Trascorse la domenica da solo.
La madre era in campagna da un’amica, Guerci in Questura per delle urgenze, come gli aveva scritto in un sms.
Dormì fino a tardi e dopo il caffè se ne andò a correre a Villa Pamphilj, deserta per la temperatura rigida e i tradizionali pranzi famigliari. In quelle occasioni, apprezzava il grande privilegio della sua condizione di libertà non vigilata da chicchessia.
Al rientro, la doccia e un bicchiere di latte e biscotti bastarono a farlo sentire a posto.
Muoversi in quell’appartamento così vuoto di persone e così pieno di vita gli riportava alla memoria fatti, situazioni, figure che avrebbe detto svaniti.
Per dire: il sofà in salone dove si era messo a leggere la restante parte della Fiera della vanità di Thackeray era lo stesso su cui, a sedici anni, aveva fatto sesso la prima volta. Con una compagna di scuola dai capelli colore del sole d’estate.
Com’è che si chiamava? Sabrina, senza dubbio. Ma di cognome? Sabrina. Sabrina e basta.
Arrivò alla fine del romanzo all’ora di cena. Aveva acceso la lampada senza neanche accorgersene, con le ombre che si allungavano su mobili e pareti.
Mentre seguiva il TgLa7, privo di notizie interessanti su Restelli, si preparò una gran porzione di spaghetti cacio e pepe, che decise di accompagnare con un rosso toscano robusto, scelto tra le bottiglie allineate sul ripiano in cucina.
Per un attimo, avvitando la forchetta nel piatto, si soffermò a fantasticare su come sarebbe stata la sua vecchiaia. Se l’augurò non molto dissimile dalla giornata che aveva trascorso in splendida solitudine.
Non sarebbe stato più in grado di correre un’ora e mezzo, avrebbe dovuto rinunciare a quel che più gli piaceva, ossia far l’amore con le belle donne. In ogni caso sperava di rimanere autosufficiente fino all’ultimo.
Leggere, mangiare e bere bene, andare al cinema o alle mostre d’arte, quelle cose non gliele avrebbe tolte nessuno. Fino a novantacinque anni e oltre. Gliene restavano più di cinquanta: poteva star tranquillo.
Sempre che un cancro, una pallottola o un incendio appiccatogli sotto al culo non lo seccassero prima.
La malinconia domenicale fa brutti scherzi, pensò divertito, ritirandosi in camera per evitare di dover scambiare parola con la madre o con Guerci, se per caso fossero rientrati.
S’infilò le cuffie dell’iPod nelle orecchie. Stompin’ at the Savoy lo condusse nello stato di ebetudine che introduce al sonno. E proprio l’assenza di freni inibitori prima del salto nell’oscura serenità notturna lo portò a riflettere sulla mancanza di slancio di Viola Ornaghi nei suoi confronti.
Se n’era andato in piena notte lasciando un biglietto stringato e l’amica non aveva neppure ritenuto opportuno telefonargli per sapere come stava.
Si sforzò di capirla. Il matrimonio fallito, il pessimo rapporto con la madre, l’orrenda esperienza a villa Restelli...
La giuria popolare riunita in seduta plenaria nell’aula della sua coscienza benevola decise di concederle tutte le attenuanti.
Si addormentò sulle note di ’S Wonderful.
Il mattino dopo e nei giorni seguenti fu totalmente preso dalle deposizioni in Questura per l’incendio e il rinvenimento del cadavere di Oki, e soprattutto dal recupero dei documenti richiesti per il risarcimento dei danni provocati dal fuoco.
Ancora una volta dovette constatare quanto la burocrazia fosse ottusa nell’ignorare l’ovvio e nel tentativo di certificare l’impossibile.
L’appartamento era polverizzato, tanto che non aveva potuto salvare neppure un pullover o un libro, e l’ometto dell’assicurazione, segaligno, con gli occhietti perversi, si metteva a cavillare. Era il suo mestiere, per carità. Perciò Malinverno decise di trasferire l’onere della controversia a un legale.
Così, alla fine, ebbe la meglio su tutto.
E con la definizione dell’accordo circa l’ammontare del sostanzioso premio per dolo – sicuro di non voler mettere più piede nel vecchio appartamento – si galvanizzò all’idea di riuscire a posare gli occhi su un villino nei pressi di via Salaria, a pochi passi da Villa Ada.
L’ideale per andare a correre appena aveva del tempo libero.
Si trattava di una palazzina indipendente, dei primi del Novecento: due piani emersi, con un’ampia cantina, e un piccolo giardino attorno.
Un amico poco incline alle speculazioni che si trasferiva negli Stati Uniti glielo lasciava, considerato il pregio dell’immobile, a un prezzo contenuto. Affare fatto, sulla parola; potendo contare anche sui risparmi in banca.
Chiese a Carla Tesei che l’accompagnasse a visitarlo: il villino piacque perfino a lei. «Saremo vicini, da casa mia posso venire a piedi» si entusiasmò.
«Non ci avevo pensato» scherzò Malinverno passandosi una mano sulla nuca. «Dovrò dire al proprietario che voglio cercare ancora...»
«Che idiota, ma guarda che pavimenti? Meravigliosi!»
Al piano terra la cucina, venti metri quadri a dir poco, aveva un’enorme vetrata sul verde del retro. «Già ti vedo a preparare cenette qui dentro, mi lecco i baffi».
«Ecco, parliamo di quei baffi...»
«Vai a cagare, Malinverno».
Nel salone c’era il camino e di sopra, dalle tre camere da letto, si vedevano solo le chiome frondose degli alberi e spicchi di cielo.
Malinverno stabilì con l’amico in procinto di andarsene oltreoceano di firmare il compromesso appena finite le feste. Del notaio si sarebbe occupato lui.
Decisero con Carla di concedersi una passeggiata per festeggiare l’evento.
Via Veneto appariva scintillante per le luminarie, gli addobbi natalizi nei dehors, le guide di feltro rosse stese a terra; con la gente che si affollava davanti alle vetrine e nei negozi per farsi ispirare negli ultimi regali.
A differenza di quando era bambino o ragazzo, non invidiava quella sensazione di affanno, non capiva la frenesia merceologica che prendeva tutti. E un po’ se ne doleva.
Girarono su via Sistina e discesero la scalinata di Trinità dei Monti. Presero un caffè vicino a via del Babuino, osservando dalla vetrina del bar il viavai da Tiffany.
«Io me ne vado a Tarpasso, voglio passare il Natale lì» disse all’improvviso Malinverno. «Vieni anche tu?»
«A Tarpasso, in mezzo ai lupi?»
«Sì. Hai impegni?»
Era l’antivigilia di Natale, di rimanere in città non aveva voglia: che la Tesei accettasse o no, sarebbe andato a rintanarsi nella casa ricavata nella torre medievale che si affacciava sulla Valle del Treja. Al paesello del nonno.
Non c’erano i lupi lì, solo qualche volpe e martora, oltre a una trentina di superstiti che vi abitavano tutto l’anno.
Salutata Carla che doveva tornare al Globo, Malinverno telefonò a Jacopo Guerci per invitarlo.
«No, ti ringrazio» rispose il poliziotto. «A parte il fatto che se c’è la tua amica giornalista, la Tesei, io sono di troppo...»
«Ora cominci a farmi scenate di gelosia?»
«Bischero, lo sai che non voglio che si sbandieri troppo la nostra amicizia. Grazie davvero. Vado a Firenze. Staremo, credo, da mia sorella, con mia madre e i miei zii... com’è che si dice? Natale con i tuoi!»
Per la sua famiglia quel detto non aveva mai avuto significato.
Quando lui e Ippolita erano piccoli, Clara faceva l’albero, comprava i regali, in un modo o nell’altro preparava il cenone: immancabili gli spaghetti al tonno. Ma per far felici i figli, non per automatismo religioso.
Arrigo a volte c’era, altre no: arrivando magari quando già si erano messi a tavola, soltanto per poggiare sulle teste dei figlioli la mano di padre che voleva mostrarsi amorevole. Nessuno s’interrogava mai sui suoi movimenti.
Poiché l’uomo di Ippolita aveva avuto un imprevisto di lavoro, avevano deciso di rinunciare al viaggio a Roma, e Clara li raggiungeva a Londra. Anche in questo caso, ci andava non perché fosse Natale. Solo per approfittare dei giorni di vacanza fino al 7 gennaio.
Per Leo Malinverno era meglio che Guerci avesse declinato l’invito a Tarpasso, così poteva sentirsi libero di chiamare Viola. Lo spazio c’era: le avrebbe dato la stanza in cima, quella dove gli piaceva dormire da bambino, immaginando che il tetto si aprisse per lasciargli rimirare astri e pianeti in un confortevole abbraccio celeste.
Sarebbe partito la sera stessa, dopo aver fatto la spesa. In paese, c’era solo un buco polveroso in cui acquistare scatolame, affettati, detersivi. Lui voleva un astice vivo, vongole, cozze, gamberoni rossi freschissimi. All’enoteca sotto casa prese anche una cassa di Ribolla Gialla.
Considerato che il suo guardaroba era andato in fumo, dovette decidersi a passare poi nel negozio dove si serviva di solito. Acquistò due camicie, due pullover, dei pantaloni, qualche capo di biancheria intima.
Quindi caricò la macchina anche con i piumini che Clara aveva stipato nei vari armadi e partì. Pervaso dalle stesse sensazioni di quando alla fine della scuola, a dicembre o in estate, raggiungeva Tarpasso per far visita a nonno Ciccio.
Nonno paterno, figlio del vecchio maniscalco del paese, era stato per tutta la vita impiegato al Catasto di Viterbo e poi sindaco in una giunta di sinistra, senza tradire le sue convinzioni democristiane.
Rimasto vedovo a sessant’anni, non si era voluto trasferire a Roma.
Uomo di principi solidi, capace di un umorismo nero, era stato lui il vero padre di Leo Malinverno, mentre Arrigo si perdeva dietro ai suoi traffici e, chiamiamole così, alle sue fidanzate.
L’anno in cui, in quinta ginnasiale, si era voluto ritirare dalla scuola per il duro contrasto con un professore, aveva trascorso l’inverno alla rocca: a studiare tutte le materie in vista – su questo Clara non aveva voluto sentire ragioni – degli esami da privatista.
Nelle pause erano andati in cerca di funghi porcini, a raccogliere legna, a caccia di cinghiali, a mangiare polenta e salsicce alla taverna. Divertimento puro, tra uomini. E c’era anche una coetanea, figlia del falegname, a stuzzicargli le fantasie.
Più che altro, considerava Tarpasso un rifugio dell’animo, un posto che gli serviva per ritrovarsi. Vi aveva trascorso in passato, dopo la morte del nonno, lunghi o brevi periodi. Sempre da solo.
Per la prima volta sentiva di poterlo condividere con le persone a cui teneva. E l’ipotesi dell’arrivo di Viola lo emozionava.