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Gli rimaneva poco tempo per buttare giù i due articoli che Pietro Orefici gli aveva assegnato. Meno di mezz’ora. Malinverno stabilì di mettersi a scrivere e poi di chiamare al telefono Jacopo Guerci. In passato, aveva fatto di peggio. Nel senso che gli era riuscito di sbobinare, titolare e mandare in pagina un’intervista di seimila battute in quindici minuti.

Ci rifletteva entrando in redazione, quando gli arrivò un sms di Guerci: Non posso parlarti ora. Sentiamoci dopo le cinque. Ma nel tuo pezzo tieni fuori il particolare degli occhi cavati.

Digitò il messaggino di risposta: Obbedisco.

Non fu stupito della richiesta dell’amico, avendola presagita da come i colleghi delle radio, delle tv e del web avevano strutturato i loro resoconti. Tutti basati sulle accorte elargizioni della Questura, raccolte dai giornalisti durante il breve incontro alla presenza del pubblico ministero Rolanda Falasca.

Una donna coriacea, molto poco incline a tirar via: con lei nessuno poteva illudersi di ignorare i rigidi iter giudiziari. Malinverno aveva seguito stralci della conferenza stampa al tg, altri li aveva recuperati su internet.

Si sedette alla scrivania, mentre la frenesia redazionale raggiungeva il suo culmine.

Chi non fosse stato pratico di giornalismo sarebbe rimasto stupefatto nel constatare come quel controllato disordine potesse ogni giorno generare il prodigio del quotidiano stampato. Con una foliazione di tutto rispetto e una varietà di temi sorprendente. Redattori, grafici, fotografi, segretarie si spostavano da un punto all’altro come le operaie di un formicaio.

Di Carla Tesei nessuna traccia. Del resto lei lavorava così, uscendo continuamente sul terrazzino a fumare o recandosi nell’atrio alla macchinetta automatica del caffè.

Accese il terminale e vide quali spazi gli aveva riservato Tommaso Lembo: richiamo in ‘prima’ e giro nella pagina delle cronache nazionali, con una spalletta di duemila battute. Partì dal titolo. A occhiello e catenaccio avrebbe pensato il vicedirettore, prima di sottoporre il tutto all’Everest.

 

UCCISO L’OTTAVO RE DI ROMA

 

Scrisse di getto l’articolo in cui raccontava della sua perlustrazione sulla scena del delitto e in breve toccò il limite massimo della gabbia grafica a disposizione. Rilesse e decise di ammorbidire ancora il riferimento al professor Puritz, sul quale non volle attirare sospetti. Almeno, non ancora. Di David Gizzi non fece menzione. Viola Ornaghi ne usciva benissimo.

Rilesse il tutto per la seconda volta e si promosse a pieni voti. Anche rinunciando a dare la notizia degli sfregi compiuti sul corpo di Ascanio Restelli, la sua cronaca riportava molti risvolti sconosciuti agli altri. Soprattutto, diversa sarebbe stata la percezione emotiva dei lettori, grazie al fatto che lui aveva messo, per così dire, i piedi nel sangue del morto. Poté dedicarsi, infine, al commento di corredo al pezzo centrale.

Orefici avrebbe avuto ciò che desiderava.

Com’è che aveva detto? ‘Ipotesi plausibili, supposizioni ponderate’. Quello più rilevante girava attorno all’idea che gli assassini, a giudicare dai cadaveri, potessero essere più di uno. Chiuse la pagina e attese la sentenza dei capi.

Orefici leggeva e, solitamente, commentava con Lembo: questi, seppure a pochi metri dall’open space in cui stazionavano i redattori, mandava una mail o telefonava nel caso di modifiche agli articoli.

Alla segretaria che passava, una moretta di poco più di vent’anni, lusingata che Malinverno le rivolgesse la parola, chiese notizie di Carla Tesei: «Il direttore l’ha spedita a cercare qualcosa, se vuoi m’informo e ti dico meglio».

«Non importa, grazie. Mi fai mandare un caffè dal bar? Quello della macchinetta è imbevibile».

Compose il numero di Jacopo Guerci, il diretto in Questura, che in pochi avevano.

«Mi devi un favore» disse saltando i convenevoli.

«Perché, scusa? Dovresti ringraziare che non ti ho fatto arrestare, per le passeggiatine sul luogo del fattaccio...»

«Mi hai fatto bucare la notizia degli occhi asportati...» abbassò la voce. «Non manterrò il riserbo per molto, e mi devi qualcosa in cambio».

«Ti dico intanto che tra circa un’ora devo interrogare Luca Valletti».

«Il figlio del guardiano?»

«Già, nonché factotum del vecchio».

«Hai dei sospetti?»

«Nessun sospetto, per il momento. Solo idee confuse. Ti faccio assistere all’incontro, se vuoi».

«Cazzo, se voglio... volo!»

«Avverto Piranesi, chiedi di lui. Non venire direttamente da me».

«Ti sento contrariato. Sbaglio?»

«Non sarà una passeggiata... Ho già ricevuto due o tre telefonate rabbiose da lassù».

«Chi?»

«Eh, eh, vuoi sapere troppo...»

«Deformazione professionale. Non può essere solo lavoro, ti conosco bene, Jac...»

«Cecilia... a casa... ne parleremo...»

Malinverno intuì di aver inavvertitamente acuito un dolore, decise di deviare la traiettoria. «E delle deturpazioni che pensi?»

«Quello che pensi tu, immagino. Non hanno rubato niente, anche se questo potremo saperlo con certezza dopo che avremo parlato con il figlio di Restelli, e in più hanno infierito sul corpo».

«Sa di vendetta estrema, di odio mal trattenuto...»

«Per niente trattenuto, direi».

«Oppure Restelli deve aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto e quello di asportargli gli occhi è un messaggio ai suoi amici».

«Amici potenti». Guerci ci rifletté, poi rilanciò. «E nemici potenti».

«Non sarà facile. Hai ragione».

«Intanto devo avvertire il figlio, che non è a Roma».

«Dov’è?»

«Trascorreva qualche giorno nello chalet che i Restelli hanno in Val d’Aosta».

«Non c’è nessun altro della famiglia?»

«Dario Ussi mi ha parlato di una ex moglie che vive in centro. Si chiama... Aspetta, me l’ero scritto da qualche parte... Sveva Jovinelli».

«Divorziati?»

«Questo non lo so. Di certo vivevano separati».

«Non avevo mai saputo, infatti, che Restelli fosse stato sposato».

«Il giardiniere dice che la Jovinelli già non viveva più alla villa, quando ha preso servizio lui».

«Trent’anni fa. Ma la signora è la madre di Restelli junior? Com’è che si chiama?»

«Fabio Massimo. Sì, è lui. Dai, allora ti aspetto».

«Se hai qualcosa che posso utilizzare nel pezzo di oggi, dimmelo ora... Chiudiamo l’edizione straordinaria tra pochi minuti».

«Non mi pare. A parte quella denuncia di poche settimane fa contro il vecchio...»

«Da parte di chi?»

«Un vicino, per una questione di cani...»

«Oscar Puritz».

«Non c’è un posto al mondo dove tu non riesca a ficcare il tuo lungo naso... Come hai fatto?»

Stava per raccontare l’incontro, ma Guerci lo fermò. «Scusa, me lo dici più tardi. Ho il capo della polizia in attesa sull’altra linea, devo lasciarti».

Malinverno si accorse che Tommaso Lembo avanzava verso di lui. A qualche passo di distanza, trotterellava la segretaria con la tazzina in una mano e delle carte nell’altra. Se solo si fosse ricordato il nome... Aveva preso servizio da un paio di settimane, non poteva pretendere tanto.

Al vicedirettore, che si chinava sulla scrivania per porgergli un biglietto, lo chiese in un orecchio, un attimo prima che la ragazza arrivasse: «Sonia, si chiama Sonia» e sorrise. Era un omino pressoché insignificante, che altrove si sarebbe confuso con il fondale: «Questo è del direttore».

«Grazie!»

Rispose Sonia, credendo che Malinverno si riferisse al caffè. «Di nulla, figurati».

Proseguì senza fermarsi. Aveva da consegnare buste, bozze, fotografie in varie postazioni della redazione.

«È arrossita?» Il vicedirettore non si capacitava. «È arrossita! A me non ha mai portato neppure un bicchiere d’acqua».

Insieme indugiarono a rimirare il su e giù armonico dei glutei da manuale di anatomia femminile della ragazza, all’apparenza nata e cresciuta nei legging neri che indossava sotto magliette aderenti o camiciole striminzite. Una divisa, in pratica. E c’era da augurarsi che ne possedesse più di un paio. Sonia si era voltata un istante, pentendosi di aver rivelato con quel gesto l’insicurezza che Malinverno le suscitava.

«Che cos’è?»

«Un gran bel culo, direi».

«Questo, che cos’è?»

Lembo tornò in sé. «È del direttore, sai che non sa mandare le mail...» disse andandosene.

La busta conteneva un cartoncino che recava stampato in alto in Bodoni maiuscolo il nome di Pietro Orefici. Malinverno, ottimo pezzo! Per domani sei libero. Lasciami dire che questo colpo è molto importante per il giornale. E per me.

Malinverno rimase alquanto disorientato nel leggere quelle due righe scritte a mano con una grafia minuscola.

Dopo avergli reso a lungo la vita difficile, il vecchio cronista inclinava al sentimentalismo.

Si chiese se fosse lo stesso drago bicefalo che, nei primi giorni in redazione, gli stracciava i pezzi gridando, costringendolo a riscriverli anche sei o sette volte. Mai una parola gentile, mai una pacca sulla spalla. Anzi, le rare volte che aveva partecipato alle riunioni di redazione era stato umiliato, ignorato o preso ad esempio negativo dinanzi all’intera compagine del Globo.

Ce ne sarebbe stato d’avanzo per intentare causa per mobbing, se Malinverno non fosse stato animato da quella leggerezza dell’essere che gli consentiva di vivere eternamente di lato rispetto agli eventi. Qualunque fosse il gradiente depressivo di ciò che gli capitava, riusciva senza sforzo a trarne vantaggio.

Anni prima, Orefici lo aveva spedito in un paese della Calabria profonda a raccontare storie di moderna schiavitù applicata alle coltivazioni di pomodori, agrumi, olive.

Oltre un mese di permanenza in posti dove il concetto di svago contemplava attività illegali o alcoliche, spesso combinate in modi fantasiosi.

Malinverno si era dotato di una buona scorta di libri, tra i quali aveva inserito gli ultimi due tomi di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Gli erano sembrati adatti al momento che viveva.

Per meglio aderire al territorio, per farsene addirittura pervadere, aveva scelto di non alloggiare in albergo, anche perché non ce n’era uno nel raggio di chilometri. Aveva preferito una stanzetta con bagno in un piccolo agriturismo in collina, davanti alla maestà del mare Ionio. E tra le duemila anime autoctone si era dedicato a una in particolare: slanciata, formosa, con una gran massa di capelli rosso Tiziano.

In quei giorni, Malinverno e Teresa avevano giocato ai fidanzatini, pur avendo – tutti e due – nessuna voglia d’impegnarsi.

Dopo aver consegnato il pezzo o i pezzi richiesti per quel giorno, Leo la caricava sull’auto che aveva noleggiato e se ne andavano al mare, su spiagge bianche dove nidificavano le tartarughe marine. Lontani da tutti, nascosti nel verde delle dune facevano l’amore senza inibizioni né precauzioni, poi lo rifacevano, con le orecchie invase dalla sinfonia delle onde. Come fossero soli al mondo. Ma non era stato che un sogno.

Presto Nico Averra, il padre di Teresa, aveva dato ascolto alle voci amiche, scandalizzate per il rapporto tra il giornalista forestiero e la loro compaesana che compiva proprio in quei giorni diciott’anni.

Pienamente soddisfatto da come Teresa rispondeva alle sue profferte erotiche, Malinverno non si era interrogato sull’età della nuova amante. Gli era capitato, anzi, di sentirsi addirittura sopraffatto dalla focosa intraprendenza e spregiudicatezza della ragazza, mai sazia di giochi, esperimenti, contorsioni. Quando uno dei suoi informatori locali, seduti a un bar, gli aveva rivelato quanti anni aveva Teresa per poco non si era strozzato con la birra.

Lo sbigottimento era durato poco, però.

Dopo un rapido chiarimento, Leo e Teresa, intrigati a quel punto anche dalla ragguardevole e ormai dichiarata differenza d’età, avevano ripreso a divertirsi in camporella o sulla battigia al tramonto.

Proprio in spiaggia, nel bel mezzo di un amplesso dietro una barca rovesciata, gli scagnozzi di Nico Averra, boss di piccolo cabotaggio ma inserito in un più ampio sistema ’ndranghetista, lo avevano beccato e malmenato.

Quattro energumeni contro uno, per niente abituato a difendersi, avevano determinato un quadro clinico alquanto complesso: numerose costole rotte, frattura del braccio sinistro e commozione cerebrale, con prognosi di trenta giorni.

Un pescatore, che lo aveva ritrovato seminudo e coperto di sangue, aveva chiamato il soccorso medico. Di Teresa non era rimasto neppure l’odore. Il padre l’aveva fatta portare di forza lontano dal paese. Mai più vista né sentita. Una delle sue fonti, tempo dopo, rivelò a Malinverno che don Nico l’aveva fatta espatriare.

Un bravo picciotto, affiliato a uno dei clan più potenti tra le famiglie di ’ndrangheta, se l’era sposata per sancire il patto transoceanico. Nel giro di un paio d’anni, tre bambini – due maschi, gemelli, e una femminuccia dai capelli rossi come la mamma – avevano allietato tutti e fatto dimenticare le intemperanze della ragazza.

Dopo quest’esperienza, Orefici si era limitato a una telefonata laconica in ospedale: «Come stai? Ti aspettiamo in redazione». Leo Malinverno ne aveva sorriso e poi, voltatosi a fatica nel letto, era precipitato in un lungo sonno. Non ricordava molto altro della degenza.

Lì, sulla scrivania, tra le cartelline piene di fogli che difficilmente avrebbe avuto voglia di tirare fuori e rileggere, teneva un accendisigari da tavolo che la caposala aveva voluto regalargli. Antico, in argento, era appartenuto al padre e prima, forse, al nonno dell’infermiera. Aveva detto che era per ringraziarlo del poco fastidio arrecato al personale. A differenza di altri, si era limitato a farsi curare, evitando di suonare di notte o di fare capricci.

Pensò di sentire Viola, prima di raggiungere Guerci in Questura. Aveva la mano sulla tastiera, quando tornò Carla Tesei. «Ho letto il tuo pezzo. Devo ammettere che quando ti ci metti riesci a far dimenticare che sei un impostore».

«Dov’eri? A fumarti la cinquantesima sigaretta, scommetto».

«E sbagli! Ero in archivio, perché questa merda di quotidiano non ha ancora completato la digitalizzazione, poi ho portato all’Everest dei vecchi pezzi su Restelli».

«Lo hai trovato in lacrime?»

«Quasi. Mi ha dato da leggere il tuo capolavoro, non ho potuto far altro che concordare».

«Grazie. Puzzi come un portacenere in una bettola di camionisti... Non avevi deciso di smettere?»

«Un giorno, magari non lontano, smetterò. Allora tutti mi chiederete di ricominciare...» la seconda parte della frase la pronunciò due toni più bassi.

Malinverno si era già distratto, componendo il numero di Viola Ornaghi.

Pensò che la madre potesse averla prostrata con i suoi modi, e che magari aveva bisogno di una stampella emotiva. Il telefono di casa squillò a lungo a vuoto, il portatile risultava ‘spento o non raggiungibile’.

«Allora, Carla, che hai scoperto in archivio sul vecchiaccio?»

La collega si staccò dallo schermo con una certa degnazione. «Lasciami lavorare. Farò notte per scrivere il pezzo di domani mattina».

«Io sono esonerato, invece, perché ho fatto il colpo, io...»

«Lo so, lo so».

«Cos’hai per domani?»

«Devo ricostruire le relazioni pericolose del commendatore mazza & cazzuola».

«In particolare?»

«Orefici ha dato un’occhiata alla rassegna stampa che gli ho portato e mi ha chiesto di sfruculiare su Toni Cutrupa e Diego Maresca».

Malinverno allungò le gambe sul tavolo, con le mani intrecciate dietro la testa. «Maresca lo conosco bene, auguri!»

«E com’è che lo conosci?»

«Controlla la maggior parte dei Compro Oro romani. In realtà li gestisce con metodi da camorrista, qual è».

«Napoletano?»

«Di Caivano, vicino a Napoli. L’ho incontrato un paio di volte, quando lavoravo a Le vie dell’oro. La terza volta mi ha fatto capire che non gradiva le mie domande. Men che meno quello che stavo scoprendo».

«Come te lo ha fatto capire? Ti ha accompagnato alla porta?» Carla Tesei si tolse gli spessi occhiali da miope e si massaggiò le palpebre chiuse con pollice e indice.

«Prima me lo ha fatto dire da un suo guaglione a quattro ante. E poi, ti ricordi quello scivolone in scooter, dietro via Veneto?»

Carla inforcò gli occhiali velocemente. «Sì, certo».

«Be’, diciamo che il figlioccio di Maresca ha dimenticato di fermarsi a uno stop e per non finire sotto le ruote della sua Mercedes ho dovuto sterzare per tempo».

«Mi avevi detto di non aver visto una buca nell’asfalto...»

Malinverno sorrise, scuotendo la testa. «Per farmi rimettere a posto la clavicola ho visto le stelle».

«E di Toni Cutrupa che mi dici?»

«Mai visto né conosciuto».

«Devo incontrarlo domani all’ora di pranzo. Mi accompagni?»

«Affare fatto. Tu però mi offri un pezzo di pizza bianca con stracchino, rucola e speck dalla Sora Menica a Campo de’ Fiori».

Era un’amicizia, la loro, che si risaldava di volta in volta attorno ai piccoli piaceri dello stomaco.

«Nel frattempo cercherò di saperne qualcosa».

Malinverno si annodò la sciarpa al collo. «Buonanotte, allora».

«Stammi bene».

La piccola testa di Carla Tesei – i capelli scuri, cortissimi, pesantemente infiltrati dal bianco – era di nuovo rivolta allo schermo del pc.

Malinverno non poté fare a meno di pensare che non lo riguardava quel modo di fare giornalismo. Con tutto il rispetto, quasi niente lo accomunava ai suoi colleghi, che considerava impiegati della notizia. E domani sarebbe stato libero.

Libero magari di dedicarsi a Viola.