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Trovando la guardiola chiusa e il portone accostato, Malinverno salì a piedi al piano di Viola facendo i gradini due alla volta.

Suonò al campanello, bussò alla porta, la chiamò: non era in casa o non aveva voglia di rispondere?

Soppresse l’impulso di disturbare l’unico dirimpettaio, non quello di interpellare la portinaia che incrociò nell’androne, andando via, mentre la donna corpulenta saliva con secchi e scope dal sottoscala. Per proteggere la voluminosa capigliatura dalla polvere aveva annodato sotto al mento un ampio fazzoletto chiaro, con il risultato di sembrare, rubizza e molto truccata com’era, un uovo pasquale infiocchettato.

«Buonasera, signora Rina» esordì, affidandosi alla buona memoria per i nomi. «Ci siamo visti stamattina, ricorda?»

Alquanto sorpresa, la donna poggiò a terra il suo armamentario. «Buonasera» disse con tono circospetto.

«Cercavo la signora Ornaghi...»

«Non do informazioni sui condomini, cosa crede? Mi spiace».

Malinverno intuì il tipo. «E fa benissimo, signora. Cerchi di capirmi, però, sono preoccupato per la mia amica. Da quando l’ho lasciata, non sono riuscito più a sentirla. Ho scritto il mio pezzo al giornale...»

Se fosse stato inondato da un raggio di sole, il viso della donna non avrebbe preso a risplendere allo stesso modo. «Lei è giornalista?» Si scoprì il capo e fece scomparire il fazzolettone in una tasca del grembiule. «Mi ricordo perfettamente di lei. Abbia pazienza, capitano tanti strani tipi...»

«Lo immagino, e lei fa benissimo. Alla fin fine, lei e io facciamo lo stesso mestiere» si affrettò a dire Malinverno.

«Ma cosa dice mai?» la portinaia si schermì, e ci mancò poco che si mettesse a gongolare come Topo Gigio.

«Riceviamo e diamo informazioni, io per iscritto e lei a voce» la stese definitivamente.

La signora Rina rise a bocca aperta, aveva alcuni molari ricoperti d’oro.

Malinverno avrebbe giurato che si fosse aperta in modo fugace, approfittando di una sua momentanea distrazione, un bottone sulla scollatura gonfia. «Ho sentito alla tv quello che è successo, povera signora Viola. Adesso che ci penso, al tg l’hanno fatta vedere mentre usciva con lei». Guardò Malinverno con ammirazione sconfinata, mista a civetteria.

Lo fece sentire come una pasta ripiena di crema.

Le tese la mano. «Mi chiamo Leonardo Malinverno».

«Eravate al cancello della villa di quello che hanno ucciso. Mi scusi, prima ero distratta, lei è uno famoso. L’hanno definita ‘noto giornalista e scrittore’. Mi scusi tanto».

«Si figuri, Rina. Saprebbe dirmi dov’è Viola?»

«Vogliamo entrare un attimo da me, non rimaniamo qui...» si guardò attorno con aria disgustata. «Mi faccia l’onore, dottore».

Lo precedette nel bugigattolo a vetri, dal quale si accedeva alla casupola di servizio. Scesero pochi gradini e si trovarono in un saloncino, sotto al livello della strada, pervaso dall’odore di brodo di pollo.

Lo stomaco del giornalista gorgogliò, a vuoto. Era quasi ora di cena.

Due sole altre porte, con tutta probabilità bagno e camera da letto, immettevano al restante spazio vitale destinato alla portinaia.

«Si accomodi, la prego».

Malinverno si sedette sul divano a due posti, piegando con una certa fatica le gambe dietro al tavolino coperto da un centrino sottilissimo. Immaginò Rina sferruzzare davanti al televisore, un vecchio Grundig con annesso decoder per la visione del digitale terrestre, unica urgente concessione alla modernità che avanza.

«Da quando non c’è più mio marito, non ho tante visite» la donna parlava di spalle, armeggiando in una vetrinetta. «Spero le piaccia il limoncello fatto in casa» disse poggiando davanti a Malinverno un vassoio con bicchierini e bottiglia istoriati a rilievo.

«Sarà un ottimo aperitivo, grazie». Solo un po’ troppo dolce, pensò.

«Non le dico di mangiare con me, perché stasera ho solo una minestra di verdure. Me le manda mia sorella dalla campagna, insieme ai limoni con cui faccio questo». Versò due porzioni del liquido dorato.

«Buonissimo, Rina. E se non avessi un impegno precedente mi fermerei volentieri ad assaggiare la sua minestra, altroché».

«Il limoncello piaceva tanto anche a Cesarino. Mio marito, pover’uomo... ha lavorato una vita come carpentiere, poi non ha fatto in tempo ad andare in pensione che un tumore me lo ha portato via. Ed eccomi qui, a ramazzare, io che ho studiato per fare la maestra» disse dando fondo al bicchierino.

Malinverno comprese che l’alcool zuccherato doveva essere uno dei pochi piaceri rimasti alla donna.

Rina si asciugò gli occhi con il foulard che aveva usato per contenere quella specie di criniera e cercò di rasserenarsi. «Per fortuna ho questo lavoro, ormai vivo per i condomini del palazzo, anche se non tutti sono come la signora Viola. Rispettosi e premurosi come lei» concluse sorridendo.

«Cosa la fa sorridere, Rina?»

«Mi fa strano chiamarla signora, potrebbe essere mia figlia, e al di là di questo sembra una studentessa universitaria».

Malinverno non poté che compiacersi di quella definizione. «Ha proprio ragione. Purtroppo, la sua ingenuità non la preserva certo dalle disavventure».

Rina divenne cupa. «Come le ho detto, le voglio bene. Proprio per questo mi piacerebbe che tornasse con il marito, il dottor Sorge».

«Cosa sa della loro storia?» Malinverno decise che poteva considerare chiuso il valzer delle cautele.

«Dal vetro della mia guardiola, vedo e sento molte cose... non dico tutto ma molto».

«Non ne dubito». Riandò con la memoria a L’eleganza del riccio, stupendo libro e magnifico film. «Il suo giudizio su Matteo Sorge è altrettanto positivo?»

«Che le devo dire? Gli uomini, voi uomini avete bisogno dei vostri sfoghi, delle vostre marachelle... Cesarino mio, per dire, mi ha messo cornetti per tutta la vita. Ma non c’è stata sera che non sia tornato da me, io gli cucinavo bene, e ogni santa notte ha fatto il suo dovere di marito. Il giorno era delle altre, per quei pochi minuti che servivano, con il buio ridiventava solo mio...» sospirò, ma il rimpianto non tardò a manifestarsi. «Adesso... Adesso sono sola».

Malinverno fu preso da una lieve inquietudine quando gli occhi di Rina si agganciarono ai suoi. «Ma stavamo parlando di Sorge!»

«Non dovrei dirle altro, forse». Non ci credeva davvero neanche lei. «Lo vedevo rientrare con donne sempre diverse, quando Viola era via per lavoro o a trovare i suoi genitori fuori Roma. Il dottore si divertiva, bello, giovane, sano com’è».

«Viola non se n’è mai accorta?»

«Se le cose stanno come stanno e lui viene spesso a sbirciarne i movimenti e a chiedermi notizie, deve essersene accorta, povera creatura».

«Intendevo, scusi, se lo ha mai colto sul fatto...»

«No. Glielo ho detto, è un’anima candida. Ha sempre mandato via con le pive nel sacco anche l’amico di Matteo... bell’amico...»

«Che vuole dire? A chi si riferisce?»

«Tale Filippo Prandelli, uno che sta spesso insieme a Matteo... Spesso erano insieme anche con quelle donnacce che si portavano qui».

«Gozzoviglie di gruppo?»

«Non so cosa facessero, ma posso immaginarlo. Arrivavano casse di vino e liquori, tenevano la musica a tutto volume. Una volta qualcuno ha addirittura chiamato il 113 per schiamazzi notturni... Matteo ha messo tutto a tacere, promettendo di fare attenzione da quel momento in poi. Quante donne ho visto passare, ma tante... mai però che abbia avuto la soddisfazione di vederle uscire...»

«Che vuol dire?»

«Belle erano belle. Ben vestite, truccate, pettinate, con bei gioielli... Avrei voluto vederle dopo».

«Prandelli è venuto spesso a cercare Viola?»

«Qualche volta, non ricordo quante di preciso. Una volta si è fatto annunciare ed è salito, poi Viola non l’ha più voluto ricevere».

Rina, rifletté Malinverno, aveva abbandonato le formalità del ‘signora’, ‘signore’, ‘dottore’ e gli ammennicoli dei cognomi. Per lei, che li vedeva transitare dal vetro della portineria, dovevano essere come i personaggi di una fiction televisiva.

«Quella prima volta quanto rimase su da Viola?»

«Un’ora, poco più o poco meno».

«In seguito, Viola le chiese di tenerglielo lontano?»

«Faceva dire alla governante che non era in casa, benché io sapessi benissimo che c’era. E mi aveva chiesto di avvisarla se Filippo, nonostante i miei tentativi di mandarlo via, saliva da lei. Insomma, cercava di proteggersi. Mi pare che ci sia riuscita perché il tipo si è dileguato, a un certo punto».

«Che ne è stato della governante?»

«Enrichetta?»

«Stamattina non l’ho vista in casa».

«Oh, ma è via, da parenti, da circa un mese. A Venezia, lei è di lì».

«Enrichetta... Enrichetta come?»

«Rosson. È molto anziana, ma vorrei avere un briciolo del suo vigore e del suo spirito».

«Le manca».

«Come ha fatto a capirlo? Lei, Malinverno, è un diavolo!»

«Credo di non sbagliare se dico che avete passato molto tempo assieme».

«Già, soprattutto dopo la morte di Cesarino mio. Enrichetta veniva da me, la sera, guardavamo la tv, bevevamo limoncello, mi consolava. Qualche volta, se Viola e Matteo erano fuori, salivo io da lei».

E spettegolavate, disse tra sé Malinverno.

Manco l’avesse inteso, Rina avvertì la necessità di precisare: «Non facevamo niente di male, che crede? Entrambe vogliamo bene a Viola e Matteo».

Fuori diluviava, dalle finestre si vedevano le gocce rompersi sui vetri e sul marciapiede, percorso a tutta velocità dai passanti.

Quando stava per alzarsi e congedarsi, la donna aggiunse: «Sì, Enrichetta mi ha sostenuto tanto, le sono molto grata e adesso sono preoccupata anche per lei» concluse con uno sbuffo.

«Non sta bene?»

«Credo che camperà cent’anni. Sta benissimo! Che Dio la conservi!» La faccia stupita del giornalista spinse Rina a proseguire. «Negli ultimi tempi era distratta, come agitata, tanto che non voleva più scendere qui. Chiedeva di vederci in casa, nella sua stanza o in cucina, che ci fossero i padroni o no».

«Lei dice che è in salute. Cosa pensa avesse? Qualche guaio in famiglia?»

«Non lo so. Glielo chiesi ma non volle dirmi niente. La situazione precipitò dopo l’ultima visita di quello che ogni tanto arrivava chiedendo di lei».

«Chi era?»

«E chi lo sa! Come potrei dirglielo?»

«Che aspetto aveva?»

«Il fatto è che mi è sempre piombato addosso mentre ero impegnata a smistare la posta, a parlare con l’uomo della caldaia, ad attaccare un avviso dell’amministratore in bacheca...»

«Niente che abbia colpito la sua curiosità?»

«Una cosa c’è...» Rina sistemò meglio il largo deretano sulla poltrona. «L’ultima volta il tipo aveva con sé una grossa busta di carta, di quelle imbottite, come ne capitano tra la posta di tutti i giorni».

«E perché l’ha colpita?»

«Intanto perché è l’unica cosa che ricordi di lui, ed è strano considerata la mia attenzione ai dettagli di chiunque mi passi davanti. Poi perché, uscendo, la busta non l’aveva più».

«Non vedo quale possa essere l’aspetto rilevante. Se questo tipo era un amico o un parente della governante, le avrà portato un ricordo da qualche viaggio, delle stampe, delle cartoline antiche...»

«Ne dubito. Dopo ogni apparizione del misterioso uomo, Enrichetta era scontrosa, assente, preoccupata. E quel regalo non l’ha fatta contenta, anzi... Dopo due giorni, senza averne accennato in precedenza, è partita con una piccola valigia».

«E non è più tornata?»

«No, poi Viola mi ha detto dove fosse».

«Non vi siete salutate?»

«Le dirò che ci sono rimasta anche un po’ male. In quei giorni ero a letto con l’influenza ed Enrichetta non è mica venuta a prendere mie notizie prima di andarsene. L’ho vista salire in macchina da quella finestra, un momento che mi ero alzata per farmi una camomilla. Sembrava avesse fretta, non s’è neppure voltata».

Malinverno salutò rapido, non prima di aver dato fondo al limoncello, confermando di dover correre a un appuntamento.

Rina tentò di trattenerlo, chiese se per caso quella era da considerarsi un’intervista, se sarebbe apparsa con la sua foto sul giornale. Le rassicurazioni del giornalista circa la tutela del suo anonimato la delusero visibilmente. Pensa che invidia, le signore dello stabile e le altre portinaie del circondario, se l’avessero vista sul giornale e magari intervistata alla tv.