Quella sera Malinverno si mise a letto presto, molto presto considerando le sue abitudini, perché si sentiva la febbre addosso. Freddo, ossa rotte, testa pesante.
Eppure non erano quelle le sensazioni più sgradevoli che provava.
Forse qualcosa che aveva detto Guerci? O non era per caso un dettaglio che gli era sfuggito, attraversandogli la mente con la velocità del borseggiatore in metropolitana?
Ingoiò una compressa effervescente, dopo tre minuti dormiva. Fu una notte agitata, durante la quale venne sballottato da un incubo all’altro.
La mattina decise di mettersi subito al lavoro.
Giudicò che fosse arrivato il momento di sentire le due donne più vicine al commendatore mazza & cazzuola.
La segretaria gli aveva girato l’indirizzo di Sveva Jovinelli, ex moglie di Ascanio Restelli. Dall’Annuario dei Giornalisti – consapevole dei rischi che comportava l’affrontare la moglie del suo direttore – ricavò quello di Evelina Orefici. L’amante del vecchio.
La prima abitava in centro, dietro piazza del Quirinale, agevolmente raggiungibile in scooter. Per capire dove fosse dislocata la via dell’altra aveva bisogno del navigatore del cellulare. Lo attivò e come prima schermata ebbe quella dell’ultima destinazione: casa Salnitro – Sgreccia.
Mentre digitava la nuova meta, l’occhio gli cadde sulla piantina di Torre del Pineto, dove, a un solo isolato di distanza da via Piancatelli, si trovava via Cutolo. E gli fu tutto chiaro.
Jacopo Guerci rispose al primo squillo.
«Jac, ascoltami. Mi sono accorto che via Cutolo, la via della donna a cui hanno rubato l’utilitaria, è limitrofa a via Piancatelli, dove sono stato ieri, dove abita Assuntina Sgreccia, ricordi che te ne ho parlato?»
«Me lo ricordo, certo».
«In un primo momento, non sapendo che le due strade fossero nella stessa zona, non ho collegato...»
«Strana, questa contiguità... ma potrebbe trattarsi di una coincidenza, come molte altre».
«Sì, certo. Ma fossi in te andrei a fare un giro da quelle parti. Mi sono anche ricordato che la Sgreccia mi ha parlato del figlio, Rocco Salnitro. Uno senza arte né parte, che passa le sue giornate al recinto dei cani, una sorta di allevamento».
«Dove sarebbe codesto allevamento?»
«Di preciso non lo so. Mi ha parlato della marrana, sempre lì, a Torre del Pineto».
«Mando subito Piranesi con una pattuglia. Grazie».
Appena attaccò con Guerci, il telefono gli indicò la chiamata persa di Carla Tesei. L’amica era riuscita a strappare un appuntamento a Vittorio Conversi sul tardo pomeriggio.
Ora poteva dedicarsi alle signore che avevano gravitato attorno all’universo Ascanio Restelli.
Il palazzo di Sveva Jovinelli era di quelli borghesi, con guida rossa a terra, portiere in divisa coi bottoni d’oro, vecchio ascensore in legno con sedile e specchi.
Dopo averlo fatto attendere in un salottino vicino all’ingresso, la domestica condusse Malinverno attraverso tre ampi corridoi, tappezzati di quadri, stampe antiche, librerie traboccanti.
La padrona di casa, di un’eleganza non ricercata, aveva i capelli colore del latte legati in una coda di cavallo. Era stata modella e si vedeva.
Con un gesto lo invitò a sedersi sulla poltrona sistemata davanti al sofà dov’era lei. «Prego, dottor Malinverno, si accomodi. Ho letto il suo libro, è un piacere conoscerla».
«La ringrazio, signora. Le ruberò poco tempo e mi scuso per non aver chiesto un appuntamento».
«Le ripeto, è un piacere. E posso immaginare perché è qui».
«Suo marito...»
Non si scompose ma volle puntualizzare. «Prego, il mio ex marito».
«Eravate divorziati?»
«No. All’epoca non si poteva, o meglio, non era fine. E poi... Non eravamo divorziati ma come se lo fossimo. Abbiamo abitato appena quattro anni sotto lo stesso tetto». Pigiò un bottone sul tavolino e si presentò la domestica. «Io prendo il solito caffè macchiato. Posso offrirle qualcosa, dottor Malinverno?»
«Anch’io un caffè. Grazie».
Aspettò che la porta fosse richiusa. «Non mi dispiace affatto che Ascanio abbia fatto la fine che ha fatto, era quella che avrebbe dovuto fare ben prima».
«Devo dedurre che i vostri rapporti erano tutt’altro che amichevoli...»
«Se vuole usare questa perifrasi... Lo sanno tutti. Il mio ex marito viveva per i soldi, per il potere che i soldi danno, e per le donnacce che frequentava. Mia madre me lo diceva, non prenderti uno più giovane...»
«Quanta differenza c’era?»
«Io ho novant’anni, non ho nessun problema a dichiarare la mia età. A dire il vero non è stato il divario anagrafico a ostacolare il nostro rapporto, in questo mia madre si sbagliava... È stato tutto il resto».
«Non condivideva la sua filosofia di vita?»
«Quale filosofia? Non poteva farmi piacere girare per Roma e imbattermi nei gioielli che Ascanio lasciava in pegno alle sue amanti e che quelle donnacce portavano in giro come medaglie al valore».
Sul giornale del cornuto vorresti scrivere che Restelli aveva lasciato il suo solito marchio a forma di zaffiro. Anche Carla Tesei sapeva di quelle gemme preziose: gliene aveva parlato a proposito del bracciale di Evelina Orefici.
«Mi perdoni, signora, mi ha detto che avete convissuto quattro anni. Ciò vuol dire che vi siete separati appena è nato Fabio Massimo?»
Per la prima volta la Jovinelli indurì la sua espressione. In quel momento apparve chiaro: non era la vecchia signora inoffensiva che poteva sembrare. «Povero ragazzo, non potevo fargli regalo peggiore, dandogli quel padre. E ha visto che anche ora ne sta pagando le conseguenze... ridotto in quello stato, all’ospedale».
«Lo hanno dimesso, ho saputo».
«Sì. E anche questa brutta esperienza la deve al padre. Un padre che sarebbe stato meglio non avesse. Fabio Massimo ne era affascinato. Per questo mi sento in colpa».
«Da quanto tempo non vedeva il suo ex marito?»
«Ormai da anni, come ho già detto al vicequestore Guerci. Le poche notizie che avevo di lui mi arrivavano da amici o da Fabio Massimo, che però ne parlava pochissimo».
«Lei è una donna schietta. Posso farle una domanda indiscreta? Quando vi siete conosciuti...»
«Intende chiedermi se avesse dei soldi suoi?»
Malinverno annuì, non aveva neanche sperato in tanto pragmatismo.
«Prima di rispondere, le devo chiedere se questa è un’intervista».
«No. Rimarrà tutto tra noi».
«Non voglio dare adito ad altre chiacchiere. Soprattutto per mio figlio. Comunque, Ascanio Restelli era povero in canna quando l’ho conosciuto, non aveva neppure i soldi per comprarsi un paio di scarpe... Mi ha sposato solo per quello, per i soldi».
Esitò nel fare la domanda successiva. «E lei, signora? Perché lei lo ha sposato?»
Rifletté sulla risposta da dare, e sembrò in lotta con se stessa. «Era un uomo bello, simpatico anche... per un po’ lo è stato, almeno. E ci siamo divertiti. Troppo poco. Poi si è rivelato per quello che era... E lo considero il più grande errore della mia vita».
Al di là di un muricciolo malridotto, in fondo a via Piancatelli, iniziava la campagna irta di sterpaglie, e di canne più alte di un uomo alto.
L’ispettore Enrico Piranesi e due agenti in divisa si avviarono sul sentiero formatosi con il calpestio di anni.
Lì i ragazzini andavano a far scoppiare petardi, giocare ai supereroi, a calcetto o vi si nascondevano a pomiciare. I più grandicelli a fare del sesso rapido. I vecchi con qualche chance di deambulazione si spingevano su quelle stradicciole a passeggiare, facendo attenzione a non inciampare nei sassi; mentre le famiglie senza troppe disponibilità economiche – in pratica tutte, nella borgata – si trasferivano sui prati a fare picnic, per darsi l’illusione dello svago, per diluire la difficoltà di giornate dure come un lutto.
Davanti all’ultimo civico del caseggiato, nella volante era rimasto un terzo agente, in contatto radio con la Questura. Un quinto si era piantato sotto al portone dei Salnitro.
L’ispettore e gli altri superarono il ponticello di assi sconnesse su quello che era solitamente appena un rigagnolo di acqua putrida, e che ora appariva gonfio per via delle piogge degli ultimi mesi. Il sentiero proseguiva per altri trecento metri, tra svolte e diramazioni.
L’abbaiare dei cani cresceva a ogni passo. Si fecero guidare da quello.
Alla fine del camminamento trovarono un gruppo di baracche con il tetto di lamiera, chiuse da una recinzione di metallo a maglie strette. Alcuni cani tra i sessanta e i settanta chili del tipo molossoide circolavano liberi; altri erano nelle gabbie, comprese un paio di cucciolate.
La porta della costruzione principale era spalancata e c’era uno stereo acceso a volume basso.
«Buongiorno, sono l’ispettore di polizia Enrico Piranesi, c’è qualcuno?»
I cani, forse una dozzina quelli sciolti, si avvicinarono minacciosi all’ingresso del recinto, davanti al quale gli agenti si erano dovuti fermare. Alcuni dei bestioni ringhiavano.
Piranesi ripeté l’annuncio: «Sono l’ispettore di polizia Enrico Piranesi, c’è qualcuno?»
Dall’interno provenne un rumore di ferraglia. Al che, una pertica d’uomo, intorno ai due metri, ben piazzato, si chinò per passare dalla porticina.
«Dite... che volete?»
«Lei è Rocco Salnitro? Sono Piranesi, l’ispettore Piranesi».
«Sono io. Piacere».
«Possiamo entrare?»
«Il cancelletto è aperto, accomodatevi» sorrise.
Piranesi e gli agenti giovani guardarono i cani che non smettevano di abbaiare e mostrare i denti.
«Forse è meglio se esce lei...» ammise Piranesi.
Tutto accadde in un attimo.
Rocco Salnitro estrasse la pistola dalla tasca della tuta da meccanico che indossava. Il primo colpo prese l’agente più giovane al braccio destro; l’altro proiettile andò a vuoto.
Nel frattempo i poliziotti avevano cominciato a loro volta a sparare contro Salnitro, che però era riuscito a voltarsi e rinfilarsi nella baracca.
Mentre scattava per girare attorno alla recinzione, impedito dalla vegetazione, Piranesi gridò: «Ricci, bada a Cagliesi. Chiama Tosolini con la radio, servono rinforzi...»
Attraverso l’uscita posteriore, Rocco Salnitro aveva raggiunto la moto posteggiata a pochi passi dalla baracca. L’ispettore lo avvistò, un attimo prima che il canneto gli ostacolasse la visuale, dove la stradicciola curvava. I colpi che esplose andarono a vuoto.
Non avevano la targa, ma bisognava mobilitare tutte le volanti nelle vicinanze di Torre del Pineto. Piranesi lo stava gridando al cellulare ai colleghi della centrale operativa. «Maschio, dall’apparente età di trent’anni, alto due metri, robusto, con indosso una tuta blu da meccanico... Attenzione, è armato».