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Monopolarismo e bipolarismo

In un articolo dedicato al recente accordo Start 2 tra Stati Uniti e Russia sulla riduzione degli armamenti nucleari, e dopo aver richiamato la sostanziale parità di forze che i due firmatari mantengono anche dopo la drastica riduzione del loro armamento nucleare di due terzi, e la loro capacità di distruggersi più volte a vicenda e di distruggere più volte ogni forma di vita sulla Terra, Arrigo Levi scrive che «questo è il quadro, previsto dallo Start 2 per il 2003, entro il quale continuerà a svolgersi, nel XXI secolo, il grande gioco della politica internazionale» («Corriere della Sera», 3.1.93).

Questo gioco continuerà cioè ad essere determinato dalla sostanziale parità di forze dell’apparato militare-industriale degli Stati Uniti e dell’ex Unione Sovietica. Da quando si è verificato il prevedibile crollo del socialismo reale e dell’Urss ho sempre sostenuto, appunto, che il «bipolarismo» non era affatto finito, perché il suo zoccolo duro non era di carattere ideologico (da vent’anni prevedevo infatti la fine del socialismo reale e dell’Urss), ma è di carattere militare-industriale (cfr. E.S., La guerra, Rizzoli, 1992; La bilancia, cit.).

L’economia sovietica è certamente in crisi (una crisi da ricchi), ma la consistenza dell’apparato militare-industriale dell’ex Urss conferisce ad esso una vitalità inerziale che gli consente di sopravvivere fino a che riceverà nuovi impulsi dalla probabile ripresa economica dell’Est. Completamente fuori strada, quindi, chi riteneva e ritiene che la crisi economica avrebbe consegnato l’ex impero sovietico nelle mani degli Stati Uniti, con i funzionari della Cia a dirigere lo smantellamento della potenza militare degli ex avversari.

La Russia continua ad essere l’altro «polo». È all’interno del «quadro» costituito dai due poli che nel prossimo secolo, come scrive Levi, «continuerà a svolgersi il grande gioco della politica internazionale», ossia il gioco che guida e determina tutto quanto accade sulla Terra. E, giustamente, Levi sente il bisogno di precisare, parlando del «disarmo delle superpotenze», che esse «sono ancora due, e non una».

Nei primi mesi del 1992, per indicare gli intenti di predominio incondizionato contenuti nel documento segreto del Pentagono, venuto alla luce in quei giorni, il «Corriere della Sera» intitolava un servizio di apertura «America sola superpotenza». Il titolo era pertinente, volendo appunto indicare le intenzioni del governo americano; il Pentagono e Bush facevano il loro mestiere (nell’iniziale clima elettorale era vantaggioso per Bush lasciar trapelare quel documento «segreto», per mostrare che il bipolarismo non esisteva più, e per merito suo); meno bene, invece, quanti scambiavano e scambiano per realtà la (legittima) volontà del governo americano di accreditare a proprio vantaggio l’immagine di un monopolarismo trionfante.

Vedo d’altra parte che alcuni di essi vanno ricredendosi. Ad esempio, per restare al «Corriere della Sera», dopo avere diffusamente avallato la tesi del «monopolarismo» americano, Ugo Stille è costretto ora a riconoscere che per Clinton l’alleanza tra America e Russia è condizione indispensabile della pace mondiale. Clinton ha affermato che come alla fine della Seconda guerra mondiale «creammo un’alleanza strategica con i Paesi occidentali per bloccare l’espansione comunista, oggi dobbiamo conchiudere un’alleanza strategica con le forze riformatrici di una Russia democratica per garantire la stabilità mondiale». E Stille osserva che questo atteggiamento di Clinton «giustifica la tesi secondo cui si profila adesso un “neobipolarismo” basato non più come quello antico sull’antagonismo ma su una solida e continua cooperazione tra Stati Uniti e Russia» («Corriere della Sera», 2.4.93). Che è appunto quanto ho sempre sostenuto quando commentatori politici come Ugo Stille parlavano di «monopolarismo» trionfante.

A parte il fatto che anche al tempo della conflittualità Est-Ovest la «cooperazione» era la risultante oggettiva della tensione (e quindi parlavo di concordia discors Usa-Urss), non si può ribattere che è la situazione storica ad essere cambiata e quindi a giustificare il fatto che prima si parlasse di «monopolarismo» e poi si sia tornati a parlare di «bipolarismo». Infatti è nel giro di uno o due anni che quei commentatori politici sono passati dai funerali del bipolarismo e dalla celebrazione del monopolarismo alla restaurazione del bipolarismo; e nel giro di qualche anno la potenza dell’ex Unione Sovietica non può e andare distrutta e nuovamente risorgere sino al punto da ricostituire la partnership russo-americana.

Di trionfante, oggi, c’è solo il capitalismo. E poiché l’Est sta incamminandosi verso il capitalismo, sia pure con lentezza e involuzioni, stanno maturando le condizioni tipiche della concorrenza capitalistica. Anzi, tale concorrenza si accinge ad acquistare, nel rapporto bipolare Usa-ex Urss, la propria forma e la propria espressione più alta e decisiva.

Con una Repubblica russa in ginocchio e quindi ricattabile, sarebbe stato del tutto inconcepibile un accordo come lo Start 2: ci sarebbe stato un Diktat statunitense, capace di eliminare definitivamente la possibilità che la Russia distrugga l’America. Invece l’accordo prevede il mantenimento della parità sostanziale e coinvolgendo i prossimi dieci anni per la propria attuazione è un esplicito riconoscimento della capacità di tenuta dell’apparato militare-industriale dell’Est, cioè gli riconosce la capacità di gestire un’operazione così complessa come la smobilitazione parziale, l’autosostentamento e la riconversione. Russia e America si trovano, esse sole, in una condizione privilegiata, completamente diversa da quella del Giappone, della Germania, dell’Europa, le cui economie andrebbero a picco, nonostante la loro consistenza, se si proponessero di avere una forza militare comparabile a quella dell’ex Unione Sovietica.

La politica dei mass media, che dipinge una ex Urss allo sbando e allo stremo, dando un’immagine distorta della pur difficile realtà dell’Est, non fa dunque nemmeno gli interessi dei gruppi economici da cui spesso i mass media dipendono. Ci si avvia verso il bipolarismo della concorrenza capitalistica (cioè va ripristinandosi la situazione che all’inizio del nostro secolo ha contrapposto il capitalismo degli imperi centrali a quello delle democrazie); si fa quindi un cattivo servizio al polo a cui si appartiene se si dipinge il concorrente più debole di quanto non sia. L’anima della concorrenza non è la solidarietà, ma l’ostilità guidata da certe regole (comunque più vincolanti di quelle sussistenti tra i due blocchi durante la guerra fredda).

Se si vuol dire che altro sono le informazioni che i grandi gruppi economici posseggono e altro sono quelle che essi intendono far conoscere al pubblico, si può rispondere che, alla lunga, è una cattiva strategia dare alle truppe informazioni distorte sull’avversario. D’altra parte, il capitalismo ha tutto l’interesse a dare il maggior rilievo possibile (e anche oltre la verosimiglianza) alle miserande condizioni in cui il comunismo ha ridotto i Paesi dell’Est. Intendo dire che se, nel senso indicato, quella strategia dei mass media è cattiva, in un altro senso essa è buona (vantaggiosa), perché nel mondo povero e ricco esistono pur sempre, e sono la maggioranza, quelli che si ritengono emarginati dai privilegi della società capitalistica; sì che è vantaggioso alimentare un tipo di informazione in cui appaia al di là di ogni possibile dubbio (e anche a costo di non essere realisti) la gravità del danno provocato da quella che è stata la più potente organizzazione del dissenso anticapitalistico: il comunismo dell’Unione Sovietica. Ma una strategia che per un verso è cattiva e per l’altro è buona, è una contraddizione, ossia qualcosa di instabile, non è la formula che risolve il problema.