Gli entusiasmi per gli avvenimenti dell’Est sono lontani. Le speranze del 1989 sembrano illusioni. Nel mondo capitalistico si è pensato che il crollo del socialismo reale e la fine della guerra fredda avrebbero chiuso i problemi fondamentali tra Ovest ed Est, con gli Stati Uniti e l’economia di mercato alla guida del mondo. D’altra parte, ci si sta rendendo conto che l’arsenale nucleare sovietico continua a esistere e che nell’ex Urss il capitalismo stenta a decollare. Proprio perché Ucraina, Kazakistan e Bielorussia pretendono di controllare l’uso del potenziale atomico da parte del potere centrale sovietico, questo loro atteggiamento indica l’intenzione di mantenere unita la potenza nucleare dell’Est, che dunque continua ad essere competitiva rispetto all’arsenale nucleare americano. Anche se complicato dalle richieste di autonomia delle Repubbliche ex sovietiche, il «bipolarismo» Usa-Urss continua a esistere. Lo sostengo anche oggi, perché il bipolarismo non va inteso come un fatto primariamente economico, ma come un fatto primariamente militare.
Il bipolarismo continua a esistere anche se al potenziale nucleare americano sono coordinati quello inglese e francese (e israeliano) come al potenziale nucleare della Repubblica russa possono essere coordinati probabilmente con vincoli più stretti quelli dell’Ucraina, del Kazakistan e della Bielorussia, nell’ambito della Comunità degli Stati indipendenti (Csi). Che l’avversario fosse scomparso era un’illusione, perché l’ex Urss può rinunciare al socialismo reale, ma non alla propria potenza militare-industriale, nella lotta planetaria sempre più dura per la sopravvivenza. Anzi, l’Urss ha abbandonato – o all’Est si sta abbandonando – il socialismo reale proprio perché ci si è resi conto che esso costituisce il principale ostacolo all’efficienza del sistema economico che sta alla base della sua potenza militare.
È vero che avere come avversario l’Urss comunista e la Russia o la Csi postcomunista sono cose molto diverse, ma (sono vent’anni che lo sostengo) dopo la Seconda guerra mondiale la conflittualità Usa-Urss si è trasformata ben presto in una concordia discors, dovuta alla consapevolezza che all’opposizione ideologica tra capitalismo e comunismo era sottesa una più profonda comunanza di interessi: gli interessi che i Paesi privilegiati del Nord del Pianeta (più privilegiati all’Ovest, meno all’Est) hanno in comune rispetto ai popoli non privilegiati del Terzo Mondo e cioè rispetto ai giganteschi problemi determinati dalla pressione planetaria dei poveri sui ricchi.
Nel confronto con le economie occidentali l’economia della Csi si trova certamente in condizioni disastrose, ma è pur sempre incomparabilmente superiore a quella dei Paesi sottosviluppati. Tanto che non era sembrata utopica la richiesta dell’Urss di associarsi al gruppo dei Sette Paesi più industrializzati del mondo, mentre utopica sarebbe senz’altro sembrata se ad avanzarla fossero stati Paesi come l’India, il Brasile, la stessa Cina.
Larghi strati del capitalismo occidentale vorrebbero un Est aperto all’economia di mercato e disarmato. Tendono anzi a condizionare la concessione di aiuti economici alla Csi con la richiesta della smobilitazione del suo arsenale nucleare. Vorrebbero cioè una Russia, o una Csi, considerevolmente più ricca e infinitamente più debole, più appetibile per le sue ricchezze e del tutto incapace di difenderle dalla spinta destabilizzante che proviene dal Terzo Mondo. Vogliono la luna nel pozzo, perché in un mondo sempre più pericoloso è soltanto un’illusione che la Russia possa rinunciare a quella potenza militare di tipo superiore che solo ad essa e agli Stati Uniti consente di assicurarsi indiscutibilmente la sopravvivenza sulla Terra. L’ala conservatrice della classe dirigente sovietica (da cui è venuto il colpo di Stato del 1991) lo sa molto bene, e pur di conservare alla Russia il carattere di superpotenza sarebbe disposta a chiedere sacrifici ancora più pesanti alla popolazione e ad adottare le misure più energiche per reprimere gli scontenti.
Ma è inevitabile che le stesse popolazioni della Csi finiscano per comprendere che la smobilitazione nucleare sarebbe un pericolo incomparabilmente superiore a quello costituito dagli stenti economici. Sarebbe il suicidio. Sì che la crescita di questa consapevolezza – di cui esiste già una consistente avvisaglia nell’evoluzione della politica di Eltsin – è direttamente proporzionale alla crescita della delusione di chi mirava a una Russia economicamente più florida e militarmente debolissima.
Questo intento, proprio di una certa area del mondo capitalistico, è oggettivamente congruente alla politica iniziale di Eltsin e alle aspirazioni delle masse a cui tale politica era rivolta. Sostanzialmente, Eltsin si era presentato come chi era disposto a liquidare la potenza militare sovietica al fine di soddisfare i bisogni della gente. In seguito, ha chiesto invece sacrifici, ha tentato di concentrare nella Repubblica russa l’intero arsenale atomico sovietico e ha compiuto mosse di carattere autoritario.
Nella sua politica iniziale si esprimeva un progetto paradossale: dare alla gente un tipo di vita affine a quello delle società occidentali e, nello stesso tempo, smantellare la potenza bellica dell’Urss, che sola può assicurare la stabilità di questo tipo di vita contro le minacce che si addensano, ai confini meridionali dell’ex Unione Sovietica, lungo la linea che va dal Mar Nero al Mar del Giappone.
Forse la gente che in Russia ha dato il proprio appoggio alla politica radical-liberale di Eltsin, non sta ancora accorgendosi del carattere paradossale di quel progetto e non capisce ancora quanto sia illusorio e precario uno stile di vita analogo al consumismo occidentale e privo delle strutture militari-industriali di tipo superiore che sole, oggi, possono difendere tale modo di vivere. È però inevitabile che l’istinto di sopravvivenza finisca alla lunga col favorire quella consapevolezza.
Ma non ci sono soltanto le illusioni del capitalismo e delle «masse» sovietiche. Anni fa, la risposta alla domanda: «Dove sta andando l’Urss?» sembrava scontata: la crisi del comunismo è determinata dalle aspirazioni alla democrazia, all’economia di mercato o, per la Chiesa cattolica, ai valori cristiani. Si trascurava, con questa risposta, la circostanza che l’abbandono del socialismo reale non era dovuto a movimenti di massa, ma era l’effetto di un calcolo della classe dirigente sovietica, che prendeva sempre più chiaramente coscienza dell’impossibilità di amministrare in modo efficiente la società sovietica e il suo dispositivo industrial-militare con i criteri dell’economia pianificata.
Il sottinteso fondamentale di quella risposta – che oggi non sembra più così scontata come ieri – è che democrazia, capitalismo, cristianesimo siano il sole intorno a cui gravita il pianeta dell’Est. Ed è certamente vero che i pianeti gravitano intorno al sole. Ma è anche, questo, un concetto sviante, se si ignora che il sole stesso è in movimento, insieme a tutte le altre stelle della Via Lattea. Anche la democrazia, il capitalismo, il cristianesimo sono in movimento. L’Unione Sovietica si è diretta verso di essi; ma, essi, dove stanno andando? Se il loro movimento è più lento di quello dell’Est, non per questo è inesistente. E i movimenti più lenti, nella storia, determinano i cambiamenti più duraturi. Oggi si stenta a comprendere che democrazia, capitalismo, cristianesimo non sono punti di arrivo dell’evoluzione dell’Est, ma punti di passaggio e che non solo i Paesi dell’Est, ma anche quelli dell’Ovest stanno muovendosi verso una configurazione del mondo dove non solo il comunismo è lasciato alle spalle, ma anche i valori democratici, l’economia di mercato, la fede cristiana non sono più alla guida dei popoli, ma si trovano subordinati alla volontà mediante la quale l’apparato scientifico-tecnologico, assicurando la sopravvivenza ai popoli privilegiati, perpetua la propria sopravvivenza e tende ad accrescere indefinitamente la propria potenza.
Gli entusiasmi per gli avvenimenti dell’Est sono lontani e le speranze del 1989 sembrano illusioni. Ma in Europa e in America, a entusiasmarsi, a sperare e a illudersi sono state – e in qualche modo continuano ad esserlo – le grandi forze che attualmente guidano le società occidentali. Alla democrazia, al capitalismo, al cristianesimo sta capitando come a uno che si veda venire incontro una persona, più o meno sorridente: si predispone a salutarla e intrattenersi con essa, ma essa gli passa accanto e procede oltre. Stava andando altrove – anche se per andarvi doveva avvicinarsi a chi riteneva che stesse andando da lui.
Quella persona è la società sovietica. Sta diventando sempre più simile alle società occidentali, si fa loro sempre più vicina, ma per andare altrove, verso una dimensione in cui le società occidentali stanno esse stesse portandosi. Quando le forze che stanno alla guida di tali società avvertono di non essere il punto di arrivo dell’evoluzione dell’Est, ma un punto di passaggio – sebbene per molti aspetti obbligato –, si diffondono in esse le delusioni e il timore. Il problema fondamentale del nostro tempo riguarda appunto il senso del processo in cui tali forze, che oggi prevalgono sul socialismo reale – e che peraltro sono tra loro conflittuali – stanno avviandosi esse stesse, più lentamente, al tramonto.
Da quando Eltsin è stato eletto presidente della Repubblica russa si sono dunque scontrati all’Est tre progetti per controllare la liquidazione dello Stato marxista. 1) Il progetto dei «conservatori»: non si tratta di conservare il comunismo (nei proclami degli autori del colpo di Stato dell’agosto ’91 nell’Urss, non ci fu un solo accenno al comunismo o al marxismo), ma di salvaguardare l’efficienza e la competitività dell’apparato tecnologico-militare più potente del mondo (insieme a quello Usa), anche a costo di imporre alla gente sacrifici ancora più pesanti. 2) Il progetto iniziale di Eltsin, che era l’esatto opposto di quello conservatore e che si proponeva di soddisfare le aspettative di benessere economico e politico della gente anche a costo di smantellare la potenza tecnologico-militare dell’Urss. 3) Il progetto di Gorbaciov: soddisfare quelle aspettative di benessere senza distruggere la potenza dell’Urss. Se la difesa dello Stato marxista non era e non è la preoccupazione primaria dei conservatori, essa non era nemmeno la preoccupazione primaria di Gorbaciov. Il suo progetto era di «mediare» gli altri due, facendo leva sulla convenienza, per il mondo occidentale, di aiutare l’economia dell’Urss.
Nell’estate 1991 scrivevo: «Gorbaciov potrebbe uscire presto dalla scena. Ma se la sua è la politica della “mediazione”, essa può avere le maggiori probabilità di successo» («Corriere della Sera», 4.9.91). Gorbaciov è uscito di scena e la politica della «mediazione» tra il progetto conservatore e quello del primo Eltsin è stato ereditato dal secondo Eltsin, le cui mosse più visibili tendono a conservare alla Repubblica russa, in posizione egemone nella Csi, il carattere di superpotenza che era proprio dell’Urss. Il progetto sostanziale di cui Gorbaciov era l’interprete si sta mostrando vincente, anche se l’interpretazione che egli ne dava conteneva dei fattori – soprattutto la volontà di tenere in vita uno Stato unitario sovrannazionale – che, almeno per ora, si stanno mostrando perdenti.
Al Consiglio di sicurezza dell’Onu tenutosi agli inizi del ’92, Eltsin ha proposto a Bush di abbandonare l’allestimento di uno scudo spaziale esclusivamente americano, per dar vita a un «sistema globale per la protezione della comunità mondiale», prodotto dalla collaborazione della tecnologia americana e russa. Con questa proposta Eltsin è venuto a riconoscere che il pericolo maggiore, per la Comunità degli Stati dell’Est e per tutti i popoli più o meno ricchi del Nord del Pianeta, è oggi costituito dalla pressione destabilizzante del Terzo Mondo. Si è accorto che la si può arginare solo tenendo alto il livello di efficienza di quell’apparato tecnologico-militare che all’inizio egli sembrava disposto a liquidare per andare incontro al bisogno di benessere della gente. E l’efficienza di tale apparato richiede oggi, sia all’Est sia all’Ovest, la sua riconversione, cioè la riduzione dell’armamento atomico allestito in funzione dello scontro ideologico Usa-Urss, e l’adozione di nuovi strumenti di difesa e di offesa commisurati alla minaccia crescente che proviene dal Terzo Mondo. (Ma va aggiunto, e lo sostengo da tempo, che era ingenuo ritenere realizzabile uno scontro atomico Usa-Urss – che non avrebbe prodotto altro che il dominio della Terra da parte delle grandi masse sopravvissute dell’Oriente e del Sud –, e che invece è molto più realistico ritenere che le forme più cruente di conflittualità possano realizzarsi lungo l’asse Nord-Sud.)
La proposta di Eltsin a Bush ha mostrato inoltre come proprio Eltsin sia divenuto l’erede della volontà dell’Urss di tenere in vita quella parità atomica con gli Usa, che verrebbe meno se quest’ultimi diventassero gli unici beneficiari dello scudo spaziale. Il problema è aperto: Bush e Clinton non hanno ancora risposto alla proposta di Eltsin. Ma è chiaro che, proprio perché il problema è sul tappeto, America e Russia continuano a considerare se stesse come i protagonisti della scena mondiale. Lo Stato marxista dell’Est è morto, ma non è morto l’apparato tecnologico-scientifico-industriale-militare che in passato aveva lo scopo di sorreggere e diffondere il comunismo nel mondo, ma che poi si è accorto di quanto il proprio funzionamento fosse ostacolato dall’ideologia marxista, e ha finito col liberarsi di essa.
La morte dello Stato marxista non è un semplice «fatto» che sarebbe anche potuto non accadere. Da un secolo e mezzo sta producendosi nelle società del Nord un insieme imponente di fenomeni essenzialmente analoghi al disfacimento dell’Urss. Si tratta della dissoluzione di ogni forma di assolutismo: in campo culturale, etico-religioso, politico, economico. Il Nord del Pianeta rifiuta ogni principio assoluto, ogni norma morale definitiva, ogni legge naturale inderogabile, le democrazie prevalgono sulle dittature e i totalitarismi, lo stesso capitalismo non concepisce più se stesso come legge naturale eterna, la scienza e la filosofia rinunciano ad ogni verità incontrovertibile.
In questo contesto, c’era da stupirsi che lo Stato marxista, fondato su una concezione filosofica assolutistica, fosse ancora vivo, non ancora travolto dal fiume della storia contemporanea (cfr. E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, 1988; La bilancia, cit.). Le riforme di Gorbaciov erano quindi nell’ordine delle cose, andavano nella stessa direzione della corrente. Erano quindi fuori strada quanti ritenevano possibile nell’Urss la restaurazione dell’ortodossia marxista. Ed era lecito fare anche dell’ironia sui continui necrologi per un Gorbaciov che il giorno dopo mostrava di essere ancora in sella. Che egli sia stato defenestrato da Eltsin e in generale dai movimenti democratici e nazionalisti è dunque una conferma della sostanziale irreversibilità (peraltro conciliabile con involuzioni provvisorie) del processo che ha condotto alla morte dello Stato marxista. Così improbabile, la restaurazione dell’ortodossia marxista, che il Gorbaciov che ne sarebbe dovuto essere la prima vittima è stato tolto di mezzo dalle forze che hanno trovato troppo ingombrante la presenza dei dogmi marxisti nella sua politica.
Prevedendo il crollo dello Stato marxista, e distinguendo la decrepitezza di quest’ultimo dalla capacità di tenuta dell’apparato tecnologico-militare che lo aveva sostenuto, prevedevo dunque che il duumvirato Usa-Urss si sarebbe riproposto in nuove forme – come l’incontro di Bush e di Eltsin all’Onu, nel ’92, ha cominciato a confermare.