Con le gambe e le braccia contratte, stipato com’era dentro alla Fiat 126 giallo limone della madre, Leo Malinverno si maledisse per non aver mai trovato il tempo e soprattutto la voglia di acquistare un’automobile adatta alla sua statura.
Non per parsimonia.
Ogni volta che si era trovato sul punto di prenderne una, in tutta coscienza gli veniva da chiedersi: a Roma, con il traffico che c’è, che me ne faccio? Meglio il vecchio scooter che gli consentiva di schizzare da una parte all’altra della città, per lavoro o svago che fosse.
All’occorrenza, poteva sempre accedere al box della madre. Tanto l’indaffaratissima professoressa Scialoja si muoveva solo a piedi per andare al suo liceo. In bicicletta d’estate o utilizzando i mezzi pubblici con il brutto tempo. Teneva la Fiat 126, regalo dei genitori per la laurea che era coincisa con la conquista della patente e poco dopo con la nascita di Leonardo, come una reliquia: il motore era nuovo di zecca, la carrozzeria, riverniciata due anni prima, fiammante.
Clara aveva scelto quel colore che le era sembrato estroso. Quella vetturetta arrancante e così fuori dalle mode era il simbolo della libertà conquistata. Non le importava di utilizzarla poco, la teneva come si fa con una bottiglia di buon vino che si conserva per chissà quale occasione. E per il figlio.
Malinverno aveva anche chiesto a Jacopo Guerci, ma la sua auto, molto più comoda, era in officina per un guasto. Arrivò al Circeo che era già buio, benché fossero solo le sei di sera. Il tragitto era filato liscio, peccato che il rumore della marmitta, ben lontana dalla soavità di quelle moderne, gli avesse procurato un gran mal di testa.
Dovette chiedere informazioni a un tizio del posto per riuscire a trovare la casa di Viola Ornaghi, distante dall’abitato, immersa nel verde insieme a poche altre costruzioni simili. Poste su un’altura.
Mentre imboccava il vialetto alberato che conduceva al villino, incrociò una moto di grossa cilindrata che arrivava in senso contrario, senza riuscire a vedere in faccia chi la montava.
Tirava un vento carico di vapore acqueo che presto si sarebbe trasformato in nebbia. Sentì la necessità di stringersi la sciarpa al collo e di chiudersi il parka. Dall’abitazione filtrava una sola luce dalla vetrata ampia che sembrava corrispondere al salone.
Suonò il campanello e quasi in contemporanea udì l’abbaiare di Palù in casa.
Viola andò ad aprirgli il cancello, avvolta in uno spesso scialle di lana. «Sei tu, ti ho pensato e sei arrivato. Che bello, Leo».
Si abbracciarono.
A Malinverno sembrò che i loro cuori, che battevano uno dinanzi all’altro, si fondessero in uno. «Che fai qui, da sola?»
«Cerco di riprendermi. Sono stanca di stare male».
La trovò smagrita, pallida, con l’energia di una lampadina che si fulmina lenta. La bassotta li precedette in casa, contenta di avere ospiti.
Si sistemarono in salotto: Viola stesa sul divano, sotto al plaid, Leo in poltrona.
«Hai avuto visite? Ho incrociato uno in moto che usciva dalla strada...»
«Sarà stato uno che ha sbagliato, capita spesso perché non c’è il cartello di strada senza uscita. Da me non è venuto nessuno».
«Non posso vederlo spento, questo camino. Dove trovo della legna?»
«Sul retro, dentro al casotto. Puoi uscire dalla cucina». Gli indicò il percorso.
Un giovane fuocherello, in breve, allietò la conversazione, punteggiata dai suoni dei messaggi accumulati nei giorni di non utilizzo sul cellulare di Viola, che ne era rientrata in possesso. «Mia madre è imperdonabile. Ma sono stata bene senza telefono, libera dall’assillo di gente che si sente in diritto di entrare nella tua vita ogni volta che vuole. E con quello che è successo...» Leggeva e cancellava o rispondeva agli sms. «Matteo mi ha cercato tante volte, vedo».
«È tuo marito, è normale che sia preoccupato. Perché ti stupisci?»
«Perché è uno stronzo. Anche se io, senza di lui, mi sento come un guanto spaiato».
Malinverno non diede seguito allo sfogo di Viola. «Dobbiamo tornare a Roma. Guerci ti cerca, credo voglia parlarti». Uno schiaffo sarebbe stato meno cruento. Si pentì subito, vedendola turbata, di averla voluta punire riportandola alla realtà. «Tranquilla, ci sarò io con te».
«Grazie, ma non capisco cosa potrei dirgli ancora».
«Magari è lui che deve dirti qualcosa». Le raccontò gli ultimi sviluppi che, stando rintanata al mare, le erano sfuggiti.
«Allora, se hanno sparato a Fabio Massimo, potrebbe trattarsi di una specie di faida. Una vendetta che non si estingue con la morte del vecchio».
«Potrebbe anche essere».
«Il funerale è stato celebrato?»
«No. Il corpo è ancora a disposizione dei medici legali».
«E il testamento?»
«Giusta domanda, collega. Il testamento... Non ne abbiamo parlato con Guerci, lo farò appena lo vedo. Potrebbe contenere informazioni importanti, utili a capire certe dinamiche. Come mai non mi è venuto in mente?»
Viola si massaggiava la tempia destra con i polpastrelli, dal plaid spuntavano i suoi calzerotti di lana rossi. «Ho un tremendo mal di testa».
«Anche io. Tutta colpa della Fiat 126 di mamma, fa più fracasso di un’orchestra scordata e guido così accartocciato...»
«No, io da quando non metto più il bite ai denti, mi ci sveglio sempre».
«Mettilo, allora».
«Eh, ma non lo trovo più. Dovrei farmene fare un altro».
Malinverno guardò l’orologio. «Si è fatta una certa... Che mangiamo?»
«C’è poco o niente nel frigo e nella dispensa».
«Ho visto che c’è uno spaccio aperto, non molto distante da qui. Non ci resta che andare a far spese prima che chiuda».
«L’Emporio di Aldo, certo, sono sopravvissuta grazie a lui in questi giorni. Ha di tutto. Io però non ho voglia di uscire».
«Dai, marmotta, ci farà bene camminare un po’... anche per il mal di testa».
La più contenta fu Palù. Trotterellava davanti a loro nelle strade vuote, fermandosi ad annusare di tanto in tanto. La temperatura era scesa, il vento tirava più forte. Malinverno e Viola, ben infagottati, camminavano vicini, con le mani nelle tasche.
A un certo punto lei passò il braccio nel suo. «Sai di cosa ho voglia?»
«Di un brodino caldo? Con questo gelo...»
«Macché... Mangerei una bella matriciana. Chissà se troviamo cipolla e pancetta».
«Speriamo di no...» sorrise. «Non servono né l’una né l’altra».
«Ma come no? Matteo la preparava sempre, con cipolla e pancetta».
«E non era matriciana. Dai retta». Lo disse con una smorfia che la fece ridere.
Alla bottega di Aldo, piccola ma zeppa di prodotti, presero del guanciale di ottima qualità, la passata di pomodoro, un barattolo di pomodori a pezzetti, del pecorino, un pacco di spaghetti della marca giusta. E poi frutta, un gelato, una crostata fatta in casa dalla moglie del proprietario.
Mettendosi al lavoro in cucina, Malinverno sintonizzò la radio su un canale di musica classica. Non ci volle molto, il profumo del guanciale che sfrigolava in padella si diffuse stuzzicando il loro appetito. Si misero a tavola, nel salone davanti a un’ampia vetrata ad arco, al di là della quale, più sotto, muggiva il mare in tempesta.
«Ho una fame. Sono giorni che mangio yogurt e cracker».
Prima di tutto Malinverno versò nei calici il vino già sturato e lasciato decantare. Fecero un brindisi a se stessi. «Alla fine di questo incubo». Quindi le servì una generosa porzione di spaghetti. «E adesso dimmi come sono. La cipolla... che idea!»
«Buonissimi. Poi ne voglio altri».
«Tranquilla, ce ne sono».
Mangiarono e bevvero, dando fondo alla bottiglia di Negroamaro. Poi Malinverno portò in tavola una macedonia ricoperta di gelato alla vaniglia.
«C’è anche la crostata, lasciati un posticino, Viola».
«Non credo di riuscire a mangiare qualcos’altro. Sarà per domattina».
«Va bene, ci facciamo però un caffè?»
«Quello sì».
Durante il pasto, erano riusciti, aiutati dall’alcool, a parlare solo di cose amene. Ogni tanto soffermandosi a guardare fuori: sul terrazzo le piante nei grossi vasi di coccio si piegavano al capriccio del vento.
«Passato il mal di testa?» chiese Viola.
«Sì. Mangiare mi fa passare tutto. E a te, è passato?»
«Diciamo che si è allentato, domattina starò di nuovo male, lo so. Soffro di bruxismo e, se non ritrovo il vecchio bite, dovrò andare dal dentista a chiederne uno nuovo. Prima chiamerò Enrichetta, per capire se sa dove potrebbe essere».
Finse di non sapere. «Enrichetta?»
«La mia tata».
«Alla tua età, la tata?» la canzonò.
«La chiamo così, sta con me da quando ero piccola, mi fa da governante ora. Si occupa della casa, e ne sa più di me, di sicuro».
«Le hai dato le ferie?»
«È a Venezia, a casa del nipote. Veramente avrei fatto a meno di mandarcela, in questo periodo poi. Ma sembrava stanca. Ho avuto la sensazione che avesse urgenza di andare... Mi sono scritta di chiamarla e ho messo il biglietto lì sul frigorifero, poi non l’ho fatto. Vado a fare il caffè».
«No. Oggi faccio tutto io, tu mi ospiti e io devo disobbligarmi» disse alzandosi.
In cucina Palù se ne stava seduta davanti alla portafinestra, molto interessata a quello che sbirciava fuori. Per prima cosa Malinverno cercò il numero di Enrichetta fermato con un magnete a forma di elefante sullo sportello del frigo e lo trascrisse sul telefonino. Quindi inserì le cialde del caffè nella macchina colorata e, come sempre dinanzi a quei prodigi della tecnica idraulica, pensò che sarebbe venuto meglio con la moka.
«Quanto zucchero?»
«Niente, grazie, amaro».
«Come fai? Il mio dev’essere ben zuccherato, invece».
«Anche Matteo lo prende così, addirittura con due cucchiaini di zucchero». La nota malinconica nella voce era chiaramente percepibile. «Voi uomini non sapete rassegnarvi all’amaro dell’esistenza, questa è la verità» cercò di tirarsi su.
Anche se cercava di ignorarlo, Malinverno avvertiva una punta di fastidio ogni volta che Viola nominava il marito. Scelse la via del fair play, in ogni caso.
«Forse dovresti fargli sapere che stai bene».
«Non se lo merita. Non sono pronta. Ogni volta che penso a lui mi tornano in mente le scene disgustose di quel video».
«Eppure sembra che ti manchi» riuscì a dire.
Viola rimase un istante di troppo come imbambolata. «Mi manca? Dici? Non lo so. Mi mancano certi gesti, certi rituali, alcune gentilezze quotidiane, domestiche. Quelle mi mancano. Ti faccio un esempio...»
«Sì, per favore. Ne sento il bisogno».
«Quando mi addormentavo con il libro tra le mani, Matteo me lo toglieva delicatamente e spegneva l’abat-jour. Adesso la luce rimane accesa fino al mattino, se il libro non cade per terra e mi sveglia prima».
«Potresti comprare una lampada con il timer e mettere uno scendiletto bello soffice, magari di pelliccia, così non ti accorgi quando il libro cade».
La fece ridere. «Sarai stupido!? Il matrimonio alla fine è come un lungo bagno in vasca: l’acqua si fredda, la schiuma smonta, ma non vorresti uscirne. Per me era così».
«Ecco, io preferisco la doccia».
Viola gli fece una smorfia buffa.
«Dai, la doccia è anche più igienica!»
«Hai sempre voglia di scherzare, tu» lo rimproverò divertita.
«Sarà perché non mi sono mai sposato né ho intenzione di farlo?»
«Eh, mi sa che fai bene. Me lo dice anche Marcella Tavani. Lei è stata sposata e dal divorzio non ha avuto che vantaggi, non fa che ripetermelo. Soldi e libertà, soprattutto. A proposito di Marcella Tavani... hai letto il mio pezzo?»
«No, hai scritto un pezzo? Charme non è tra le mie letture abituali, mi spiace».
«Hai ragione anche tu».
«Ma che pezzo hai fatto? Non ti aveva chiesto un’intervista a Restelli?»
«Già, ma per evidenti ragioni non ho potuto portargliela, così Marcella mi ha chiesto un resoconto di quello che avevo visto alla villa».
Per poco a Malinverno non andò di traverso il caffè. «E quando è uscito? Me lo fai leggere?»
«Certo, dev’essere di là. È uscito ieri».
La vide perplessa.
«Marcella, però, deve averlo rimaneggiato. Ho scritto delle cose che non ho ritrovato nel mio articolo».
«Dove trovo il giornale?»
Viola gli diede le indicazioni necessarie.
Con l’ansia che saliva, temendo la reazione di Guerci a cui aveva dato rassicurazioni che la sua amica non avrebbe scritto niente sull’omicidio di Ascanio Restelli, Malinverno andò a recuperare la copia di Charme dal portariviste.
La scorse rapidamente alla ricerca della pagina deputata e lesse a scapicollo. Arrivato alla fine, trattenendo a stento l’istinto di fare dei saltelli di gioia, alzò lo sguardo.
«Non ti piace?»
«È bello. Perché?» Si sarebbe messo a ballare un valzer.
«Marcella Tavani ha tolto un paio di passaggi. In particolare quello in cui raccontavo degli occhi cavati e portati via al vecchio... se ci penso mi risento male».
Non poteva sapere, Viola, quanto fosse meglio così. Gli evitava di dover spiegare all’amico Guerci, che a quel punto avrebbe avuto buone ragioni per insultarlo, perché fosse stato tanto sciocco. Come aveva potuto non considerare che una giornalista, benché responsabile di un settimanale femminile, mai si sarebbe fatta sfuggire l’occasione privilegiata di dare alle lettrici un racconto in prima persona? Marcella Tavani aveva solo fatto molto bene il suo lavoro. Decise di proseguire sulla strada della finta ingenuità.
«Avrà pensato che un dettaglio tanto efferato potesse disturbare il vostro target».
Viola sorrise. «Target?»
Continuarono a scherzare sulla scelta di quel vocabolo degno di un esperto di marketing strategico, mestiere che entrambi disprezzavano, e sulla deriva del linguaggio che anche per colpa dei giornalisti aveva preso una brutta piega.
Malinverno le ripropose una fetta di crostata, Viola accettò.
Rimasero ancora un’ora davanti al camino, senza altre luci accese, finché Viola non disse di voler andare a letto.
«Tu ovviamente ti fermi a dormire qui...»
«Mi vuoi far guidare quella scatoletta di sardine di notte?»
«Di sopra c’è una camera libera, però il letto te lo rifai da te».
«Affare fatto».
Le ombre generate dal fuoco giocarono con i lineamenti perfetti di Viola mentre si avvicinava per dargli un bacio, sulla guancia, non molto lontano dalla commessura delle labbra. «Grazie. Era da tanto che non stavo così bene».
Malinverno si sforzò di non far viaggiare la fantasia. Non sarebbe convenuto a nessuno.
Stanco com’era, non ci pensò neanche a prepararsi il letto. Si distese vestito con una coperta addosso e il sonno lo investì con la violenza di uno spintone, sprofondandolo in un abisso scuro. Avrebbe proseguito a dormire con la stessa soddisfazione se il telefonino alle 3.32 del mattino, come certificava in modo spietato il display, non avesse preso a suonare.