La Tesei si svegliò di buon’ora, ammesso che avesse dormito. Malinverno la trovò che faceva colazione con la torta di pane di Faustina.
Si era già alzata anche Viola e, senza fare tanto tragitto dal divano alla cucina, aveva preparato il caffè. «Ne vuoi una tazzina, Leo?»
«Sì, grazie».
«Che meraviglia, questa torta. Quella donna ha le mani fatate!» si beava Carla.
«Avete dormito bene, ragazze?»
«Io non mi sono neppure accorta che stavo per addormentarmi... scusate» sorrise Viola.
«E di che ti scusi?»
«Ecco, appunto, se soffrissi d’insonnia come me, non ti scuseresti» la rassicurò Carla. «Comunque, incredibilmente, ho dormito di sasso anche io. Dev’essere il posto».
«Allora devi venire più spesso».
Viola concordava. «Qui ci si sente lontani da tutto, protetti. E sentite che silenzio...»
«Il massimo che puoi sentire qui è il canto del gallo all’alba e i richiami di gufo e civetta la notte. Le auto come avete visto si fermano lontano».
«Ma cos’è questa torta?» disse Carla tagliandosene un’altra fetta. «Ci sono uvetta, canditi e pinoli. Devo avere assolutamente la ricetta».
«So che usa il pane raffermo, le dosi non le so. Se vuoi ci andiamo e gliele chiediamo» propose Malinverno.
«No. Sarà per un’altra volta, oppure ti fai dare tu la ricetta e me la porti a Roma».
«Perché? Non ci mettiamo niente e Faustina sarà contenta».
«Devo tornare in città, i miei mi aspettano per il pranzo di Natale. E devo prima passare a casa a cambiarmi, con questa neve ci metterò un’eternità...»
«Ma come? Non devi neppure lavorare... domani Il Globo non esce...»
Troppo tardi. Era tornata di sopra a prendere il bagaglio.
Malinverno la accompagnò all’auto. «Sei una scema, lo sai? Ho capito perché te ne vai, che credi... E come farai a guidare con tutta ’sta neve?»
«Sta arrivando Viola, attento» disse Carla mentre lo baciava sulle guance. «E stai tranquillo. Ho gli pneumatici termici, me la caverò. Pensa a quello che ti ho detto, invece».
La salutarono con la mano fino alla svolta. Palù provò a correre dietro alla vettura, prontamente richiamata dalla padrona.
Viola fece la faccia di bimba triste. «E adesso che facciamo?»
«E che facciamo? Ce ne andiamo a fare una passeggiata fino al torrente... che ne dici? Ti va?»
Si equipaggiarono con gli scarponi – a Viola calzavano alla perfezione quelli di Clara – e si coprirono bene.
Con la scorciatoia giusta furono in pochi minuti fuori dalla rocca, su un sentiero in mezzo ai cespugli di sambuco, poi costeggiato da alberi di alto fusto. Camminarono in silenzio, con la bassotta attorno.
Ogni tanto Malinverno prendeva Viola per mano, per aiutarla a superare un tronco caduto di traverso sul percorso o un dislivello.
Dopo una mezz’ora, l’acqua delle cascatelle di Monte Gelato si annunciò con l’allegro sciabordio.
«Ma è una meraviglia questo posto, a pochi chilometri da Roma, chi se lo sarebbe immaginato... Incredibile!»
«Ci ho passato l’infanzia e l’adolescenza, diciamo che è il mio buon ritiro. Mia sorella e i miei lo detestano, così è tutto mio».
«E quello lassù? Che paese è?»
«Calcata. Se vuoi ci andiamo».
Viola rise. «No, no, per oggi ho camminato abbastanza. E poi dobbiamo anche tornare».
«Non sei abituata. Vieni, sediamoci qui». Su una roccia piatta, a picco sul Treja che procedeva tra sbuffi e vortici.
«Era quello che mi ci voleva. Grazie, Leo» gli poggiò una mano sul ginocchio.
Occhi negli occhi, fu Viola a distogliere lo sguardo per prima. «Vuoi smetterla di ringraziarmi? Com’è che si dice, mi casa es su casa, guapa».
«Grazie, grazie. Se penso che tra qualche giorno si torna a lavorare... me ne rimarrei qui».
«Sai che ho incontrato la tua direttora?»
«Hai visto che tipa...»
«Davvero insopportabile. Mi ha detto che non avevo il diritto di ficcare il naso nella sua redazione, solo perché una sua giornalista mi aveva chiesto aiuto. Posso domandarti come mai le hai parlato di me?»
«Non ricordo, ma non mi pare... Non mi pare proprio, a dir la verità, di averle detto del nostro accordo» disse Viola.
«Come te lo spieghi, allora?»
«Quella sa tutto, è una diavola».
«Perché pensi che ti abbia affidato l’intervista al vecchio?»
«Pensava che fossi la persona giusta e anche Restelli». Alzò la testa e si guardò intorno. «Sai che è incredibile che io non conosca neppure un nome di questi alberi maestosi...»
«Mio nonno, invece, quando venivamo qui m’interrogava. Ho imparato così. Partivamo da cinque salsicce e, a ogni albero che non riconoscevo, una salsiccia in meno. Capitava che mangiassi anche solo polenta».
«Quello cos’è?»
«Nonno Ciccio non può sentirmi, spero di non sbagliare, dovrebbe essere un rovere».
Viola ne indicò un altro.
«Quello è un leccio, sicuro».
«Quello è un pioppo?»
«Un pioppo nero, brava. E quell’altro è un ippocastano» disse indicando uno degli alberi dalla chioma più frondosa.
Viola smise di sorridere. «Un ippocastano?»
«Sì, ippocastano. L’albero impostore, come lo definisce Primo Levi. Ma cos’hai?»
«Niente, niente. Un brutto ricordo».
Le sollevò il mento. «E non vuoi parlarmene?»
«Sì. Non c’è nulla di segreto, è una cosa mia, l’ennesima delusione della mia infanzia. Com’è che l’hai chiamato? L’albero impostore».
«Impostore ma ingenuo, secondo Levi».
«Eravamo a Velletri, in campagna, mi annoiavo da pazzi. Così presi a raccogliere ricci e castagne, pensando di fare cosa gradita ai miei. Mi riempii la gonna... Quando li portai in cucina, la moglie del mezzadro che era lì con mia madre si mise a ridere».
«Perché non erano castagne...»
«Non sono castagne, quelle, vanno bene pei porci, diceva, e rideva fino quasi a scoppiare. Mia madre non aspettava altro per sgridarmi: Ma che ti viene in mente... Andare in giro a raccogliere robaccia come una contadina, guarda come ti sei ridotta le mani, tutte graffiate...»
«Io me ne sarei fregato».
«Non so cosa mi prese, ebbi come un attacco isterico. Piangevo, urlavo, battevo i piedi, tremavo...» le lacrime le scendevano anche in quel momento.
Malinverno le porse un fazzoletto di carta per asciugarsi e soffiarsi il naso.
«Sono castagne, sono castagne, sono castagne... le ho prese per te, per papà... sono castagne, sono castagne... lo ripetevo, senza riuscire a fermarmi» ora singhiozzava.
Le passò il braccio sulle spalle. «Tranquilla, Viola. È passato».
«Sì, scusami. Una ragazza educata non piange».
«Che stronzata, scusami. Piangi quanto vuoi».
«Me lo disse mia madre, quella volta. Una ragazza educata non piange. Poi prese le castagne o quello che erano e le buttò al secchio».
«Lo disse tua madre, ma è lo stesso una stronzata» alzandosi e aiutando Viola a sollevarsi, prese il fazzoletto accartocciato che le era caduto e se lo infilò nella tasca del giaccone.
La osservò mentre si era distratta. Avrebbe potuto essere anche lei un’antica creatura del bosco. In grado, inopinatamente, di sopportare indicibili dolori.
«Ho un po’ di fame, sai?»
«Buon segno, direi. Ti porto a mangiare alla taverna di Beppe».
Era un postaccio coi tavoli di legno, le tovaglie di carta e gli animali impagliati: senza pretese, con cibo e vino genuini, tutto sommato accogliente.
Beppe, coetaneo di nonno Ciccio, non c’era più. Ci pensava la figlia a mandare avanti quella che non si poteva neppure definire una trattoria. Apriva quando poteva, quando c’era movimento alla rocca di Tarpasso, preparando all’impronta i piatti richiesti dagli avventori o più spesso ingolosendoli con il menu del giorno.
Viola, che sembrava essersi rasserenata, chiese un’insalata di puntarelle con acciughe e mozzarella di bufala. Malinverno, ovviamente, polenta e salsicce. Prima però portarono in tavola una quantità di antipasti da saziare una truppa.
«Ho visto Matteo...» disse all’improvviso Viola.
«Tuo marito?»
«È venuto al Circeo».
«Vi siete parlati?»
«Non molto. Dice che mi ama, che gli dispiace che sia successo quello che è successo».
«Gli credi?»
«Non lo so. Sono confusa... Ma ogni volta che vorrei buttarmi tutto alle spalle, mi torna in mente la scena vomitevole di lui che fa sesso con quella donna».
«Ti ha detto che è dispiaciuto».
«È possibile» ammise. «Sostiene di non ricordare quando e come è stato realizzato quel filmato e che se non glielo avessi detto io non avrebbe neppure saputo che esiste».
Malinverno era in dubbio se dirglielo.
«Sai, Leo, non è solo il fatto fisico. Il tradimento è soprattutto questo per me, non potermi più fidare dell’uomo a cui avevo consegnato la mia vita. E poi c’è anche il video, nauseabondo. Anche in passato ha avuto altre donne, ma aveva promesso... e vederlo coi miei occhi...»
Gli bastò sostenere lo sguardo avvilito di Viola per cedere. «Io gli credo».
«A cosa... a chi credi?»
«A tuo marito, gli credo».
«Dai, tu non lo conosci, non sai di cosa può essere capace».
«Ti spiego. So dove hanno girato quel video...»
«Hai parlato con Matteo?»
Scosse la testa.
«Con Filippo Prandelli?»
«No. Ti spiego. La prima volta che mi hai parlato del sex tape mi hai detto che era un posto squallido, con un poster di Parigi. C’era per caso la Torre Eiffel?»
«Sì. Me lo ricordo perché ho pensato che ci avevo cenato con quel bastardo di Matteo».
«Ecco. Sono stato in quella stanza, dove c’è il poster. È in un centro benessere con annessi locali per il sollazzo di chi è in cerca di prostitute extracomunitarie, meglio se minorenni».
Viola sembrava colpita, la rivelazione galleggiò come in sospensione. Mosse però una ragionevole obiezione. «Questo però perché dovrebbe provare che Matteo non mente?»
«Hai detto che non ricorda di aver fatto sesso né di aver girato il sex tape... Lo hanno drogato».
«Scusa, ma faccio fatica a crederlo. È un gran figlio di... ma oltre qualche canna non è mai andato».
«Ho detto che lo hanno drogato. È un servizio che offrono, l’hanno proposta anche a me, la droga. E nel tè che mi hanno offerto c’era qualcosa, di leggero ma c’era».
«Non so che cosa dire... Sono così incazzata. Perché voi uomini siete così?»
«A che ti riferisci? Com’è che siamo, noi uomini?»
«Avete bisogno di questi trastulli».
«Io non ne ho bisogno, Viola».
«Sei stato lì anche tu... hai fatto sesso con una delle baby prostitute?»
Decise di concedersi una piccola bugia, suffragata dal lievissimo sdegno nel tono. «Mai in vita mia. Neanche stavolta. Sono stato lì perché volevo capire che posto fosse... e perché era implicato Filippo Prandelli».
«Lui? Dovevo immaginarlo. Sono come Ulisse e l’ombra con Matteo».
«È bastato fare il suo nome perché capissero e mi portassero da una cinesina che per me aveva sì e no diciassette anni».
In silenzio, Viola provò a mangiare la sua insalata. Malinverno ritenne di doverla rassicurare. «Dai, in fondo se le cose sono andate come io sospetto, cambia tutto per te... per te e Matteo».
«Non lo so. In questi giorni, in cui me ne sono stata da sola al mare, ho pensato molto a me. A quanto sono sfigata, a quale marito scapestrato sono andata a scegliermi».
«Ma se l’hanno davvero drogato?»
«Leo, che devo dirti? Se l’hanno drogato vuol dire che si è fatto drogare... si è messo, cioè, nella condizione di farsi drogare. Lui e quel suo amico riprovevole». E dopo averci riflettuto, chiese: «Ma poi perché? Perché l’hanno drogato? Solo per portarlo a puttane... non mi convince».
«Sei molto arrabbiata. Tieni ancora molto a lui, mi pare».
Lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Be’, è mio marito».
«Perché dici di essere sfigata? Nel nostro ambiente in tanti sono innamorati di te... della bella e algida Viola Ornaghi».
Le si accesero gli occhi. «E dove sono? Non me l’hanno mai detto».
«Non ne hanno avuto il coraggio» Malinverno era come ipnotizzato dal neo delizioso che aveva sul naso, sopra la narice destra.
«È il mio destino, si vede... Essere corteggiata da quelli che mi vorrebbero solo per il mio aspetto, di solito dei rozzi».
«Sto parlando di colleghi giornalisti, Viola».
«Appunto. Conosci qualcuno più rozzo di un giornalista?»
Risero. «Buona battuta, davvero buona».
La canzoncina del Pulcino Pio, usata da Viola come suoneria del cellulare, li distolse. «Devo cambiare questa suoneria scema... È mia madre, la chiamerò dopo. Forse» disse pigiando il tasto per silenziare il telefonino.
Fuori aveva ricominciato a fioccare la neve.
Il giorno di Natale proseguì tranquillo davanti al fuoco, tra libri e musica.
«Che leggi?» le chiese.
Sul divano con le gambe stese, Viola mostrò il libro. «L’ho preso a casa dei miei. Un polpettone sentimentale».
Mangiarono del torrone, risero.
Ma qualcosa tra loro si era rotto durante quella giornata trascorsa da soli.