Tra le forze che hanno sconfitto il socialismo reale, il capitalismo è quella dominante. Anche il cristianesimo e la democrazia hanno avuto importanza in questa vicenda (peraltro tuttora in atto); ma il divario tra Est e Ovest si è rivelato insostenibile soprattutto sul piano dell’organizzazione degli strumenti che rendono possibile la sopravvivenza di una società. L’organizzazione capitalistica della tecnica si è rivelata superiore a quella comunista. D’altra parte lo scontro Est-Ovest è impensabile al di fuori dello sviluppo tecnologico guidato dalla scienza moderna. Nemmeno il capitalismo è concepibile separatamente da esso. Ma proprio per questo il capitalismo non è la tecnica. Questa differenza è riconosciuta da tutti. Si tratta però di coglierne il significato autentico.
Sia Marx, sia gli avversari del marxismo ritengono che la tecnocrazia sia il punto più alto raggiunto dal capitalismo. Tuttavia si può stare nel punto più alto in molti modi. Anche il culmine di una parabola è il punto più alto; ma è anche quello da cui incomincia la discesa. Da tempo vado indicando i motivi che fanno pensare che la discesa del capitalismo sia già incominciata. Non si tratta delle difficoltà in cui oggi si trova l’economia capitalistica e che prima o poi possono essere superate. Si tratta di qualcosa di ben più decisivo: un insieme di forze di diversa natura e potenza agisce con pressione costante per distogliere il capitalismo dal fine che gli è proprio; e questo significa che esse agiscono per trasformare il capitalismo in qualcosa che non è più capitalismo.
Che il capitalismo sia la forza preponderante tra quelle che hanno condotto al tramonto il socialismo reale, e che quindi non si vede come possano esistere forze capaci di distruggerlo è una obiezione che trascura la differenza, qui sopra richiamata, tra capitalismo e tecnica. Il rapporto tra capitalismo, democrazia, cristianesimo è profondamente conflittuale e con la fine del comunismo questa conflittualità sta venendo sempre più in primo piano. Ma tra queste forze si trova un convitato di pietra. Siede al loro tavolo; e anche se sono tutte convinte di potersene servire sarà lui a dominarle e a guidare il convito. Anche il socialismo reale sedeva allo stesso tavolo. E si è convinti che a liberarci da esso siano stati il capitalismo, la democrazia, il cristianesimo. Ma al tavolo siede anche la tecnica.
Senza la tecnica ognuna di quelle forze sarebbe del tutto impotente. Neppure la carità cristiana – che oggi prevede l’aiuto ai popoli poveri – potrebbe oggi muovere un solo passo. Ciò nonostante, capitalismo, democrazia, cristianesimo sono pur sempre convinti di poter controllare la tecnica e di potersene servire, e cioè di poterla trattenere alla sua funzione di mezzo e di strumento. Ma la tecnica è il convitato di pietra. A differenza di quanto accade nella commedia di Molière essa non è il portavoce di una morale o di una giustizia superiore – anche se capitalismo, democrazia, cristianesimo sono i seduttori dell’umanità. Tentiamo ora di guardare più da vicino questi temi. E innanzitutto quello relativo al fine del capitalismo.
Il fine, o scopo, di un’azione umana non è qualcosa di semplicemente esterno ad essa. Certo, la casa che un costruttore vuole innalzare è qualcosa di diverso dalle operazioni compiute per costruirla – e in questo senso è qualcosa di diverso dall’azione del costruire. Tuttavia lo scopo guida l’azione. A tal punto che essa si realizza così come si realizza, proprio perché il suo scopo è quel certo scopo e non un altro. È perché si vuole costruire una casa che si agisce in un certo modo. Se si volesse costruire un’automobile, la configurazione dell’agire sarebbe completamente diversa. Solo perché non si scorge il carattere determinante del fine rispetto all’agire si può ritenere che sia possibile agire nello stesso modo pur proponendosi scopi diversi. Ma se ci si rende conto del carattere decisivo del fine nella configurazione dell’agire, si è anche in grado di scorgere la differenza tra due azioni che hanno scopi diversi e che a prima vista possono sembrare identiche. Si può scorgere, ad esempio, la differenza che esiste tra un’attività medica che abbia come scopo il guadagno e un’attività medica, apparentemente identica, che abbia invece come scopo la salute del paziente. Un rapporto sessuale che abbia come scopo primario il piacere, o che nel proprio scopo primario unisca il piacere alla procreazione, è diverso (come la Chiesa sa bene) da un rapporto che invece si proponga come scopo primario la procreazione, e che a un osservatore sommario può sembrare del tutto identico a quello precedente.
Il fine dell’azione umana è dunque ciò per cui essa è quello che è: il fine è l’essenza dell’azione – indipendentemente dal fatto che l’azione sia di piccolo o grande rilievo, sia una singola azione o un’azione costituita a sua volta da un insieme di azioni. Il capitalismo è appunto un’azione, ed estremamente complessa, di quest’ultimo tipo. Il fine del capitalismo è il profitto. E il capitalismo è capitalismo solo in quanto persegue il profitto e il suo indefinito incremento.
Le incertezze della scienza economica sulla definizione del profitto non riguardano il profitto in quanto tale, ma il motivo in base al quale l’imprenditore si appropria di una frazione del sovrappiù sociale (tale motivo essendo stato visto di volta in volta nell’anticipazione del capitale richiesto per la produzione, nello sfruttamento del proletariato, nella necessità di remunerare il lavoro dell’imprenditore o il rischio a cui egli è andato incontro, ecc.). Qualunque possa essere il motivo per il quale il capitalista percepisce il profitto, il fine in vista del quale il capitalista attiva la produzione è di ottenere una quantità di denaro apprezzabilmente superiore a quella impiegata.
Può sembrare che se le cose stanno in questi termini nella prospettiva dell’economia «classica», nella fase moderna della scienza economica (in quella cioè «marginalistica», «soggettivistica») si sostenga invece che anche nell’economia capitalistica lo scopo della produzione è il «consumo» (cioè la soddisfazione dei bisogni). Ma, a parte il fatto che negli sviluppi della scienza economica moderna (si pensi ad esempio a von Neumann) si riconverge verso le posizioni classiche, non è credibile che, quando si accentua l’importanza del consumo nel ciclo produttivo si pensi che lo scopo di un capitalista che produce tessuti sia quello di vestire gli ignudi, e lo scopo di un fabbricante di prodotti alimentari sia quello di dar da mangiare agli affamati. Che i tessuti siano idonei a coprire e gli alimenti a nutrire non è lo scopo dell’attività imprenditoriale, ma una condizione perché lo scopo di tale attività, cioè il profitto, possa essere realizzato.
Una produzione economica che non abbia come scopo il profitto non è dunque capitalismo. In apparenza può anche sembrare identica alla produzione capitalistica; ma un’osservazione rigorosa mostrerebbe la differenza. Si afferma solitamente che dal punto di vista tecnologico la prima fase della produzione capitalistica non differisce da quella feudale. Tuttavia si riconosce che si tratta di due tipi diversi di produzione. E la ragione della differenza è appunto che nell’economia feudale lo scopo della produzione è la vita signorile, cioè il consumo del signore, mentre nell’economia capitalistica lo scopo è il reimpiego del capitale. Eppure, proprio perché lo scopo è diverso, una adeguata osservazione delle tecnologie praticate in queste due forme di produzione e, agli albori del capitalismo, apparentemente non diverse, potrebbe mostrare che la differenza non riguarda solo gli scopi, ma investe le stesse procedure tecnologiche che sembrerebbero identiche. In modo analogo, se esistono condizioni che spingono il capitalismo a darsi un fine diverso dal profitto e dunque a distruggersi, questa situazione è compatibile con l’apparente invarianza delle procedure capitalistiche e con la convinzione degli imprenditori e di tutti gli altri operatori economici di continuare a muoversi sullo stesso terreno. Ma, stiamo dicendo, l’esistenza di quelle condizioni non è una semplice ipotesi.
Il conflitto tra le forze che hanno determinato il crollo del socialismo reale, e che dopo tale evento viene sempre più in primo piano, è appunto una situazione in cui ognuna di tali forze mira a limitare e in definitiva a impedire la realizzazione del fine delle altre. La democrazia si propone di impedire l’onnipotenza del profitto. A volte si ritiene perfino che la dilatazione del salario oltre i limiti entro i quali esso è semplicemente la reintegrazione delle capacità lavorative (una dilatazione che avviene a spese del profitto), sia la base stessa della democrazia. Ma anche senza giungere fino a questo punto, lo scopo della democrazia sono quei valori di uguaglianza e di libertà, che non solo differiscono dal profitto, ma ne richiedono la subordinazione. Ma una produzione economica in cui il profitto sia subordinato ai valori democratici non è più una produzione capitalistica. Anche se nelle «democrazie occidentali» i valori democratici sono fittamente intrecciati alle forme della produzione capitalistica, non solo la democrazia rimane pur sempre qualcosa di diverso dal capitalismo, ma mira essenzialmente a impedire che la società sia guidata dai valori del capitale e che il profitto sia lo scopo dell’attività economica.
A sua volta, la Chiesa cattolica ha ribadito, anche recentemente, che lo scopo della produzione economica non può essere il profitto ma il «bene comune». È un principio centrale della tradizione cristiana, e la Chiesa continua a riaffermarlo. Ma, anche se la Chiesa evita di riconoscerlo esplicitamente, rivendicare il valore di questo principio significa affermare che il capitalismo deve essere messo da parte. Una produzione che miri al «bene comune» della società è ancora più lontana dallo spirito e dalla lettera del capitalismo di quanto non lo sia una produzione economica che, come oggi avviene nei Paesi industrializzati, evita lo scontro aperto con i valori democratici. Se ne avessero la forza, cristianesimo e democrazia, lasciati alla loro logica interna, distruggerebbero il capitalismo. Appunto perché vorrebbero un «capitalismo» orientato a un fine diverso da quello per il quale il capitalismo è quello che è.
Cristianesimo e democrazia non dispongono di questa forza – come ha mostrato di non disporne il socialismo reale. È invece il capitalismo a organizzare la vita sulla Terra, in modo che al profitto sia assicurata la funzione di fine primario che subordina a sé tutti gli altri, anche quelli venerandi della tradizione occidentale. Proprio per questo è il capitalismo che sta riuscendo ad alterare e a corrompere la natura del cristianesimo e della democrazia. Anche il Terzo Mondo è una forza gigantesca che vorrebbe assegnare al capitalismo un fine diverso (incrociandosi così con le aspirazioni del cristianesimo e della democrazia) e cioè la salvezza dell’umanità povera. Ma anche in questo caso il capitalismo ha la forza di subordinare al profitto la volontà di emancipazione dei popoli poveri. I popoli ricchi del Nord del Pianeta (tra i quali vanno annoverati anche i popoli dell’Est, nonostante la crisi economica che stanno attraversando), oltre a disporre della ricchezza, e proprio perché ne dispongono, dispongono anche di una potenza militare ormai invincibile.