato. Papa Montini, sebbene aperto e moderno fin che si vuole, conduceva in quei giorni una battaglia in difesa di Pio XII opponendosi alla rappresentazione del Vicario, il dramma di Rolf Hochhuth che avanzava forti dubbi sull’azione di papa Pacelli in difesa degli ebrei; e un’altra battaglia più squisitamente politica perché la DC non gettasse al vento, disgregandosi, il suo patrimonio di consensi.

Il documento finale del Consiglio nazionale fu un inno alla presunta monoliticità della DC. Vi si decideva di «esprimere concretamente la volontà unitaria mediante la formazione di una direzione rappresentativa»: volontà che avrebbe dovuto essere realizzata anche nella composizione degli organi periferici.

Il testo fu approvato e firmato dal doroteo Flaminio Piccoli, dal fanfaniano Arnaldo Forlani, dallo scelbiano Oscar Luigi Scalfaro, da Giovanni Galloni della sinistra di Base e da Tommaso Morlino, che rappresentava i morotei finalmente qualificatisi – tra tanto tuonare contro le divisioni – come una vera e propria corrente.

La sostanza dell’intesa consisteva, secondo Giorgio Galli, «nell’arresto definitivo di ogni impegno di riforma, sostituito da una crescente invasione della società civile e del sistema economico da parte del potere politico democristiano» ragione per cui «il governo Moro entra in catalessi, anche se annuncia la programmazione». Diagnosi non priva di validi appigli ma viziata da un pregiudizio che è comune a tutta la sinistra quando valuta i comportamenti democristiani. Essa deplora le incoerenze, le faide interne, gli appetiti economici e la morbosa voluttà del rinvio che hanno sempre caratterizzato la gestione DC del potere: e fin qui non si può che darle ragione. Ma imputa poi alla DC, come colpa primaria e inescusabile, di non buttarsi a capofitto in avventure riformiste; e a questo punto pretende dalla DC un suicidio politico ed elettorale. La vorrebbe indifferente e insensibile alla volontà del suo elettorato, risoluta a fare ciò che la maggioranza di chi vota DC non voleva e non vuole. Come se questo fosse, per un partito interclassista, composito e sostanzialmente poggiato sui voti moderati, un merito e non un demerito. L’attendismo DC, esasperante quanto si vuole, più che una scelta è una necessità. I dorotei e gli scelbiani non furono un’invenzione malvagia di mestatori che miravano a conculcare le aspirazioni popolari. Furono lo specchio, e l’espressione della parte maggioritaria dell’elettorato democristiano, che è cosa ben diversa dagli iscritti alla DC. La voglia di parlar male della DC è forte, e in taluni momenti irresistibile. Si può chiederle d’emendarsi da molti vizi ed errori. Non si può chiederle di non essere più la DC e di fare harakiri, per dare motivo di soddisfazione a chi intravede sempre dietro l’angolo le mirabili sorti, e progressive, dell’Italia.

In quei primi mesi del ’65 la DC fu dunque, più che mai, democristiana. Fanfani tornò all’ovile accettando di sostituire Saragat agli Esteri. Il «rieccolo» rimise piede alla Farnesina, dopo sette anni. Questa volta con il piglio del persuasore non del domatore. Tendeva ancora, com’era nel suo temperamento, ad accentrare, ma evitò di circondarsi d’una schiera di pretoriani che ricordassero i Mau Mau del ’58. Quando il segretario generale Attilio Cattani andò in pensione per limiti di età non lo rimpiazzò. Voleva essere, come Pio XII, il segretario generale di se stesso. Non aveva rinunciato all’ambizione di mediare nei grandi conflitti, si trattasse del Vietnam o del Medio Oriente, ma era – o almeno parve all’inizio – più cauto.

La sua resurrezione ebbe insomma un avvio promettente, e un séguito immediato addirittura trionfale. All’insaputa di Moro, Fanfani avviò sondaggi per sapere se una sua candidatura alla Presidenza dell’ONU – l’incarico è di rappresentanza, e in definitiva onorifico, con una durata di sei mesi – sarebbe stata gradita. Ebbe risposte incoraggianti. La notizia dilagò d’improvviso nel mondo politico e il Presidente del Consiglio cadde dalle nuvole mentre il vicepresidente, Nenni, se ne disperò, perché se Fanfani lasciava vuota la poltrona della Farnesina si sarebbe arrivati a un rimescolamento del governo, ed era l’ultima cosa che il PSI desiderasse. Palazzo Chigi brancolava nel buio a tal punto che qualcuno telefonò a Ugo Stille, il corrispondente del «Corriere» da New York, per sapere se la notizia avesse fondamento. L’aveva, e Fanfani – bene accetto al Terzo mondo – s’insediò nell’estate del ’65 nel Palazzo di Vetro, pur conservando – d’accordo con Moro e con Nenni – il Ministero degli Esteri.

Il suo soggiorno americano fu presto turbato da un incidente serio: una caduta che gli lacerò un tendine e rese necessario un lungo periodo di cura. Purtroppo la degenza non gl’impedì di prendere qualche iniziativa diplomatica che sfociò in una disavventura personale. Sappiamo che tra gli intimi di Fanfani era – anche qui purtroppo – Giorgio La Pira, pacifista ecumenico e politico confusionario. Il «santo» siculo-fiorentino era riuscito a raggiungere Hanoi, e vi si era intrattenuto con il leader nordvietnamita Ho Ci Min. Quale che fosse stata la capacità di comprensione tra i due che parlavano linguaggi così diversi – e non soltanto in senso semantico – La Pira ebbe l’impressione che Ho Ci Min fosse disposto a trattare con gli Americani rinunciando alla precondizione del ritiro dei loro soldati.

Di ciò che La Pira gli aveva scritto – inframmezzandolo con citazioni bibliche e invocazioni alla Madonna – Fanfani inviò un riassunto al presidente americano Johnson. Ma La Pira, che fremeva in attesa di reazioni, anticipò ogni eventuale risposta della Casa Bianca lasciando trapelare indiscrezioni sulla sua «missione». Ne risultò un pasticcio, e il fondato sospetto degli USA e di altri alleati occidentali che l’Italia avesse due politiche estere, quella del governo (e di Fanfani come Ministro) e quella di La Pira (e di Fanfani come Presidente dell’ONU): la seconda favorevole a un negoziato di pace ad ogni costo nel Vietnam e all’ammissione della Cina nelle Nazioni Unite.

Già investito dalle polemiche, Fanfani ebbe il colpo di grazia dalla moglie Bianca Rosa che ricevette in casa sua, presente il garrulo La Pira, la giornalista Gianna Preda del «Borghese». La Preda s’era impegnata a non pubblicare nulla dell’animata conversazione, e pubblicò invece tutto. La Pira parlò a ruota libera esaltando Fanfani e la sua azione, propugnando un governo di concentrazione nazionale che andasse dai comunisti ai missini, definendo Moro «un molle». Il 1965 si chiuse con Fanfani dimissionario a causa delle «considerazioni e giudizi ingiusti ed infondati di un amico» e della «improvvida iniziativa di un mio familiare» che «stavano generando, a torto o a ragione, dubbi sulla condotta del Ministro degli Esteri danneggiandone l’opera e di riflesso recando nocumento al governo». Infuriato com’era con la moglie, Fanfani non le rivolse la parola neppure durante il cenone di Natale che riunì l’intera e numerosa famiglia.

Inviata la lettera di dimissioni, Fanfani chiese di rimanere in carica fino alla ripresa parlamentare, per dare spiegazioni al parlamento. Moro, che era in vacanza a Ortisei, rientrò a Roma e, d’intesa con Saragat, pretese che Fanfani dovesse «lasciare» subito. Il «rieccolo» era un’ennesima volta in disgrazia. Se aveva fatto assegnamento sulla Farnesina e sull’ONU come scalini per l’ascesa alla testa del governo e – in lontana prospettiva – al Quirinale, il suo calcolo si rivelò, come sovente gli accadeva, completamente errato.

Torniamo – dopo questa necessaria digressione – al periodo immediatamente successivo all’elezione di Saragat.

Oltre che dall’ingresso di Fanfani il governo Moro era stato modificato dalla sostituzione del ministro dell’Industria e commercio senatore Giuseppe Medici, democristiano, con il socialdemocratico Edgardo Lami Starnuti. Gli equilibri del quadripartito erano pertanto ristabiliti mentre PSI e PSDI davano corso ai primi contatti per la riunificazione, e i comunisti manifestavano grande soddisfazione per l’andamento dell’elezione presidenziale nella quale la DC aveva subìto, disse Luigi Longo, una triplice disfatta: per la impossibilità di far eleggere il suo candidato, per essere stata costretta ad accettare un candidato laico che nei primi scrutini si era opposto al candidato democristiano, e infine per aver dovuto togliere l’interdizione, posta inizialmente in termini ultimativi, alla richiesta e alla contrattazione dei voti comunisti.

Poco tempo dopo Longo ebbe un ulteriore motivo di soddisfazione. Glielo diede il Presidente della Repubblica Saragat, che dei comunisti era stato il più fiero e severo avversario, ma che nelle celebrazioni del ventennale della Liberazione e della fine della seconda guerra mondiale (25 aprile e 9 maggio), sfogò con impeto tribunizio – seppure con alti concetti – i suoi entusiasmi resistenziali. Dovendo citare un Maestro di libertà fece il nome di Concetto Marchesi, latinista insigne e stalinista di ferro.

A molti questo non piacque. Ancor meno piacque che, in concomitanza con l’anniversario, fosse stata concessa la grazia a Francesco Moranino, che viveva in Cecoslovacchia, e che da Radio Praga aveva diffuso le più grottesche menzogne sulla Repubblica italiana le cui condizioni di servaggio e di miseria erano da lui contrapposte al fiorire lieto e fecondo delle Repubbliche popolari comuniste. Come capo partigiano, Moranino s’era reso responsabile dell’uccisione efferata e a freddo, tra il 1944 e il 1945, di altri partigiani solo perché non erano comunisti: Emanuele Strasserra, Giovanni Scimone, Mario Francesconi, Gennaro Santucci, Ezio Campasso. Oltre ai cinque, erano state «giustiziate» le mogli del Francesconi e del Santucci. Moranino si era difeso asserendo d’avere ordinato le fucilazioni perché convinto che i cinque fossero spie dei fascisti e dei Tedeschi: e d’avere aggiunto al sanguinario elenco le mogli di due di loro perché, chiedendo angosciosamente notizie dei mariti scomparsi, potevano danneggiare il movimento partigiano. La verità era che i cinque appartenevano a formazioni «bianche»: dal fanatico Moranino poste sulle stesso piano dei reparti nazifascisti che ai partigiani davano la caccia. In contumacia, Francesco Moranino era stato condannato all’ergastolo (pena poi commutata in dieci anni di reclusione). La grazia gli consentì di rientrare in Italia e di riprendere la carriera politica (era già stato sottosegretario nei governi del CLN, e poi deputato). Nel 1968 fu eletto senatore, ovviamente del PCI.

L’atto di clemenza per questo inclemente personaggio provocò una bufera di critiche. Si vide in esso il compenso – pattuito, si disse – di Saragat al PCI per il contributo dato alla sua elezione.

Piuttosto tardivamente il ministro guardasigilli Reale spiegò le ragioni, umanitarie e di pacificazione nazionale, che avevano suggerito il provvedimento: precisando che esso riguardava non il solo Moranino ma cinquantuno partigiani (di cui trenta latitanti) e otto fascisti (di cui uno latitante). Fu peraltro confermato che i dirigenti comunisti avevano sollevato il problema, ottenendo l’interessamento di Saragat, durante le udienze concesse ai direttivi dei gruppi parlamentari dopo l’elezione presidenziale.

La polemica crepitò a lungo sotto le ceneri. Ancora nel 1971, quando il mandato di Saragat s’avvicinava alla scadenza, dal Quirinale arrivò un soprassalto d’ira. «Il giornale “Il Messaggero” di oggi [22 gennaio 1971, N.d.A.] nel suo editoriale non firmato e che pertanto investe anche moralmente la responsabilità del direttore, riferendosi alle recenti affermazioni dell’on. Berlinguer relative alla elezione del Presidente della Repubblica così commenta: “In altri termini si dice chiaramente che questa volta basterà promettere la grazia a un qualche Moranino...”. L’allusione alle condizioni che avrebbero indotto il Presidente della Repubblica a concedere la grazia al senatore Moranino è falsa e calunniosa.»

Ugo Indrio, che del settennato di Saragat ha scritto una cronaca tanto accurata quanto favorevole, è sicuro che nessun patteggiamento poté esservi tra il leader socialdemocratico e i comunisti, «né Saragat lo avrebbe tollerato». Questa attestazione di fiducia il quinto Presidente della Repubblica italiana la meritava: per la sua integrità morale e per la sua statura intellettuale. Quello di Moranino non fu un baratto, ne siamo anche noi convinti: ma fu, dato il momento, e la goffaggine con cui la notizia trapelò e venne giustificata, un piccolo infortunio.

Chiudiamo qui la rievocazione d’un decennio di vita italiana che unì, come un lungo ponte, due periodi storici non solo diversi, ma opposti: quello della ricostruzione degasperiana e quello della contestazione e del terrorismo. L’Italia dei due Giovanni fu insieme l’erede – non sempre degna – di De Gasperi, e l’incubatrice degli anni di violenza e di piombo. Fu l’una e l’altra cosa in maniera stagnante, opaca, confusa e in larga misura inconsapevole. Gli uomini che si avvicendarono sulla scena politica, anche i migliori, ebbero intuizioni di largo respiro, come il passaggio dei socialisti dall’opposizione al governo, ma non videro né capirono i veri fermenti e le peggiori insidie che covavano nel corpo del Paese. Attento alle grandi o piccole manovre d’anticamera e di corridoio, il Palazzo aveva, o così parve, le finestre chiuse. Quando le aprì, allarmato dal clamore, era già ’68.