«Nessuno di noi, neppure i più bravi, aveva previsto il crollo del Muro di Berlino e quello del comunismo» (Enzo Biagi, «Panorama»). Questa affermazione mi ha tolto un po’ dall’imbarazzo in cui ero venuto a trovarmi. Avevo compiuto infatti qualche passo in direzione dell’immodestia. Scrivendo, e in più occasioni, che sì il crollo del comunismo era stato una sorpresa per tanti, ma non per me che lo andavo prevedendo da vent’anni. Ma quelle due righe provavano quanto l’immodestia possa passare inosservata.
Il crollo del comunismo è un evento di gigantesca portata. Già questo fa pensare: possibile che non ci fossero i sintomi di uno sconvolgimento così profondo? e profondissimo anche per tutti coloro che dichiarano che non lo si poteva prevedere? Stavano crollando gli edifici di una città planetaria, si stavano aprendo fenditure profonde nelle sue strade, e non si sentiva nessuno scricchiolio premonitore e le righe dei sismografi rimanevano piatte?
E invece i segnali erano ben visibili. Se c’era da stupirsi di qualcosa era che il comunismo non fosse ancora crollato. È un secolo e mezzo che nel mondo occidentale stanno accadendo fenomeni profondamente consonanti al disfacimento del comunismo. Il suono comune è la negazione di qualsiasi realtà e di qualsiasi conoscenza assoluta e immutabile: distruzione dell’assolutismo politico, morale, religioso, economico, artistico, scientifico, e innanzitutto dell’assolutismo filosofico. Come poteva restare ancora in piedi l’assolutismo della filosofia marxista e della struttura sociale da essa controllata? (Ed è di estremo interesse, dunque, stabilire che cosa tenga oggi in piedi quell’ultima grande forma di assolutismo che è la Chiesa cattolica – l’unica grande eccezione, ormai, alla tendenza fondamentale del nostro tempo.) Si comprende qualcosa del crollo del comunismo – e la comprensione ne rendeva possibile la previsione –, se lo si vede all’interno di quel grande contesto e si scorge il motivo autentico che conduce inevitabilmente alla negazione di ogni assoluto. Ma dobbiamo limitarci agli aspetti più accessibili del problema.
Scrivevo dunque, vent’anni fa, che il comunismo marxista era destinato al tramonto già per il fatto di aver tradito, nascendo, quella vocazione all’assoluto di cui esso si sentiva peraltro il vero portatore: aveva realizzato «una serie di rivoluzioni parziali invece dell’unica rivoluzione mondiale», assoluta, e si era dedicato poi «ai problemi specifici determinati dalla coesistenza e dalla competizione col mondo capitalistico». E aggiungevo: «Il capitalismo, che da tempo ha smesso di sognare il mondo perfetto, attende che il marxismo si liberi dalla zavorra costituita dal suo apparato teorico […] La società capitalistica è cioè il futuro della società comunista». Scrivevo queste cose su «Sette Giorni» (3 dicembre 1972), un settimanale coraggioso che però avrebbe presto cessato di uscire. Raccolsi poi quanto ero andato scrivendo su questa rivista in un volume, Téchne (Rusconi, 1979), il cui penultimo paragrafo è intitolato appunto «Dal comunismo al neocapitalismo».
Vi avevo raccolto anche gli articoli pubblicati su «Bresciaoggi» a partire dalla strage di piazza della Loggia. In uno di essi (17.7.74) parlavo del «dilemma del marxismo sovietico»: «per realizzare il sogno della società giusta, non violenta, deve realizzare una società che sappia reggere l’urto del capitalismo e quindi organizzata secondo criteri – apparato burocratico e sviluppo tecnologico – che non sono più quelli che conducono alla società non violenta, ma sono gli stessi criteri dell’avversario. Per difendersi dal capitalismo, la rivoluzione socialista è costretta ad adottare la logica e gli strumenti del capitalismo. Se non li adotta, perisce distrutta dall’avversario. E tuttavia, se li adotta, perisce distrutta da se stessa». E aggiungevo che se «la politica di fondo dell’Unione Sovietica è lo sforzo di trovare un equilibrio in questa contraddizione, ogni sforzo risente della contraddizione di fondo e si rivela precario».
Per quanto poi riguarda quella componente del capitalismo che è la tecnologia, scrivevo: «il contrasto tra marxismo e tecnologia, in Russia (e nel mondo), è destinato a risolversi in favore della tecnologia», sì che «in Russia, e ormai anche in Cina, il marxismo va verso il tramonto, perché ci si convince sempre più che lo sviluppo tecnologico non è soltanto la condizione indispensabile per difendere il socialismo dalla pressione capitalistica, ma è anche lo strumento più idoneo per realizzare quella società non violenta, liberata dai bisogni, che l’ideologia marxista non ha saputo produrre».
Questo e altro affermavo agli inizi degli anni Settanta. Nel 1978 pubblicavo Gli abitatori del tempo (Armando), in cui raccoglievo una serie di scritti pubblicati nella prima metà degli anni Settanta e nei quali erano indicati i fondamenti filosofici, da tempo elaborati, che consentivano di prevedere il disfacimento del marxismo. Il saggio più lungo di questo libro era intitolato: «Tramonto del marxismo. Discussione con Lucio Colletti e risposta semiseria a Paolo Rossi». Vi sostenevo la tesi che il marxismo era mortalmente ammalato, ma di una malattia ben più profonda di quella a cui pensava Colletti.
Ancora in Téchne scrivevo: «Il perpetuarsi dell’equilibrio attuale non esclude che la società sovietica possa svilupparsi in senso democratico: quanto più Stati Uniti e Unione Sovietica venissero ad assomigliarsi, tanto più resterebbe rafforzata l’attuale convergenza dei loro interessi […] Certo, la civiltà della tecnica può destabilizzare anche l’organizzazione russo-americana dell’ordine tecnologico. Anzi, tale destabilizzazione è già in atto nel processo che, distruggendo le ideologie dei due avversari, li rende omogenei». La previsione riguardava cioè anche il futuro del capitalismo, molto più vicino del marxismo all’anima della tecnica e quindi, molto più longevo, ma alle cui componenti «ideologiche», e quindi precarie, si deve prestare la maggiore attenzione.
Che qualcuno avesse previsto il crollo del marxismo ha poca importanza. Quando dico che l’avevo previsto vent’anni fa (cfr. E.S., La bilancia, cit.), intendo richiamare l’attenzione sulla «logica» di questa previsione. Essa, infatti, non si è esaurita, ma consente di prevedere altre cose ancora. Che non abbia fallito in relazione al comunismo è un buon segno della sua capacità di dirci, ora, dove stiamo andando. La «logica» per la quale si doveva affermare che il comunismo sarebbe crollato, spinge infatti anche ad affermare che le grandi forze rimaste in campo dopo la crisi del marxismo e la fine del socialismo reale stanno avviandosi a loro volta, in modi e tempi diversi, al tramonto (e anche questo è un discorso che vado facendo da tempo). Si tratta, stiamo vedendo anche in queste pagine, del cristianesimo, del capitalismo, della democrazia, dell’organizzazione politica della società. Ognuno di questi grandi fenomeni sta cambiando sotto i nostri occhi – anche se si stenta ad accorgersene e si continuano a usare le vecchie parole per indicarli.
Il problema fondamentale riguarda dunque la «logica» di quella previsione. Che non è la logica della scienza moderna. È qualcosa di più rigoroso e di più radicale, anche se non dice a che ora sarebbe finita l’Unione Sovietica. So bene che, oggi, parlare di una «logica» più rigorosa e radicale di quella scientifica è imperdonabile. Ma che la scienza moderna sia la forma più alta del sapere è tutt’altro che un punto fermo. Quando parlo di «previsione» non intendo dunque la previsione scientifica.
Recentemente, comunque, si è detto che Benedetto Croce il crollo del marxismo l’aveva previsto addirittura sessant’anni fa, nell’«Epilogo» della sua Storia d’Europa. E me lo si è ricordato (R. Guarini, «Corriere della Sera», 14.5.92). È una pagina interessante, quella di Croce, ma non certo «stupefacente». Dirò poi perché Croce non abbia alcuna responsabilità di questo suo calo di tono.
Il comunismo, scrive, che sognava il «regno della libertà» (l’espressione è di Marx) si è realizzato in Russia come «una forma di autocratismo» che ha tolto al popolo russo anche quel poco di libertà che era riuscito ad avere «sotto il precedente autocratismo czarista». I rivoluzionari russi non hanno cioè risolto «il problema fondamentale dell’umana convivenza che è quello della libertà».
E aggiunge – e questa dovrebbe essere la sua «previsione» –: «E, se mai in futuro lo affronteranno», quel problema «rovinerà il fondamento materialistico della loro costruzione, e questa costruzione dovrà essere diversamente sorretta e grandemente modificata; e, come ora il puro comunismo non si è attuato, così non si attuerà nemmeno allora». Se i rivoluzionari russi affronteranno quel problema, se cioè vorranno far spazio alla libertà, il materialismo in cui hanno legato la vita si spezzerà. La libertà spezza le catene.
Ma per Croce questa forza trasformatrice della libertà non era qualcosa che sarebbe potuto accadere solo in Russia: era la forza che anima tutta la storia. C’è storia perché c’è libertà. Ne La storia come pensiero e come azione Croce parla appunto della «storia come storia della libertà». Non nel senso hegeliano che, nella storia, la libertà, prima assente, si affacci e cresca, ma nel senso che la libertà è «l’eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia». La realtà è libertà, storia, divenire dello spirito; e quando lo spirito affronta il problema della libertà e prende coscienza della propria essenza, distrugge ogni costruzione rigida che impediva il suo libero sviluppo. Così accadrà anche in Russia, «se mai in futuro» i rivoluzionari vorranno affrontare quel problema. Ogni fatto è «un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si trovano né si concepiscono nel mondo della realtà». Anche l’autocratismo comunista è un fatto storico che, come tutti gli altri, sarà superato dalla storia.
Con questo discorso, Croce non prevede specificamente il crollo del comunismo, ma enuncia il principio del crollo di tutti i possibili fatti storici. Non esistono «fatti immobili». Un principio, questo, che non è solo di Croce, ma di tutta la filosofia contemporanea, Marx incluso – di cui non è appunto il caso di dire che abbia previsto il crollo del comunismo. A parte il fatto che altro è, nei primi anni Trenta, «prevedere» tale crollo, quando il comunismo in Russia era ancora in fase sperimentale, altro è averlo previsto vent’anni fa, quando l’Unione Sovietica era una superpotenza mondiale al culmine della sua potenza.
In quell’«Epilogo» Croce parla poi della sorte del comunismo fuori della Russia, sottoscrivendo la tesi di Miljukov che Lenin «in Russia stava fabbricando sul saldo suolo della buona antica tradizione autocratica, ma che per quel che riguardava altri paesi, disegnava castelli in aria». Portato fuori dalla Russia, aggiunge Croce, il comunismo diventerà «tutt’altra cosa». Ma il nostro problema riguarda ciò che sarebbe accaduto al comunismo nell’Unione Sovietica – anche se nel clima degli anni Trenta Croce, giustamente, non vedeva elementi favorevoli alla diffusione del comunismo.
Ma veniamo, infine, al punto più importante per quel che concerne la «previsione» di Croce. Ebbene, al centro del suo pensiero sta, ben visibile, la tesi che ogni previsione storica è impossibile. Proprio perché la realtà è libertà, libero divenire dello spirito, ogni previsione è costitutivamente impossibile. L’opera della libertà è imprevedibile. E anche questo è uno dei temi dominanti della filosofia contemporanea. Anche nell’«Epilogo» della Storia d’Europa questa tesi è più volte richiamata. Poco dopo l’inizio si parla di coloro che «si perdono in congetture e previsioni», e nell’ultimo capoverso dell’«Epilogo», si legge: «Queste, rapidamente qui accennate, non sono previsioni, a noi e a tutti vietate», perché «vane», ma sono «indicazioni di vie» tracciate dalla «coscienza morale» e dall’«osservazione del presente». Quando scorge che il presente è il risultato dell’azione della libertà, l’uomo può infatti assumere la libertà come «ideale» del proprio agire. Oltre che «principio esplicativo del corso storico» già realizzato, la libertà è cioè l’«ideale morale dell’umanità». Che il comunismo sarebbe dovuto crollare non era dunque per Croce una previsione, ma un’aspirazione e una decisione; cioè volontà e azione fondate su quell’«ideale morale». Appunto per questo l’«Epilogo» può permettersi di essere così generico sul futuro del comunismo: è generico solo se lo si considera come previsione; ma Croce esclude categoricamente che lo sia. Per questo, dicevo sopra che egli non è responsabile di questo suo apparente calo di tono.
Quanto alla mia «previsione», è chiaro che, se non è una previsione scientifica, essa prende anche le distanze dal tipo di cultura filosofica a cui Croce appartiene. La libertà (e la schiavitù) è un principio essenziale dell’Occidente. Ma è proprio l’essenza dell’Occidente che vien messa in questione dalla «logica» di questa previsione.
La volontà di distruggere gli immutabili non è la caratteristica di tutta la storia (come invece pensa Croce), ma è il progetto che il pensiero contemporaneo mira a realizzare – anche se raramente tale pensiero riesce nel proprio intento. Si tratta allora di portare alla luce la forza nascosta di quella distruzione (cfr. E. S., La filosofia futura, Rizzoli, 1989, Parte prima, III; La bilancia, cit., III), che è innanzitutto distruzione di ogni verità immutabile. Solo perché tutti gli immutabili dell’Occidente – e quindi, innanzitutto, tutte le verità immutabili – sono destinati al tramonto è inevitabile che le grandi forze della tradizione occidentale (che in modi diversi mirano a tenere in vita gli immutabili) finiscano col subordinare i loro scopi allo scopo che l’apparato scientifico-tecnologico possiede per se stesso: l’incremento infinito della potenza.