Solo gli individui sembrano capaci di sentimenti morali. Non i popoli. Almeno, questo è quanto è accaduto sinora. Se l’essenza del sentimento morale è l’altruismo, quale popolo, lungo la storia dell’uomo, ha sacrificato se stesso per salvare un altro popolo? Non accade nemmeno tra gli individui, e quindi è inutile cercare un popolo che offra l’altra guancia; ma quando mai un popolo ha dato ad altri qualcosa che appena gli sembrasse importante?
E non solo il sentimento morale non determina il rapporto tra i popoli e tra gli Stati, ma tra popoli e tra Stati vige ancora, per lo più, la guerra di tutti contro tutti. Solo nel nostro secolo la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite hanno incominciato a compiere qualche tentativo per superare lo stadio del bellum omnium contra omnes. Ma la stessa Guerra del Golfo, condotta in nome delle Nazioni Unite, era in realtà animata dalla volontà degli Stati Uniti e di alcuni Paesi europei di non perdere il controllo dei pozzi petroliferi mediorientali, e dalla convenienza che l’Unione Sovietica aveva in quel momento di non opporsi a questa operazione di polizia planetaria. Nel rapporto tra i popoli, dominato dalla guerra di tutti contro tutti, nessuna meraviglia che sia assente non solo la morale, ma anche quella pallida immagine della morale che è il diritto. Ancora oggi il diritto internazionale è una semplice aspirazione.
Forse sono addirittura i gruppi sociali, per quanto ristretti, ad essere incapaci di altruismo nei confronti di altri gruppi, omogenei o eterogenei, o nei confronti di un individuo estraneo. Quante volte è accaduto che una famiglia si sacrificasse, come famiglia, per un’altra famiglia, o per il popolo a cui apparteneva, o per un individuo ad essa estraneo? Quante volte, dico, questo sacrificio è avvenuto per motivi morali, per altruismo, per amore, e non per interesse comune, o per disperazione, o per altri motivi diversi da quelli morali? Nel mondo sono forse soltanto i gruppi religiosi, come quelli cristiani (chiese e ordini religiosi) a farsi o a tentare di farsi guidare da principi etico-religiosi nel loro rapporto col prossimo.
L’egoismo che i popoli ricchi mostrano oggi nei confronti di quelli poveri non è dunque una novità. È anzi la più vecchia delle storie. Tanto che l’indignazione morale per il comportamento dei ricchi assume frequentemente l’aspetto di uno strumento politico da utilizzare nella lotta contro i privilegiati. Anche perché i non privilegiati non sono animati dall’ideale della giustizia o da altri principi morali, ma dal desiderio di partecipare al godimento dei privilegi – magari assumendo, come sempre accade quando i poveri fanno qualche passo avanti verso il benessere, un atteggiamento ancora più intransigente, verso quanti sono rimasti indietro, di coloro che invece sono da tempo abituati al benessere e al godimento della ricchezza.
Le masse del Terzo Mondo crescono vertiginosamente e le loro avanguardie premono in modo sempre più minaccioso alle porte del Nord del Pianeta. Non c’è posto per tutti e diventano sempre più rari i posti non devastati e inquinati dalla forma attuale della produzione economica. Ci si vuol meravigliare che i ricchi non intendano perdere i loro privilegi? e soprattutto dopo che lo sviluppo tecnologico ha messo a loro disposizione una potenza militare che ha reso praticamente invincibile il Nord del Pianeta?
Inoltre, il fondamento della meraviglia e dell’indignazione per l’egoismo dei privilegiati sono i valori morali. Ma il pensiero del nostro tempo ha voltato le spalle – e non poteva fare altrimenti – a ogni verità assoluta e definitiva, e quindi nessun valore morale, e tanto meno quelli religiosi, possono pretendere di valere come verità assolute e incontrovertibili. Ormai, nel Nord del Pianeta, sono le masse stesse ad accorgersi di quella crisi della verità e della morale, che fino a qualche decennio fa era nota soltanto alle élites intellettuali. Come pretendere, allora, che i popoli ricchi si facciano guidare da principi morali nei loro rapporti con i poveri?
Gli Stati Uniti e il loro presidente sono stati accusati di aver fatto fallire, nel 1992, la Conferenza di Rio sull’ambiente. E in effetti hanno smorzato molti entusiasmi. D’altra parte, quando Bush affermava che gli Stati Uniti posseggono la migliore legislazione ecologica oggi esistente, diceva il vero. Questi due fatti non si contraddicono. Anzi, è proprio perché gli Stati Uniti sono preoccupati più degli altri Paesi di salvaguardare il proprio ambiente naturale che essi devono impedire, per ora, che le aspirazioni ecologiche guadagnino troppo rapidamente terreno nel resto del mondo. Non è difficile comprenderlo.
Più o meno tutti sono convinti che la forma attuale della produzione economica stia distruggendo irreversibilmente la Terra. Ma più o meno tutti, oggi, sono anche convinti che il capitalismo è il mezzo più efficace per produrre ricchezza, sicurezza, potenza. Le società capitalistiche non intendono perdere questi vantaggi e tendono quindi a scaricare sul resto del mondo gli effetti inquinanti e distruttivi della produzione economica. Ma perché questo sia possibile e, ad esempio, le imprese statunitensi possano impiantare fabbriche inquinanti in Brasile o in Messico, risparmiando il territorio nordamericano, è necessario che nei Paesi poveri la legislazione ecologica sia molto più permissiva che nel Nord America e in Europa. Si può capire quindi perché gli Stati Uniti abbiano tarpato le ali al summit di Rio.
È vero che fenomeni come l’effetto serra, le piogge acide e il buco nell’ozono danneggiano tutta la Terra. Ma è anche vero che le zone più inquinate del Pianeta sono, per ora, quelle abitate dai popoli poveri, che mirano soprattutto al decollo della loro economia e non si possono permettere il lusso di badare alla devastazione della natura e della salute, che tale decollo comporta; ed è appunto in queste zone che, esentate da tasse e da vincoli, le imprese inquinanti dei Paesi ricchi possono con maggior profitto investire, vendere i loro prodotti pericolosi e trasportare i rifiuti tossici della produzione effettuata in madrepatria.
C’è ancora un po’ di tempo, prima che, dal Sud, l’invivibilità determinata dalla produzione economica raggiunga i Paesi del Nord. C’è anche più tempo, prima che si giunga al punto in cui, nonostante le energie alternative non inquinanti, ci si venga a trovare sull’orlo dell’abisso. Ma quando questo avverrà, e forse anche prima, il capitalismo dovrà rendersi conto che distruggendo la Terra distrugge se stesso. E sarà questa coscienza, non la coscienza morale o religiosa, a spingere il capitalismo al tramonto. Non certo, dunque, perché quello sarà il momento del prevalere dei valori morali, ma perché l’apparato scientifico-tecnologico, che oggi si incarna nel capitalismo, si dissocerà, come ha già fatto col socialismo reale, dai residui ideologici che nel capitalismo, minacciando la base naturale della tecnica, minacciano la sopravvivenza stessa dell’uomo – giacché è ormai alla tecnica che è affidata la vita dell’uomo sulla Terra.
Il capitalismo tramonta, perché è costretto, prendendo coscienza del proprio carattere autodistruttivo, a darsi un fine diverso dal profitto, cioè la salvaguardia della base naturale della produzione economica, e la salvaguardia della tecnica. Il nemico più implacabile e più pericoloso del capitalismo è il capitalismo stesso: sia quando si lascia tentare dalle voci della morale, della religione, della cultura, che lo invitano a uscire dalla pura logica del profitto, sia quando tira dritto per la sua strada.
Si può obiettare che il capitalismo puro – cioè non contrastato da alcuna volontà di realizzare scopi diversi dal profitto – non è mai esistito. La nascita stessa del capitalismo è una lotta contro la società feudale, e le istanze etico-religiose e illuministico-liberal-democratiche hanno sempre agito per impedire l’espansione illimitata del profitto. Nonostante tutto questo il capitalismo ha assunto forme sempre diverse ed è sopravvissuto. Perché dovrebbe perdere questa sua capacità di adattamento e cessare di vivere, quando si accorgesse che perseverando nella sua forma attuale distrugge la Terra e se stesso?
Perché, si può rispondere, il modo sempre diverso in cui il capitalismo ha reagito agli ostacoli che si è via via trovato di fronte non va confuso con lo scopo che il capitalismo essenzialmente si propone. Il capitalismo ha assunto forme diverse, perché è sempre riuscito a raggiungere lo stesso scopo – l’incremento del profitto –, superando i diversi ostacoli. Ma sta profilandosi qualcosa di essenzialmente diverso da tutto il passato del capitalismo: il piano inclinato, al termine del quale il capitalismo, per non annientarsi, è costretto ad assumere uno scopo diverso dal profitto, e dunque – ecco il tratto a cui sempre più si dovrà prestare attenzione – è costretto ad annientarsi.