La nostalgia non si fa domande: rifugge la logica dei risentimenti, scava in profondità come un fiume carsico che riaffiora dove può, a riprendersi quel poco di serenità conquistata.
Per quanto le avesse fatto male, Viola pensava a Matteo, le mancava.
Le mancavano i sorrisi, gli abbracci, le battute. Rimpiangeva persino i silenzi degli ultimi tempi. Quando erano ancora pur sempre una coppia. Al piacere effimero del ricordo dei momenti felici, seguivano dolore e disprezzo per sé, per la sua debolezza. In più, distesa sul letto della sua stanza da ragazza, si detestava per aver ceduto alle pressioni della madre che l’aveva voluta lì.
«Che ci rimani a fare, da sola? Te ne staresti a rimuginare i brutti pensieri, vecchi e nuovi. Prendi le tue cose, andiamo» aveva sentenziato.
Come se il ritorno alla casa dei suoi potesse preservare Viola dall’angoscia di quanto aveva vissuto. Con l’immagine del volto sfigurato e della gola lacerata di Ascanio Restelli che le si riproponeva come in un dvd inceppato.
In una casa normale, forse; con genitori normali avrebbe potuto farsi pervadere dal calore di rapporti non viziati, improntati a limpidezza e slanci sinceri. Niente che avesse mai sperimentato.
Unico rampollo di una famiglia di industriali del nord straricchi e ben inseriti negli snodi nevralgici dentro e fuori dall’Italia, il padre l’aveva accolta con il solito sorriso stanco: poche parole di circostanza, una carezza e un abbraccio svelti, prima di rinchiudersi nello studio foderato di libri fino agli alti soffitti a volta. Rintanarsi era il modo che aveva escogitato per difendersi dalla furia vitalistica della moglie.
Ce l’aveva scritto su tutte le pieghe del corpo e non occorreva controllare il blasone del casato per capire che Flaminia Galterio Pardi apparteneva a una nobile schiatta. Non antichissima, ma di un certo rilievo nella storia moderna. Dal Settecento in qua, grosso modo: cardinali, ammiragli, alti diplomatici, qualche beato, una scrittrice presto dimenticata dai critici che era stata amante di Gabriele D’Annunzio. Poi mascalzoni e inetti in egual proporzione che avevano dilapidato il patrimonio.
Il rapporto con Eugenio si era installato con sorprendente rapidità sui binari di una quieta indifferenza e presto anche la passione fisica si era dissolta. Fiaccata dalla totale mancanza di trasporto della mogliettina, che però bramava un figlio. E non si era placata finché non era arrivata Viola.
Con le cuffie nelle orecchie, la luce dei lampioni che filtrava dalle stecche delle persiane, Viola stava scorrendo l’elenco delle canzoni nell’iPod, regalo di Matteo. Si soffermò su Robbie Williams e Nicole Kidman che flirtano in Somethin’ Stupid e le sovvenne con fastidio che tra poco l’avrebbero chiamata per cenare.
The time is right
Your perfume fills my head
The stars get red
And oh the night’s so blue
And then I go and spoil it all
By saying something stupid
Like I love you
I love you...
Come ti amo... Ebbe un brivido, fuori il temporale aveva ripreso vigore, si avvolse nel piumino cremisi e in silenzio si lasciò andare alle lacrime. Solo il pensiero di Leo Malinverno le diede la forza di smettere: non lo aveva avvertito, si preoccupò che fosse in ansia.
Il cellulare le era stato purtroppo sequestrato da Flaminia. «Devi riposare, dallo a me. Nel caso rispondo io...»
Replicare, contrastarla sarebbe stato sopra le sue forze. Non si chiedeva neanche più come mai, dinanzi alla naturale aggressività della madre, perdesse ogni capacità reattiva. Non era più la giornalista che aveva viaggiato per mezzo mondo, che aveva scritto articoli premiati e che, di conseguenza, si era conquistata la stima dei colleghi e dei direttori.
Tornava a essere l’adolescente insicura, con poca volontà, alla mercé degli adulti. Di Flaminia, soprattutto, che non l’aveva certo aiutata a crescere. Quello che le era riuscito di modificare del carattere, tra sedute dalla psicoterapeuta e impegno personale, lo doveva solo alla cara, piccola Viola. Invincibile, nonostante tutto.
Si guardò attorno, nella penombra squarciata di tanto in tanto dai lampi.
La disposizione dei mobili, dei libri, dei poster era rimasta quella. I tendaggi, i bicchieri con le penne ormai prosciugate, i cuscini con la riproduzione delle facce dei cantanti amati, i libri letti uno via l’altro per colmare altri vuoti, il tappeto che le aveva regalato la nonna. Tutto era uguale.
Guardando il ritratto fotografico di Rupert Everett, attore da lei amatissimo ben prima che si rivelasse come gay al mondo, riprovò la medesima sensazione di oppressione dei tanti pomeriggi trascorsi da sola, perché gli amici che avrebbe voluto frequentare non piacevano a Flaminia. E lei respingeva quelli che la madre voleva imporle.
Con l’università e le prime infatuazioni serie, per ragazzi che le avevano aperto gli occhi e le avevano insegnato a ribellarsi, la situazione era cambiata. Matteo Sorge, infine, aveva rappresentato la rivoluzione copernicana della conquistata autonomia.
Senza di lui si riaffacciavano le antiche titubanze.
Appena arrivate a casa, nell’antico palazzo in una stradina buia alle spalle di piazza del Pantheon, Flaminia si era messa a giocare a baccarà. In uno dei salottini le amiche l’aspettavano, mangiucchiando pasticcini e spettegolando.
In quelle ore vuote Viola avrebbe chiacchierato volentieri con il padre, se non avesse temuto di disturbarlo. Lo immaginava assorto nella lettura di un vecchio Simenon o nella contemplazione di un catalogo d’arte, come lo trovava tornando dal collegio di suore Compassioniste, dove lei aveva frequentato le scuole elementari.
Flaminia era quasi sempre fuori. In viaggio o in giro per feste, beneficenza, circoli, shopping.
«Mi racconti una favola, pàzzolo?» Usava quel nomignolo, saltandogli al collo.
Eugenio la teneva stretta, la guardava negli occhi a lungo senza aprire bocca, le toglieva i capelli dagli occhi. Poi attaccava Il signore degli Anelli, Le avventure di Arthur Gordon Pym, i Racconti del terrore di Poe, Martin Eden, Il barone rampante... Magari sintetizzate, ma sceglieva quelle e altre opere letterarie alquanto eccentriche. Non Pinocchio, Cappuccetto Rosso o Hänsel e Gretel. Nessuna fiaba adatta a una bimba di sei, sette, otto anni.
Andava bene così per loro. Da soli si capivano, bastavano gli sguardi.
Viola ricordava con tenerezza il modo in cui il padre congedava la servitù, lui che da solo neppure si vestiva, per prepararle la merenda. In quel momento sembrava felice. «Pane burro e zucchero, come quello che mi dava la nonna. Tu non l’hai conosciuta... Ti sarebbe piaciuta, Violetta».
Le piaceva quel vezzeggiativo. Qualunque pensiero del papà le scaldava l’esistenza. Se chiudeva gli occhi, ovunque si trovasse, riusciva a sentire la fragranza di quella colonia che un raffinato profumiere toscano preparava in esclusiva per Eugenio. Da piccina se ne inebriava, abbracciandolo, e arrivava a rubargli fazzoletti per annusarli a scuola, quando le maestre con la tonaca la punivano o le compagne la emarginavano dai giochi di gruppo.
Aveva amato così tanto il padre da non riuscire a sostituirlo con nessun altro uomo, forse per questo non era stata in grado di tenersi uno straccio di marito.
«Bella figura mi hai fatto fare, con le ragazze di là...» Viola sussultò alle parole di Flaminia, che l’aveva sorpresa di spalle mentre cercava un golf nell’armadio.
Non l’aveva sentita bussare per via del fracasso del tuono. Ma poteva benissimo darsi che non avesse bussato, la padrona.
«Le ragazze ci sono rimaste male, sai?»
«Mi fa ridere che le chiami ragazze, mamma. Alcune di loro non lo sono più dagli anni Sessanta». Si accorse di quanto era dimagrita abbottonandosi il golf acquistato dieci anni prima durante un soggiorno a Dublino.
«Sempre esagerata. E cortese» la bollò con una smorfia.
Viola prese a passarsi una crema emolliente sulle mani e parlò senza accalorarsi. «Se ci fosse stato un fotoreporter, molte di quelle che tu chiami ragazze ti avrebbero fatto finire sul Cafonal di Dagospia». Le sorridevano gli occhi.
«Non so neanche di che cosa parli... Dago che?»
«È su internet, sai cos’è? Lasciamo perdere, fosse per te saremmo ancora ai piccioni viaggiatori o ai messaggeri a cavallo».
Flaminia sollevò la testa, in un atteggiamento di sprezzo. «Abbiamo una storia. Di che dovrei vergognarmi? Vorresti che vivessi come te... è facile fare la contestataria con le chiappe al caldo».
«Che parole! Ecco che viene fuori la tua vera personalità». Più che a distacco, il tono quieto di Viola era dovuto a stanchezza.
«Non essere insolente, Viola. È ora di andare a cena».
«Non ho fame, fate senza di me».
«Non vorrai dare a tuo padre anche questo dispiacere...»
«Anche questo? Perché, quali dispiaceri ho dato a papà?»
Flaminia si era già voltata. Scomparve oltre la porta, nel corridoio buio. Da lì la sentì blaterare: «Spicciati, tra due minuti a tavola. Ammesso che tu sappia ancora cosa voglia dire mangiare... Dico, non vedi quanto sei smunta?»
In casa Ornaghi si prendevano i pasti immancabilmente in pompa magna, nella sala grande, a cui si accedeva attraverso una composita teoria di ambienti e attraversamenti. Quando erano in famiglia, loro tre cioè, mancavano solo i centrotavola fatti arrivare dai migliori fioristi di Roma e l’argenteria lucidata a specchio da Charice e Kim, due sorelle filippine che insieme al marito di Kim badavano alla casa.
L’appartamento era enorme, pervaso dall’odore di legno e di cera passata con gran dispendio di fatica dalla servitù sulle vecchie graniglie.
Impettito, in una giacca blu scuro chiusa fin sotto al collo, Jericho tenne la sedia a Viola mentre si sedeva al centro del lungo tavolo. Al capo destro, con lo sguardo vuoto, Flaminia muoveva le labbra senza emettere suoni. Sembrava che pregasse. Era in collera.
Eugenio si accomodò all’altro capotavola, subito raggiunto dal cameriere che gli fece assaggiare il vino rosso. Dopo che il padrone l’ebbe approvato, Jericho riempì i bicchieri alle signore. Nessuno fiatava.
Viola si guardò bene dal rompere il silenzio, anche se le dispiaceva non salvare il padre dall’evidente imbarazzo. Le parve sciupato, e non è che fosse mai stato un uomo possente. Era dimagrito anche lui.
Abbastanza alto, Eugenio aveva i capelli corti, che tagliava da sé con la macchinetta. A prima vista lo si sarebbe scambiato per un ragazzo, con più attenzione si notavano i segni del tempo. In generale, sembrava incarnare il motto di Epicuro: vivi nascosto.
«Hai vinto, Flaminia?» chiese sistemandosi il tovagliolo in grembo.
Dopo essersi pulita le labbra, quella rispose: «Ha vinto tutto Milena». Tagliente, senza guardarlo.
«E Bichi?»
«Anche lei. Meno, però».
Eugenio sorrise. Viola rimestava nella vellutata di verdure e fu subito ripresa. «Vuoi smetterla di comportarti come una scolaretta della mensa?» E dopo aver messo in bocca il cucchiaio: «Ho perso settecento euro...»
«Ti rifarai».
Su giornali, tg, radio, internet non si faceva che parlare e scrivere della morte di Ascanio Restelli e quei due sorbivano la vellutata come se nulla fosse, chiacchierando del più e del meno.
La figlia decise di strapparli al loro splendido isolamento. «Scusate, interessa a qualcuno che io ho vissuto stamattina uno dei momenti più brutti della mia vita?»
«Scusa, Violetta... Credevo volessi dimenticare. Hai ragione, siamo stati indelicati». Al solito, Eugenio aveva accolto il rimprovero, trasformandolo in un’opportunità per emendarsi.
La moglie lo avrebbe fulminato. «Hai sempre voluto fare di testa tua, di che ti lamenti?»
Sospirò. «Avanti, mamma, manca solo che tu dica ‘te lo avevo detto’».
«Eh, hai ragione... te lo avevo detto!»
«Peccato che tu non sappia cosa voglia dire doversi guadagnare da vivere. Dimentichi che ero in quella casa per fare un’intervista, non per giocare a baccarà. È il mio lavoro... Già, ma tu non hai mai lavorato in vita tua».
«Al tavolo da gioco ci si fa meno male e, guarda un po’, ci si protegge dai brutti incontri».
«Ci si fa meno male, sempre che si abbiano settecento euro del proprio marito da buttare...»
Eugenio teneva gli occhi chiusi. In quel momento Viola lo detestò per la mancanza di coraggio che gli impediva di difenderla dalla gorgone.
Flaminia bevve del vino con ostentazione, riflettendo qualche istante sulla replica. «I settecento euro, se ti fossi tenuta quella schifezza di marito che avevi, li avresti anche tu e non dovresti sbatterti in giro in lavori degradanti».
Viola scattò in piedi, pugni chiusi e odio nello sguardo.
«Siedi. Non diamo spettacolo alla servitù... Jericho, porta via i piatti e servi l’arrosto... Siedi, ho detto».
«Mi siedo solo per darti l’illusione che io abbia ancora quattordici anni. Ma ti basterà incrociare uno specchio per renderti conto che ne è passato di tempo...»
All’apparenza, la madre non accusò il colpo. «Io non saprò cosa significhi lavorare, tu non sai cosa significhi avere una figlia come te». La voce priva di pathos.
Costringere Eugenio a sopportare quel battibecco era, da parte loro, una crudeltà.
Tra i tanti dispiaceri della sua vita, Viola non annoverava il rammarico della maternità inespressa. Se doveva mettere al mondo una creatura con il rischio di replicare il modello di Flaminia, meglio rinunciare. «Sai cosa mi dispiace, mamma? Dei mariti ci si può liberare col divorzio, non esiste invece un modo di separarsi legalmente dai genitori».
«Ahi!» Eugenio si era morso la lingua, masticando un pezzo di carne.
La figlia lo guardò cercando di dissimulare il fastidio per la sua debolezza. «Bevi un po’ d’acqua, papà».
«E tu mangia, sei pelle e ossa» la biasimò Flaminia, poco propensa a mollare la presa.
«Dovresti saperlo, l’arrosto non mi piace».
Si alzò, afferrò una banana dal carrello di servizio. E sfiorando con le dita la mano che il padre le aveva allungato lasciò la sala.