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Nudo, con gli occhi ancora chiusi, Leo Malinverno allungò la mano sull’altro lato del materasso poggiato sul tatami giapponese.

Rotondità, levigatezza, dimensioni in equilibrio perfetto della natica che incontrò sotto al piumino non gli fecero rimpiangere la scelta di qualche ora prima.

Appena finito di scrivere, al giornale, gli si era spalancato davanti il baratro della notte da trascorrere in solitudine. Con l’unica prospettiva di guardare un vecchio film su Rai Movie. Oppure terminare la lettura di Miele prima di addormentarsi, e il rischio di deprimersi nella certezza di non poter eguagliare la raffinatezza stilistica di Ian McEwan.

Al di là del normale lavoro al Globo, il nuovo quotidiano di Roma dov’era inviato speciale, Malinverno da circa un anno tentava di chiudere l’inchiesta che sarebbe diventata il suo secondo libro. Il contratto era stato firmato a pochi mesi dall’uscita delle Vie dell’oro, che in due settimane aveva esaurito la prima edizione, arrivando a vendere cinquecentomila copie. E divenendo un best seller di cui si parlava.

Al giro di boa delle centomila, con l’ingresso in classifica, avevano cominciato a invitarlo nei salotti televisivi. Si era persino dovuto fare una domanda e dare una risposta nella trasmissione di quel tipo che si svegliava a mezzanotte e dintorni, l’ultimo dei capelloni.

A quarant’anni suonati, snello, coi capelli scuri appena visitati dal bianco, lunghi un po’ più del giusto oltre il collo, gli occhi verdi e mobili, incorniciati da occhialini di metallo, le labbra disegnate: prima che sulle telespettatrici Malinverno aveva fatto colpo sulle autrici dei talk show, che ci misero poco a farsi conquistare dalla voce profonda e dalla battuta pronta, ispirata alla tipica sornioneria romana.

A qualcuno era persino venuto in mente di proporgli la conduzione di una serie di trasmissioni ‘dalla parte del cittadino’.

Purtroppo, il direttore del Globo, stupito e forse invidioso dell’improvviso successo del suo giornalista, gli aveva negato il permesso.

Era legato al giornale da un’esclusiva: violarla avrebbe significato giustificare il licenziamento in tronco. Non se l’era sentita, pur non avendo famiglia o, per quanto ne sapesse, bambini a cui pagare scuole, abitini, pappe. A lui nessuno aveva regalato mai nulla.

All’esame di giornalista e poi all’assunzione in un quotidiano era arrivato dopo oltre dieci anni di collaborazioni come free lance: attraverso una serie di scoop che tutti i direttori gli avevano riconosciuto, sotto forma di premi in denaro, stima, quantità di lavoro.

Finché Pietro Orefici, veterano del giornalismo chiamato a fondare una testata dal nulla, aveva deciso di strapparlo alla concorrenza, assicurandosi la sua firma.

Durante il colloquio di assunzione, la prima volta che si incontrarono, guardandolo da sopra le lenti da presbite gli aveva intimato: «Sia chiaro, Leonardo Malinverno» la voce calcata su nome e cognome, «mi aspetto da te tutta l’intraprendenza e l’astuzia che le dicerie ti attribuiscono, neppure un’oncia di meno».

Anche senza quel gesto perentorio della mano, Malinverno avrebbe evitato di rispondere. Quando si alzò, perché l’audizione sembrava conclusa, Orefici lo fermò a un passo dalla porta: «Un’altra cosa si dice di te...»

Leo non seppe trattenersi. «Forse, capo, dai troppo ascolto alle chiacchiere».

«Sì, forse... di solito, però, le chiacchiere hanno qualche fondamento di verità».

«Sentiamo, cosa si dice?»

«Che sei un trombatore seriale. Bada a non farti mettere nei guai dall’uccello, perché non muoverò un muscolo per tirartene fuori» Orefici sorrise, e non lo faceva spesso. «E portaci delle storie forti» aveva concluso, riaprendo il tablet.

Da quel momento non si erano più parlati.

Malinverno riferiva al caporedattore o al vicedirettore, tralasciando con accuratezza di partecipare alla riunione di redazione delle dodici. Il primo colpo lo aveva messo a segno a una settimana dal primo accredito in banca dello stipendio...

L’orologio del pc segnava mezzanotte e quaranta. Con la rapidità del rapace che dall’alto decide quale preda portare in pasto alla nidiata, passò mentalmente in rassegna le opzioni femminili percorribili. L’ultimo contatto utile era stato, intorno alle nove e mezzo di sera, con Viola Ornaghi.

 

Da: viola.ornaghi@charme.it

A: malinverno@globo.net

Cc:

Oggetto: aiuto!

Ciao, Leo, come va? Domattina alle 8.30 (che cazzo di orario, eh!?!?!?) ho come sai appuntamento con Restelli (quell’uomo mi fa paura). Va be’, conto di scrivere il pezzo nel pomeriggio... Ti prego, ti prego, ti prego... Non dirmi di no!

 

Già sapeva dove voleva andare a parare, perché si erano sentiti al telefono il pomeriggio di lunedì e Viola, conosciuta in un viaggio di lavoro sei anni prima, glielo aveva accennato. Tuttavia...

 

Da: malinverno@globo.net

A: viola.ornaghi@charme.it

Cc:

Oggetto: R: aiuto!

È difficile che io resista a una donna che mi prega... ;) ma a cosa non dovrei dire di no???

 

Dopo pochi secondi la risposta dell’amica e collega.



Da: viola.ornaghi@charme.it

A: malinverno@globo.net

Cc:

Oggetto: Re: aiuto!

Lo prendo come un sì? ) ) Mi rileggi l’intervista al vecchiaccio per capire se ho scritto inesattezze?



Sebbene fosse una giornalista esperta, Viola era in ogni caso più avvezza a intervistare stilisti, scrittori, attori, registi... Con un imprenditore o un politico Malinverno se la cavava decisamente meglio.

 

Da: malinverno@globo.net

A: viola.ornaghi@iol.it

Cc:

Oggetto: R: aiuto!

E va bene... vorrà dire che saprai sdebitarti, e sai che non penso a una cena, semmai al ‘dopo’ cena... )

 

Flirtare gli veniva naturale come respirare. Sapeva che Viola soffriva per la separazione dal marito, figuriamoci se si faceva incantare, ma giocare non costava nulla e chi poteva dire come sarebbe finita.

 

Da: viola.ornaghi@iol.it

A: malinverno@globo.net

Cc:

Oggetto: Re: aiuto!

)))))) Ti sarò grata a vita!!! Giuro giuro giuro... Non volevo neanche farla, quest’intervista, maledetta Tavani... )

 

Sorrisi, tutto qui. Viola non era donna da distrarsi con poco, né una che si potesse avere senza adeguato corteggiamento. Leo non ci aveva neppure sperato.

Poiché di dormire subito dopo il lavoro in redazione, con tutta l’adrenalina in allegro circolo, non c’era verso, scorse la rubrica del cellulare. Mandò un sms a Giulia Campisi, con cui aveva scambiato una piacevole conversazione al vernissage di un amico pittore.

Amavano entrambi l’Africa e non avevano parlato altro che dei viaggi in quei posti, fatti in tempi diversi. Gli sguardi erano andati oltre, come spesso accade. Pochi minuti, ed ecco la risposta di Giulia che si trovava a una festa noiosa, ben felice di farsi rapire.

Malinverno salutò frettolosamente i colleghi e impiegò poco per raggiungere in scooter via del Corso. Lei lo aspettava in strada, giocando a Ruzzle sul cellulare: indossava pantaloni morbidi, tacchi vietati a chi soffrisse di vertigini, e un piumino corto di Prada. Leo se la ricordava meno bella. Non troppo abbondante di seno, perfetta per il resto.

«Non hai idea da quale situazione mi hai salvata...» esordì baciandolo una sola volta sulla guancia.

«È una missione, quella di salvare le ragazze...» le sorrise, porgendole un casco e aiutandola ad allacciarlo. «E io mi sento missionario».

«Sbruffone!» Giulia montò in sella e lo cinse con le braccia.

Il moderato affollamento notturno di inizio settimana, determinato da irriducibili vitelloni e pochi fortunati liberi dall’assillo della sveglia, consentì a Leo e a Giulia di godersi il percorso nelle strade romane. Un privilegio per chiunque debba smarcarsi di giorno nell’intrico del traffico della capitale.

Per difendersi dalle sferzate del gelo la ragazza si strinse a Leo. Nonostante i giacconi imbottiti, il giornalista percepì sulla schiena la spinta gradevole delle sue rotondità.

In breve furono a casa, nel quartiere Prati.

«Mi è venuta fame» disse Malinverno.

«Io non ho mangiato niente da colazione... A quella festa c’erano solo alcolici».

«Preparo subito qualcosa. Vediamo cos’ho...» aprì il frigorifero per capire cosa la portiera gli avesse procurato della lista della spesa lasciata, al solito, sul bancone della cucina.

Stupita dalla quantità di libri sulle scaffalature di legno chiaro che rivestivano tutte le pareti e ingombravano ogni superficie disponibile, Giulia Campisi prese a gironzolare per l’ampio salone arredato con mobili di Ikea e qualche pezzo antico, facendo lo slalom tra le pile di giornali a terra.

Prese in mano qualche volume, lo sfogliò e, prima di optare per una più rassicurante rivista piena di figure, s’imbatté in un tomo del sociologo Zygmunt Bauman sulla decrescita felice. Concetto in grado di guastarle il prosieguo della serata.

Chiese di poter accendere lo stereo. Si diffusero le note di A thousand kisses deep con la voce graffiata di Leonard Cohen, mentre Giulia si toglieva le scarpe per raggomitolarsi sulla poltrona a sfogliare il periodico. Dietro di lei, su un tavolino tondo, quattro bonsai della vasta collezione di Malinverno.

Chi li avesse visti, a quell’ora tarda, avrebbe potuto pensare a un quadretto familiare a parti invertite: con Malinverno intento a preparare del pollo al curry e la tipa in attesa di essere nutrita. Niente di più sbagliato.

Situazioni simili erano soltanto consolatorie sospensioni di precarietà sentimentale. Attività in cui Malinverno si considerava, modestamente, un maestro.

La playlist era appena passata a I’ve been loving you too long di Otis Redding, quando il giornalista posò il vassoio con una bottiglia di Gewürztraminer ghiacciata e due calici di cristallo adatti sul tavolino davanti al divano. Si sedettero a terra su dei cuscini.

Versò il vino, porse un bicchiere a Giulia e brindò a loro.

Lei commentò ammirata il pollo con latte di cocco, molto curry e tocchetti di mele golden, accompagnato da riso Basmati. Mai assaggiato prima.

«Non so cucinare neanche la pastasciutta ma, come vedi, mi piace quello che mi cucinano» fu il commento di Giulia.

«E come fai? Mangi sempre fuori?»

«Al Wellness Days, il mio centro benessere, ho una nutrizionista che prepara menu vegetariani o vegani per i clienti».

«Più che un centro benessere, un penitenziario» sorrise Malinverno.

«Spiritoso. Hai ragione, però. Ogni tanto mi viene voglia di una bella bistecca o di qualcosa di godurioso».

«Mi sono sempre chiesto perché la gente abbia bisogno di un centro apposito per trovare il proprio benessere». Riempì ancora i bicchieri. «Per esempio, io ho qui tutto quello che mi serve...» Malinverno la guardò con una certa insistenza e lei distolse lo sguardo.

«Per molti anche solo uscire e raggiungere un posto più o meno distante da casa significa stare subito meglio».

Malinverno prese tra le mani il piede che gli porgeva e cominciò a massaggiarlo.

«Io poi sono bravissima» aggiunse Giulia seria, «e quando arrivano da me ho tutta una serie di accorgimenti o trucchi per dare loro le soddisfazioni che desiderano».

«Forse potresti illustrarmene qualcuno».

Giulia aveva le medesime intenzioni di Malinverno. «Sì, forse. Uno o due...»

Quando le si fece vicino per baciarla non si ritrasse. Dallo sfregamento di labbra e lingue, in breve, passarono ad altro. Malinverno le aprì la camicetta e si dedicò ai seni, sua grande passione. Giulia seppe ripagarlo con generosità, dopo avergli sfilato i pantaloni.

Dal tappeto, dove il primo congiungimento dei sessi si concluse, decisero di passare in camera da letto. Alcuni degli abiti sparsi qui e là.

Si spostarono correndo a piedi nudi sul parquet: Giulia davanti e Leo dietro, la guidava tenendola per la vita, mordicchiando e baciandola sul collo. Allegri, lievi, sorridenti.

Come ovvio – per la conoscenza superficiale – non c’era nessun coinvolgimento sentimentale. Dopo un paio d’ore, si addormentarono, stremati.

L’orologio a cristalli liquidi segnava le 4.35 quando Malinverno si risvegliò ghiacciato e tirò a sé il piumino coprendo anche Giulia. Il sonno ebbe di nuovo la meglio.

Si contavano sulle dita di una mano le donne che potessero raccontare di aver dormito in quella casa, dove abitava da circa otto anni. Di solito trovava una scusa per riaccompagnarle. E se era stanco o la mattina doveva alzarsi presto prenotava loro un taxi, senza inutili cerimonie.

Stavolta aveva pensato al dulcis in fundo del mattino dopo.

La mano che percorreva le natiche di Giulia Campisi e le gambe che si aprirono diedero il giusto impulso alla sua eccitazione. La penetrò da dietro con estrema delicatezza, affondando il viso nei capelli profumati. Benché assonnata, lei prese a gemere sommessamente.

Le otto del mattino. Di più, in compagnia, non avrebbe dormito.

Al contrario, Giulia si dimostrava del tutto a suo agio: respirava a bocca semiaperta, a braccia larghe, appagata.

Uscito dalla doccia, dopo essersi asciugato infilò i boxer, una maglietta e il vecchio golf, ampio e tarlato, che usava a mo’ di vestaglia. Sullo zerbino trovò i quotidiani, guardò i titoli di Repubblica e la prima pagina del Globo con il ‘richiamo’ del suo pezzo. Una rete all news, tenuta a basso volume, stava dando la notizia del sequestro di una gigantesca partita di cocaina, fatta passare alla dogana nella pancia di cani di grossa taglia.

Malinverno ascoltò con attenzione, tirando via la tazzina dalla macchinetta elettrica per il caffè. Il suo prossimo libro trattava di spacciatori e consumatori di polvere bianca: ovvio che ogni riferimento all’argomento lo catturasse.

Lo distolse la suoneria del cellulare.

Inciampando in una scarpa di Giulia Campisi e contenendo le imprecazioni per il dolore all’alluce, arrivò alla poltrona. Estrasse il telefonino dalla tasca dei pantaloni buttati a terra e rispose.

Era Viola Ornaghi.

Ascoltò in silenzio. E poi disse soltanto: «Stai lì, arrivo. Non toccare niente».

Si vestì in un lampo, fece le scale a capitombolo, finendo di chiudersi il giubbotto e annodarsi la sciarpa. Ignorò il saluto della portiera. Saltò sullo scooter lasciato in cortile e partì a tutta velocità.

Non si sa come evitò un paio di sicuri tamponamenti, a incroci superati con il semaforo rosso. Aveva sentito l’amica e collega troppo sconvolta per non precipitarsi.