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Senza poter immaginare che sarebbe diventato il luogo del suo assassinio, Ascanio Restelli aveva deciso di acquistare quella grande casa, costruita sul finire dell’Ottocento, quando Roma non si estendeva molto oltre il Tevere.

Voleva mettere la giusta distanza tra sé e la confusione del centro storico.

Difficile che su quel viale tortuoso, in salita e senza uscita, dove nel corso degli anni si erano ritirati romani carichi di soldi, si inerpicassero auto meno che lussuose. Bentley, Jaguar, BMW, Ferrari, utili a condurre orgogli, malumori, ambizioni, meschinità, scrupoli a spasso rombante per la città.

I cancelli delle ville, immerse nel verde e perciò invisibili al di là delle mura di cinta, non avevano citofoni con i nomi dei proprietari, al massimo targhette di marmo o di ottone con denominazioni poco fantasiose, in caratteri svolazzanti: Villino dei glicini, Villa dei fiori, Casina delle rose. Romanticismo onomastico in pieno contrasto con l’attitudine affaristica che aveva portato i residenti di quelle sontuose dimore ai vertici della politica, della dirigenza statale e dell’imprenditoria italiane.

Una generosa porzione del gotha nazionale risiedeva in quei paraggi frondosi, alle pendici del Monte, a pochi passi dal Tribunale.

A quell’ora di notte, con le finestre tappate per via del gelo invernale, nelle stanze stracolme di pezzi d’arte e d’antiquariato non giungevano neppure gli ovattati rumori del traffico.

La coppia di domestici italiani al servizio del commendatore, nominato un paio di anni prima dal presidente della Repubblica in un empito di ben guidato ottimismo, trascorreva la notte nella casina sul retro, oltre il boschetto di cedri del Libano, pini, magnolie e alberi da frutto.

Più o meno dalle dieci di sera, dopo che la signora Elide aveva riassettato la cucina e la sala da pranzo, e dopo che il marito Nazzareno aveva nutrito e liberato i cani, il vecchio Restelli rimaneva solo per la notte. Padrone assoluto degli appartamenti, dislocati su tre piani, con stanze disabitate da anni. Di rado lo raggiungevano amici per una partita di scopone scientifico o quattro chiacchiere moderatamente alcoliche.

Non quella maledetta sera.

La cena era stata ottima: gateau di patate, tortino di finocchi in crosta e torta di mele con crema alla cannella. Alle dipendenze del commendatore da quarant’anni, Elide aveva rivelato da subito doti di cuoca sopraffina, senza fronzoli modernisti, pura tradizione venata di estro personale. I ventri prominenti di Restelli e di Nazzareno, che degli stessi menu si servivano in pari misura, testimoniavano l’incondizionato apprezzamento di certe prodezze culinarie.

Una buona passeggiata al freddo ci voleva, per favorire la digestione.

Indossato giaccone pesante, cappello a larga falda e sciarpa di cachemire, il commendatore era uscito nel parco sul lato nord della casa accendendosi il mezzo sigaro toscano. I cani gli corsero incontro per festeggiare l’apparizione.

Restelli li calmò con dei buffetti. «Buoni».

Procedette fino alla panchina di pietra, i bestioni gli si accucciarono ai piedi. Al vapore dei fiati si univa il fumo del sigaro: il silenzio era interrotto soltanto dai versi di qualche volatile notturno, dai fruscii tra le foglie o nei cespugli, da un raro clacson in lontananza.

Pensava all’incontro dell’indomani, a come pilotarlo e portarlo a proficua conclusione. Per una volta, pur avendo studiato nei minimi dettagli le strategie di azione, derogando alla sua natura, nutriva dei dubbi sull’effettiva possibilità di farcela.

Guardò il nastrino di luna tra le nuvole e rabbrividì. La temperatura lambiva lo zero e l’umidità del terreno penetrava gli strati degli abiti. In piedi, si annodò meglio la sciarpa e camminò intorno alla casa, emettendo grandi nuvole di fumo e schiacciando con voluttuosa determinazione la ghiaia sotto alle scarpe.

Arrivò fino alla piscina di pietra, fatta costruire da uno dei vecchi proprietari della villa, quando vivere lì significava procurarsi tutti i benefici della campagna.

Aveva deciso di rientrare, quando i cani l’abbandonarono, sparendo tra gli alberi dietro all’edificio principale. Il commendatore si avviò verso il portico del salone, pensando che stessero raggiungendo Nazzareno. Era lui, in fondo, il vero padrone di quelle bestie. Quello che se ne occupava.

Ancora un po’ di lavoro nello studio e poi a letto, per proseguire la lettura del nuovo libro di Sergio Romano. Le ricostruzioni storiche dell’ex ambasciatore, oggi editorialista del Corriere della Sera, lo avvincevano più di un romanzo. Spesso aveva rimpianto di non conoscerlo di persona, mentre lo ascoltava argomentare in qualche trasmissione televisiva di approfondimento.

Per come si mettevano le cose, chissà che non sarebbe accaduto presto. Magari lo avrebbe incontrato in uno dei talk show a cui gli avrebbero chiesto di partecipare.

Altro che amene letture. Prima, purtroppo, aveva da vagliare carte meno appassionanti benché utili agli affari, comprese quelle che l’autista di suo figlio gli aveva scaricato sulla scrivania nel pomeriggio. Dopo si erano susseguite le telefonate, e con la riunione politica in vista della candidatura a sindaco di Roma che si era tenuta segretamente in casa dell’amico Vittorio Conversi per evitare i pettegolezzi dei giornali, gli era stato impossibile mettere mano ai progetti dell’azienda di famiglia.

In tanti anni di attività imprenditoriale, principalmente nel ramo dell’edilizia, più volte esponenti del mondo politico di ogni collocazione avevano tentato di cooptarlo, per sfruttare a fini elettorali notorietà, potere, legami, che potevano tradursi in voti sonanti.

Preferendo dedicarsi al rafforzamento dell’impero fondato nel 1961, Restelli aveva declinato tutte le offerte di elezione in collegi sicuri, talvolta rubricandole come lusinghiere, altre volte dissimulando un certo fastidio.

A quasi ottant’anni, la voglia di provare a mettere un po’ d’ordine nella città eterna, amatissima, aveva cominciato a farsi sentire. Fino a diventare l’obiettivo primario.

Sarebbe, forse, riuscito a liberarla dall’occupazione di cinesi, venditori di kebab, zingari e altri stranieri, da lui considerati alla stregua di selvaggi. Anche per questo, molte incombenze della Agave Costruzioni, di cui continuava a mantenere il ruolo di presidente, le aveva un po’ alla volta trasferite al figlio.

Raggiunse la scrivania del grande studio al piano terra. La casa era disseminata di punti luce bassi poiché il commendatore detestava i lampadari. Le lampade a stelo e quelle Tiffany, collocate sui tavolini di noce e di palissandro intarsiati, rifrangevano la loro luce sulle vetrate liberty delle porte e dei grandi infissi che si aprivano sul giardino d’inverno.

Nell’inforcare gli occhiali, senza staccare gli occhi dal fascicolo estratto dalla cartella in pelle posata sulla scrivania, afferrò il telecomando e dopo un secondo la filodiffusione lasciò emergere le note della sinfonia n. 40 di Mozart.

Dalla bottiglia di cristallo che teneva sempre a portata di mano, si versò una dose generosa di whisky Bowmore, regalo di un’amica che conosceva i suoi gusti. Ancora una volta, assaporando il liquido ambrato, il commendatore si compiacque di contravvenire alle indicazioni ferree in materia di alimentazione e stile di vita che i medici avrebbero voluto imporgli.

Si sentiva bene. Nessun coetaneo poteva vantare, oltretutto, le sue performance sessuali, con donne tanto più giovani, non necessariamente professioniste. Con quelle c’era molta meno soddisfazione, anche se non si potevano certo definire santarelline le tipe che si portava a letto in cambio di un favore, di un gioiello, di un’auto, di un appartamentino. Ricompense scelte dal commendatore in base alla durata della frequentazione o della dose di umiliazione che infliggeva alla malcapitata quando la abbandonava.

L’ultima conquista, se conquista poteva definirsi, era la moglie di un direttore di quotidiano con una spiccata propensione al gioco d’azzardo. All’inizio se l’erano spassata, tra viaggi e appuntamenti veloci, dopodiché Restelli aveva protratto la relazione, come da progetto iniziale, per usarla.

Il bracciale che la signora sfoggiava da un paio di settimane se l’era guadagnato nel bagno di un noto ristorante nei pressi del Colosseo, assecondando una fantasia improvvisa del commendatore. Così si diceva.

Aveva tanti soldi, Restelli, ma spenderli gli dava piacere solo se nel farlo poteva procurarsi la gioia di marcare il territorio come fanno i leoni della savana con l’urina.

Di certo rifletteva sulla messe di denaro prodotta dalle sue imprese e sulle tattiche per preservarla o farla crescere quando venne preso da sonno improvviso. Questo sì, sintomo dell’età avanzata.

Quasi subito prese a russare forte, con la testa piena di capelli candidi reclinata sulla poltrona di cuoio e il sigaro appena acceso tra le labbra. Il sonno profondo, al pari di un’anestesia, evitò a Restelli di percepire l’affondo della lama che gli squarciò la gola da orecchio a orecchio.

Nessun dolore.

Solo un gorgoglio e il fluire del sangue a fiotti. Poi il buio, senza sogni né incubi.

E il telefonino che il vecchio aveva nella tasca dei pantaloni squillò.