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L’uomo alto, dal fisico asciutto, con un giaccone firmato, l’aspettava sul portone.

Non avendolo mai visto né sapendo perché fosse venuto a cercarlo a casa della madre, Leo Malinverno non poté evitarlo.

Di ritorno dall’edicola con il fascio dei giornali, se lo ritrovò davanti. E addosso.

«Oh... chi sei? Che vuoi?»

Lo sconosciuto lo prese per un braccio e lo strattonò, controllando che nessuno se ne accorgesse e intervenisse. «Sta’ zitto, che ti conviene» avvertì con la voce più bassa di qualche tono.

Entrarono a passo sostenuto nell’androne.

Sempre tenendolo stretto, arrivati all’ascensore della prima scala, spinse Malinverno di sotto, verso il locale dei contatori di gas e luce. Dove nessuno li avrebbe visti.

A quel punto il giornalista si liberò dalla presa, scrollando il braccio. «Si può sapere chi sei?»

Per tutta risposta, quello gli sferrò un pugno allo sterno da togliergli il respiro. «Filippo Prandelli. Ti dice niente?»

Se la montagna non va da Maometto... «Ho sentito parlare di te» rispose con voce strozzata.

«Hai parlato molto di me, soprattutto... gran figlio di cane!»

«Sei famoso, ti lamenti?»

«Mi sfotti...» lo afferrò al collo. «Ma io ti faccio ingoiare la lingua, sta’ attento. Così impari a ficcare il naso al Wellness Days».

Nella poca luce del sottoscala Malinverno vide i suoi occhi dardeggiare.

«Avevo bisogno di un massaggio col fieno... provalo, funziona».

«Guarda che so tutto. Hai fatto il mio nome, ti sei fatto portare dalle ragazze... Che intenzioni hai?» Prandelli strinse la presa sul collo.

«Sono andato a fare una visita a un’amica, mica sarà vietato...»

«Sì. Giulia Campisi... non ti è bastato ripassartela. Ma ora è finita, ha capito che non le conviene frequentare la feccia che sei».

«Glielo hai fatto capire tu?»

«Glielo ho fatto capire io» aggiunse calcando sulla voce, lasciando intuire i metodi usati.

Non potendo più tirare il fiato, con la morsa che gli premeva sulla carotide, a Malinverno venne naturale alzare il ginocchio di scatto: piantarglielo nei testicoli. Così Prandelli dovette lasciarlo. Piegato in due dal dolore, e con le mani sull’inguine.

«Parliamo da persone civili» gli propose.

«Sei un incosciente, te ne pentirai...» adesso era lui ad avere poco fiato. «Io ti faccio tagliare le gambe con una sega elettrica».

«Lascia stare. Dimmi che vuoi e facciamola finita».

Si rimise in posizione eretta, con l’espressione sofferente. «Sporgerai denuncia?»

«Per il Wellness Days? Non ci penso proprio».

«Allora perché non hai scopato la cinese?»

«Sono un tipo curioso... volevo capire come funzionano le cose. Ora che so...»

«Tutto qui?»

«Tutto qui».

«Non ci credo».

«E va bene, non ti si può nascondere niente... era anche un modo per farti uscire allo scoperto. Ha funzionato».

«Che vuoi da me?»

«Che c’entri tu con il Wellness Days?»

«Ho dato una mano a Giulia Campisi per lanciarlo».

«Questa è una cazzata, lo abbiamo visto. Le hai dato una mano a trasformarlo in un bordello».

«Hai detto che non ci denuncerai...»

Tranquillo, ci penserà Guerci, magari facendo capitare lì per caso un agente in borghese. «Certo che no, non sono mica della buoncostume. A patto però che tu mi dica la verità».

«Ormai lo sai, il centro benessere offre anche quel servizio...»

«Ancora non hai capito, non mi interessa. Voglio sapere perché avete drogato e filmato Matteo Sorge al Wellness Days».

Prandelli serrò le labbra. «Chi te l’ha detto? È una cazzata, non è vero».

«L’hai mandato tu il video a Viola Ornaghi?»

«Non sai cosa dici, non ti conviene...»

«Non ti va giù che ti abbia respinto, vero?»

«Tu sei matto. Tu sei matto...»

«Sapevo che con Matteo eravate amici, perché gli hai fatto una bastardata simile? Solo per rovinargli il matrimonio? Non è possibile. Sei stato tu? Dimmelo o cambio idea e vi denuncio» azzardò.

«E va bene, sì, sono stato io... ma non finisce qui...» Sulle scale lo minacciò ancora. «Ti stai mettendo in un mare di merda, Malinverno, non sai neppure quanta... ma non finisce qui, stanne certo. Guardati indietro quando cammini, d’ora in avanti».

E corse via.

 

 

L’edificio era un parallelepipedo triste, senza elementi architettonici. Forse una volta, decenni prima, era tinteggiato di verde chiaro. Ora tendeva al colore del vomito. Al condominio del numero 101 di via Piancatelli si accedeva attraverso un porticato: gli appartamenti affacciavano su ballatoi aperti.

Case di ringhiera, si sarebbe detto, con i parapetti di cemento pieno al posto delle ringhiere.

Malinverno si augurò che a Torre del Pineto, la borgata poco dopo Primavalle dove si era spinto, non apprezzassero lo scooter come mezzo di locomozione, visto che aveva dovuto lasciarlo al ciglio del marciapiede, senza poterlo fissare a un palo.

Dalla posizione del nome sul citofono, calcolò che i Salnitro fossero al terzo piano. L’ascensore era guasto e fece le scale a piedi, con il sentore di minestrone che aumentava a ogni pianerottolo.

«Sa dove posso trovare la famiglia Salnitro, signora?» chiese alla vecchina che puliva le bietole sulla soglia della porta aperta, da cui proveniva l’olezzo.

«Qui sopra, salisca ’n artro piano, proprio qui sopra» gli fece cenno. «Che è successo, mo? Perché li cerca?»

Rimase male di non poterne sapere di più.

Al ballatoio del quarto piano, davanti al vano scale, era stato sistemato un abete finto, vestito da pochi fili d’angelo argentati. Era l’apice dello sforzo natalizio di quella gente, il cui entusiasmo si sfogava per il resto in qualche lucina intermittente, spruzzi di neve spray e la scritta ‘BUONE FESTE’ in caratteri gotici su un paio di portoncini.

Suonò a quello con la targhetta S. Salnitro – M. Sgreccia.

«Chi è?» una voce femminile sgraziata, non giovane.

Come mi presento? «Sono Leo Malinverno, signora».

«Malinverni?» aprì lo spiraglio che il gancio di sicurezza le consentiva. «Malinverni chi? Che vole?»

«Malinverno, signora Sgreccia, non Malinverni» osò col cognome, sperando in tal modo di abbattere qualche oncia di diffidenza nella donna.

«È de la polizia?»

«No. Leonardo Malinverno, giornalista del Globo» le porse la mano.

Quella arretrò istintivamente, come a proteggersi nel guscio del suo appartamento. «So’ sola, mi scusi, dotto’. Non so se posso farla entra’...»

«Ha ragione, signora Sgreccia, lo dico anche a mia mamma e a mia nonna. Mai far entrare gli sconosciuti».

Lo soppesò con minor sospetto: un uomo di tale premura nei confronti di madre e nonna non poteva essere pericoloso. E decise di fidarsi. «Venga, entri, s’accomodi».

Spalancò la porta sull’ingresso buio, passarono davanti a una cucina triste per l’assenza di pentole e profluvi di pietanze. La signora lo precedette nel soggiorno. Scostò una sedia dal tavolo rotondo. «Si sieda pure qui... o preferisce il divano?» Sembrava imbarazzata.

«Va benissimo qui, signora Sgreccia... Sgreccia come?»

«Sgreccia Maria Assunta. Tutti me chiamano Assuntina però, come faceva la bonanima de mi’ marito Salvatore» il gesto della mano era all’indirizzo della foto in cornice alle sue spalle.

Vi era ritratto un uomo sulla sessantina. Quasi calvo, con le labbra sottili e gli occhi tristi.

In piedi, i capelli unti e senza forma, con gli abiti dei mestieri – una gonna piena di macchie e un golf con le maniche arrotolate fin sui gomiti – Assuntina rimirava il suo sposo, tenendo le braccia strette attorno al gran seno. Cercando di dominare rimpianti e dolore.

Solo la compassione che ispirava la donna poteva indurre a definire arredamento la povera mobilia della casa, priva di qualsivoglia uniformità di stile. Le poltrone, tanto per dire, erano differenti dal sofà per forma e tessuto, e ancora protette dal cellophane. Impreziosite dalla padrona con poggiatesta fatti all’uncinetto.

«È lui mio marito. Salnitro Salvatore, portava gli autobus... conducente».

«Lo so. Sono qui per lui, Assuntina, per suo marito» volle rassicurarla.

«Mo è un anno, giusto un anno che è mancato...» le si riempirono gli occhi di lacrime. «In quel modo, poi...» s’interruppe, chinando la testa e nascondendo il viso tra le mani.

«Capisco, si faccia coraggio».

«Devo famme coraggio, pe’ forza! Lo faccio pe’ mio figlio».

«Fa bene signora, lo faccia per suo figlio, fa bene... com’è che si chiama?»

«Rocco, se chiama. Ce n’ho anche ’na altra. Francesca, che vive a Genova. Vicino Genova, nun me ricordo il paese».

«Rocco sta qui con lei, invece?»

«Certo, come potrebbe vivere se no?»

«Non lavora?»

«Sì, sì, a lavora’ lavora! Solo che è più la spesa che l’impresa».

«Che fa?»

«Rocco mio? De tutto, fa i traslochi, sgombera cantine, magazzini... ma se serve fa pure er manovale ai cantieri, quando ce stanno, i cantieri».

«Il padre non è riuscito a farlo assumere come conducente?»

«Eh, Salvatore c’ha provato, eccome se c’ha provato... niente da fa’! E così Rocco passa le giornate a cercare il modo di mettere insieme quarche euro. Poi c’ha i cani qua dietro e deve trova’ il modo di dargli da magna’».

«Avete dei cani?»

«Seeee, ci mancherebbe! Li tiene pe’ venderli... so’ de razza, belli, però non saprei dirgli che razza. Qua dietro, vicino a la marrana. Delle volte, ci dorme pure a la baracca, quanno c’è una cagna che deve partori’ o uno dei cuccioli che sta male».

«Capisco».

«Li ama come figli».

La riportò sugli argomenti che gli interessavano. «E come fate a vivere, allora?»

«Non lo so, me crede? È un anno, e ancora non me danno la reversibilità de mio marito...»

«Lei non ha pensione?»

«Non ancora, grazie alla legge de quella simpaticona... Per fortuna, c’è la pensione de mio padre, Sgreccia Costantino. Tra la sociale e l’integrazione di guerra, tiriamo avanti».

In quel momento da una delle stanze interne si sentì chiamare: «Assuntinaaaa...»

«Mi scusi ’n attimo».

La donna lasciò il salottino e scomparve nel corridoio.

Malinverno ne approfittò per raggiungere con uno scatto il mobile della televisione, dove aveva avvistato un album. Lo sfogliò in fretta alla ricerca di foto da pubblicare se avesse deciso di scrivere un pezzo.

Meglio trafugarle – come faceva da giovane cronista di nera – anziché mettersi a dare spiegazioni.

Al ritorno della signora Sgreccia, era di nuovo seduto al suo posto. «Credevo fosse sola, Assuntina. Mi aveva detto...»

«Sì, mi scusi, ormai sono abituata al fatto che mio padre è allettato, nun ce sta più co’ la testa. Voleva un po’ d’acqua. Che dicevamo?»

«Della pensione».

«Sì. Con l’affitto che paghiamo qui poi...»

«Queste non sono case comunali?»

«Sì, certo, pe’ chi ce crede».

«Che vuol dire?»

«Perciò mio marito ha fatto quello che ha fatto» di nuovo le spuntarono le lacrime. «Si è dato foco qui sotto, davanti al portone. I giornali non l’hanno scritto, dei volantini...»

«Volantini? Quali volantini?»

Si asciugò gli occhi e il naso con un fazzoletto che teneva sotto alla manica del golf. «L’aveva ’nfilati nelle cassette d’a posta, ma quello della Euroimpianti l’ha fatti spari’ prima dell’arrivo d’a polizia».

«Cosa c’era scritto su quei volantini?»

«Me lo ricordo a memoria: Ci danno casa e poi ci affamano. Sporche sanguisughe del Comune di Roma. Questo c’era scritto. Ne avevo conservato uno ma Rocco lo ha distrutto».

«Li aveva scritti Salvatore prima di darsi fuoco?»

«No, non Salvatore. L’ha scritti Rocco, mio figlio. È rimasto sconvolto dar suicidio der padre».

«E quando li ha scritti?»

«Due giorni dopo che Salvatore...» non riuscì a finire la frase.

Meglio distrarla. «Quanto pagate di affitto, signora, posso chiederglielo?»

«Certo. 150 euro per tre stanze e un bagno... Rocco dorme col nonno».

«Scusi, non mi sembra molto».

«Me lasci fini’, 150 euro al Comune. Poi passano quelli della Euroimpianti e ce ne pigliano altri 850. 1000 euro in tutto».

«È così per tutto lo stabile?»

«Sì, sì. E pe’ tutti quelli vicini... da via Piancatelli a via De Rubertis, tutti costruiti da quello zozzo che è morto».

«Ascanio Restelli?»

«Sì. Lui, ha fatto la fine che meritava, mi scusi se lo dico» e si fece il segno della croce.

«Avete provato a non pagare alla Euroimpianti?»

«E come se fa’... se non paghi so’ botte, dispetti, minacce da quelli che manda Restelli».

«Chi sono? Saprebbe riconoscerli?»

«Eccerto, tutti qui...»

«Saprebbe descriverne uno?»

«Prima veniva uno tutto tatuato, pelato... ’na brutta faccia. Poi è venuto ’n artro, Nazzareno, me pare che se chiamava...»

«Come lo sa?»

«Mentre stava qui, è arrivato uno e l’ha chiamato per nome e sono andati via de corsa. Ed è tornato er giorno dopo».

«E adesso come fate, senza lo stipendio di Salvatore?»

«Con la pensione de mio padre, glielo ho detto... co’ quel poco che porta a casa mi fijo. Con quello che me manda Francesca. Il marito guadagna bene, grazie a Dio. Ma è dura, durissima, sa?»

«Lo immagino, signora».

«Non credo. Chi non ci passa non può sape’... E mio padre non è eterno, s’è rotto il femore, dovrebbe fa’ riabilitazione... e non è mica eterno! A febbraio fanno ottantasei... Certo non gli posso fa’ la festa, che manco i soldi per porta’ due fiori al cimitero da mi’ marito c’ho».

Assuntina Sgreccia apparve all’improvviso come sopraffatta da una realtà che conosceva bene ma che verbalizzata diventava insostenibile. Sentì il bisogno di sedersi. E prese a passarsi le mani sul viso.

Malinverno non voleva offenderla. Tuttavia, valutò rapidamente la situazione in cui si trovava la donna: non fare niente sarebbe stata la peggiore delle offese. Tolse il libretto dal portafogli, compilò un assegno, confidando di essere protetto dal vaso di finto cristallo con i fiori di plastica.

Sulla porta Assuntina si ricordò di non avergli offerto niente. «Lo vuole un caffè, dotto’, quello posso farglielo» sorrise.

«No, grazie» le allungò il foglietto oblungo. «Tenga».

«Che è? Ma no... che è? Ma è troppo... ma perché?»

«Non è niente, Assuntina. Mi creda».