Nell’abbraccio degli edifici di epoca fascista, e con la basilica di architettura razionalista sullo sfondo, piazza San Giovanni Bosco piaceva molto a Leo Malinverno.
Il ricordo orgoglioso ancorché ininfluente dell’inaugurazione della chiesa da parte di papa Roncalli nel 1959 era ancora vivo nel popoloso quartiere.
Oki aveva dato appuntamento a Malinverno sotto al portico di destra. Nell’attesa, Leo alzò lo sguardo ai palazzi alveare di pietra chiara sui quali la luce livida sembrava rimbalzare. Vi immaginò esistenze operose (artigiani, impiegati, piccoli professionisti con ambizioni di carriera), in viaggio con quelle di delinquenti periferici recuperati alla convivenza parzialmente civile, di tanto in tanto alterata da furtarelli, dispetti, risse, rari accoltellamenti.
Sul viale parallelo alla via Tuscolana, a pochi passi dallo slargo ingentilito per quanto possibile dal cuore verde delle aiuole pubbliche, abitava un amico ricercatore universitario alla cattedra di Storia delle Religioni dell’università di Tor Vergata. Da quanto tempo non lo vedeva... Malinverno si ripromise di chiamarlo presto, per stare un po’ assieme, raccontarsi le reciproche novità.
«Ecchime» lo salutò Oki, un berretto di lanaccia calcato in testa.
«Ciao, Nando. Ho un regalo di Natale per te». Gli allungò il sacchetto con scatole di medicinali assortiti.
«Grazie, sempre gentile». Sembrò distratto da qualcosa o qualcuno che aveva intravisto. «Levamose da qui» disse spingendolo nel bar alle loro spalle.
Sedettero in una saletta interna, deserta e senza uscite, dotata di una grande vetrata che dava sulla strada.
«Che prendi?» chiese Malinverno, quando il cameriere li raggiunse.
«Un succo di mela verde».
Evitò commenti sull’incongruenza, ai limiti del ridicolo, di quell’ordinazione. Uno s’immagina che un ex galeotto vada avanti a vino e superalcolici e quello chiede un salubre succo di frutta. «Io vorrei invece una spremuta d’arancia e un tramezzino con mozzarella e funghi».
«Perché hai voluto vedermi, Nando?»
«Devi sta’ attento. La faccenda se fa’ complicata pe’ te».
«Non capisco. Che vuoi dire?»
A dispetto dei modi bruschi, da spaccone, Oki aveva gli occhi di un vecchio abbandonato all’ospizio. «Hai rotto li cojoni a chi nun dovevi. Guardate le spalle... e pure le palle» concluse, secondo lui in modo spiritoso.
«Cutrupa? Buscemi?»
«Pure... Cutrupa e Buscemi... Hai acciaccato i piedi pure a loro? Tu sei scemo. Te l’avevo detto che Cutrupa era entrato ner giro grosso». Contrariamente all’aspetto emaciato, quasi da malato terminale, la voce era roca, profonda. Poco credibile emessa da quel corpo, manco gli avessero assegnato un doppiatore sbagliato.
Malinverno allungò cento euro sul tavolino di formica poco pulita. «Mi vuoi spiegare bene? Non ci sto capendo una minchia».
Oki guardò la banconota senza toccarla. «Nun devi capi’, te devi fida’...»
«E io mi fido».
«Ovunque vado sento parla’ de te e, dimo così, non so’ pensieri gentili. Sta pe’ cambia’ tutto a Roma, è arrivato un pezzo grosso dall’America...»
«Dennis Racco, il calabrese?»
«Vedi che ce lo sai!? Er calabrese, sì... o mejo, er calabrostatunitense».
«Lo conosci?»
«Ma de che!? Uno così non può avere gnente da spartire con uno come me».
«Non buttarti giù, Oki».
«Scherza, scherza... poi te la pigli ner culo».
«Esprit de finesse. Che sai tu?»
«Io nun conto più un cazzo ormai, ma conosco gente che sa le cose... Mi dicono che Racco s’è piazzato qui, che nun deve concorda’ gnente co’ nisuno e che tutto cambierà. Pure pe’ Cutrupa e Buscemi».
Tornò il barista per servirli e si zittirono. Oki bevve subito un sorso di succo.
«Cambierà tutto... Sarebbe cambiato pure per Restelli?»
«Sicuro, in mejo. Racco veniva pe’ lui, pe’ sostenerlo nella corsa a sindaco e dopo, a vittoria ottenuta, perché de sicuro il vecchio avrebbe vinto, pe’ incassa’ quello che poteva incassa’».
«E io che c’entro?»
«Tu je stai sur cazzo da tempo. Te dice quarcosa Diego Maresca? Er fijo de Maresca, Pino Maresca, ha sposato Lucia Racco, sorella di Dennis».
L’albero genealogico della malavita internazionale poteva anche affascinarlo, gli sfuggiva tuttavia come gli affari sentimentali e di letto di quella gentaglia potessero metterlo in pericolo. Espresse a Oki le sue perplessità.
«Ma che cazzo di giornalista sei!? Nun capisci ’na ceppa» concluse abbassando lo sguardo sui cento euro.
Malinverno mise mano al portafogli e ne aggiunse altri cento. «Mi vuoi spiegare bene, ora?»
«Diego Maresca e Racco so’ quasi parenti mo. Pino, per il quale lavoro ogni tanto, nun s’è fatto sfuggi’ l’occasione de parla’ male de te ar cognato. E guarda un po’, Dennis Racco è maritato co’ Teresa Averra. La conosci bene, lei, o sbajo?»
Ora era tutto chiaro. Sapeva che la ragazzina con cui aveva avuto la storia in Calabria aveva sposato un boss degli States. Gliene avevano fatto anche il nome all’epoca; ecco perché quando il collega Silverio Orati glielo aveva rivelato gli diceva qualcosa il nome di Dennis Racco.
Non doveva fargli piacere sapere che il giornalista tanto inviso alla famiglia del cognato si era ripassato la giovane moglie.
«Lui cornuto, tu mazziato» sintetizzò Oki.
Inghiottì saliva un paio di volte. Non aveva argomenti per replicare: «Il picciotto ha fatto carriera» riuscì a celiare.
«Devi sta’ attento, ripeto. Quelli non scherzano. Io ne so quarcosa...»
Quattro mesi prima – Oki prese a raccontare perché a faccia a faccia sentiva di poterlo fare – se l’era vista molto brutta per degli scivoloni, diciamo così, professionali.
Nella zona controllata da lui su incarico di Toni Cutrupa, un paio di negozianti non avevano versato le quote dovute da diversi mesi. Come se non bastassero le migliaia di euro persi, un giovane spacciatore aveva preso a fare affari considerevoli, senza concordare l’avvio del traffico e le relative ripartizioni dei guadagni.
Dopo un paio di avvertimenti a suon di sberle, gli scagnozzi di Cutrupa erano passati ai fatti, presentandosi alla sua villetta a schiera di Ostia, prima dell’alba. Ripensandoci sentiva i dolori del pestaggio ridestarsi e una morsa afferrargli il petto.
Era stato costretto a guardare quei due scimmioni violentare moglie e figlia sedicenne senza poter far nulla: legato a una sedia, con le tibie spezzate da una mazza di ferro. Dopodiché, anche comprensibilmente, Silvana non lo aveva più voluto in casa. «Facciamo meglio da sole, ci porti solo guai».
La moglie, con la quale il rapporto era già precario, lo aveva sbattuto fuori dalla sua vita e da quella di Katia. Non le aveva più viste, e certo non aveva denaro per rivolgersi a un avvocato che facesse valere i suoi diritti di padre.
Cutrupa gli aveva portato via tutto, lavoro e famiglia, ricacciandolo ai margini della malavita di piccolo cabotaggio: costretto a vivere qui e là, di espedienti.
Aveva gli occhi lucidi. «Non c’ho più gnente. Me vesto e magno alla Caritas. Vado a vede’ Katia all’uscita da scola, da lontano, come un sorcio. C’ha du occhi tristi che me fanno male ar core».
«Mi dispiace, Nando».
«Damme retta, parati il culo» lo avvertì, chinandosi ad annodare una delle robuste scarpe antinfortunistiche coi lacci gialli. «Sempre che sei ’n tempo».
«Sai cosa mi piace di te? Che sei rassicurante».
Nel rialzarsi da sotto al tavolino, lo sgomento dilagò nello sguardo di Oki.
«Nando... ma... che diamine? Che hai visto? Nando... Nando...»
Seduto in modo da dare le spalle alla grande vetrata, Malinverno non fece in tempo a voltarsi per vedere cosa ci fosse là fuori, che Oki stava già lasciando il bar.
In un unico gesto aveva afferrato il denaro sul tavolo e raggiunto la porta.
Lo vide correre in strada e, schivata di pochi millimetri un’auto frenata a stento, attraversare e sparire. Cosa o chi l’avesse tanto spaventato, tra veicoli in sosta e passanti distratti, non gli riuscì di capirlo.