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Il dilemma del capitalismo:
conferma della sua esistenza

Il destino del capitalismo è uno dei problemi essenziali del nostro tempo – e ancora più decisivo dopo il crollo del comunismo.

Richiamiamo ancora una volta l’attenzione sul legame che unisce questo problema al principio che lo scopo di un’azione (o di una struttura di azioni) ne determina l’essenza. Nella nostra civiltà è divenuta radicale la convinzione dell’uomo di essere una realtà capace di agire in vista di scopi. È appunto all’interno di questo convincimento che lo scopo di un’azione ne stabilisce e configura i tratti essenziali. Se cambia lo scopo, cambia anche l’essenza e la natura dell’agire, e l’agire orientato allo scopo iniziale non esiste più. Se quell’agire estremamente complesso che è il capitalismo non dovesse più avere come scopo il profitto privato e si orientasse verso uno scopo diverso, il capitalismo non esisterebbe più.

Ma appunto questo sta accadendo: un insieme di forze spinge il capitalismo a darsi uno scopo diverso da quello che gli è proprio. Si sta diffondendo nel mondo – e nella stessa coscienza che il capitalismo ha della realtà – la consapevolezza che la produzione capitalistica della ricchezza porta in breve tempo alla distruzione della Terra. Mantenendo i ritmi e le forme attuali della produzione economica, la Terra sarà distrutta anche senza lo scontro nucleare (ormai del tutto obsoleto) tra capitalismo e comunismo – e nonostante la minore distruttività dell’economia capitalistica rispetto a quella dei Paesi del socialismo reale.

Distruggendo la Terra, il capitalismo oggi vincente distrugge l’apparato scientifico-tecnologico che gli permette di produrre ricchezze e di incrementare il profitto. Distruggendo la Terra, distrugge se stesso. Oggi si riconosce che, contrariamente a quanto pensava Marx, la produzione capitalistica fa aumentare il livello di vita delle masse delle società industriali. È cioè venuto meno il presupposto fondamentale in base a cui Marx credeva che il capitalismo distruggesse se stesso, in quanto, determinando l’immiserimento crescente delle masse, il capitalismo avrebbe prodotto la loro ribellione («gli espropriatori vengono espropriati»). E tuttavia, proprio il consenso di massa di cui il capitalismo sta godendo, proprio l’efficacia dei capitalismo sul piano economico-sociale e la sua capacità di uscire indenne, sul piano teorico, dalle critiche rivoltegli dal marxismo, proprio questo insieme di fattori positivi alimenta un processo produttivo di cui si pensa che devasti la Terra e l’umanità che la abita, e che dunque, se questa convinzione ha valore, distrugge se stesso.

Diffondendosi nel mondo, la consapevolezza dell’«insostenibilità» della forma attuale della produzione economica mobilita quindi le forze che, tentando di evitare la distruzione della Terra, mirano ad assegnare al capitalismo uno scopo diverso da quello che gli è proprio (il profitto), mirano cioè a porre la salvezza della Terra come elemento essenziale, imprescindibile, dello scopo della produzione capitalistica. In questa prospettiva è anzi inevitabile, dato il carattere conflittuale dei due scopi, che il conseguimento del profitto venga subordinato alla salvaguardia della Terra: il profitto non è più lo scopo della produzione economica. La quale dunque – indipendentemente dalle convinzioni soggettive degli imprenditori – non è più una produzione capitalistica (appunto perché guidata da uno scopo diverso dal profitto).

Appunto per questo – si diceva sopra – sembra che il capitalismo si trovi di fronte a un dilemma che comunque venga risolto conduce il capitalismo al tramonto. Infatti, nella sua forma attuale – cioè mantenendo come scopo il profitto e subordinando al profitto la salvaguardia della Terra –, la produzione economica, o distrugge la Terra e quindi distrugge se stessa, oppure alimenta la convinzione (sia pure non giustificata in modo scientificamente rigoroso) che questa forma di produzione abbia un carattere irreparabilmente distruttivo. Ma se questa convinzione, diffondendosi, spinge il capitalismo stesso a convincersi del proprio carattere autodistruttivo e dunque della necessità di subordinare il profitto alla salvezza della Terra, dando quindi alla produzione economica uno scopo diverso da quello attuale, ebbene, anche in questo secondo caso il capitalismo giunge da ultimo alla propria distruzione, distrugge se stesso.

O il capitalismo rimane tale, e perviene «realmente» (cioè dal punto di vista scientifico) all’autodistruzione come conseguenza della distruzione della Terra; oppure si dà uno scopo diverso dal profitto, e anche in questo secondo caso perviene alla distruzione di se stesso. Fra le cose che mirano ad assegnare al capitalismo uno scopo diverso da quello che gli è proprio, si deve dunque annoverare il capitalismo stesso.

Indubbiamente, si può ritenere che la prospettazione di questo dilemma derivi da un modo di pensare molto astratto, e si può obiettare che il dilemma si costituisce solo se ci si dimentica dell’esistenza delle energie alternative: in relazione alle forme attuali di energia sembra proprio che le risorse consumate non siano riproducibili, che l’inquinamento del Pianeta uccida la vita, che il cibo disponibile sia sempre più insufficiente, su scala mondiale, rispetto all’incremento demografico; ma da tale situazione, si aggiunge, si può uscire senza uscire dal capitalismo, appunto perché non è più un’utopia l’uso di energie alternative capaci di evitare quelle disfunzioni: tali energie non devastano la Terra e, insieme, consentono di mantenere come scopo il profitto privato e, anzi, di incrementarlo. La perpetuazione del capitalismo si fonda sullo sviluppo tecnologico.

Eppure il problema non è chiuso. L’adozione delle energie alternative richiede una riconversione industriale di grandi proporzioni; e se il capitalismo ha continuato e continua a rinnovare le proprie strutture industriali, altro è operare la riconversione per incrementare il profitto, altro è operarla perché altrimenti la produzione economica distrugge la Terra e quindi se stessa. Nel primo caso, poiché lo scopo della riconversione rimane il profitto, il capitalismo continua ad essere capitalismo. E nel secondo caso?

Certamente, il capitalismo non vuole salvare se stesso per salvare la Terra, ma vuole salvare la Terra per salvare se stesso. Se si convincesse che la forma attuale della sua produzione economica distrugge la Terra e quindi che praticando tale forma distrugge se stesso, il capitalismo, come ogni altro soggetto di azione, si farebbe guidare in modo esplicito dall’istinto di sopravvivenza da cui è sempre stato implicitamente guidato.

Quando si dice che un’azione ha un certo scopo, non si deve dimenticare che lo scopo specifico di un’azione è inscritto nello scopo generico dell’agire, ossia nello scopo che è comune ad ogni azione, e che è appunto la volontà di esistere, di perpetuarsi, cioè la volontà e l’istinto di conservazione. Lo scopo generico è la volontà di realizzare la condizione fondamentale perché lo scopo specifico possa avverarsi – ossia, nel caso dell’agire capitalistico, è la volontà che tale agire si perpetui e non vada distrutto, sì che possa venir realizzato il suo scopo specifico, cioè il profitto. E le istanze dell’ecologismo potranno convincere l’impresa capitalistica alla riconversione del suo apparato industriale solo quando l’impresa crederà nel vantaggio economico dell’operazione – così come in passato gli appelli umanitari per evitare lo sfruttamento degli operai hanno convinto il capitalismo solo quando esso si è reso conto che il perfezionamento del macchinario, il cui sottoprodotto era il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’elevazione del salario, avrebbe consentito un maggior incremento del profitto. (E non è il caso che la cultura capitalistica se lo nasconda, visto che l’intento egoistico dell’intrapresa capitalistica ha favorito il «benessere» dei lavoratori molto di più che quelle forme di azione politica che, come il comunismo, tale «benessere» se lo proponevano esplicitamente.)

Ebbene, la volontà del capitalismo di salvare la Terra per salvare se stesso, non solo è qualcosa di essenzialmente diverso dalla volontà di salvare la Terra per salvare la Terra, ma queste due forme di volontà sono antitetiche, e quindi tendono a indebolirsi e a elidersi vicendevolmente. Intendo dire che ogni riconversione dell’industria, che abbia come scopo la salvezza del capitale è inevitabilmente destinata a subordinare a tale scopo la salvezza della Terra, e quindi finisce col pregiudicarla. Che questo debba accadere non è un’affermazione che ha bisogno di essere giustificata dalle forme specifiche del sapere scientifico, ma è una conseguenza di quella logica del rapporto mezzo-fine che il capitalismo incorpora in sé (e che d’altra parte è presupposta dal sapere scientifico, la cui forma di razionalità fa parte a sua volta dell’insieme di convinzioni senza di cui il capitalismo non potrebbe sussistere). Se, dunque, lo scopo è il profitto – se cioè il capitalismo salva la Terra per salvare se stesso –, è inevitabile che la salvezza della Terra divenga uno scopo subordinato allo scopo primario del profitto, e cioè divenga un mezzo per la realizzazione dello scopo. Ma ogni mezzo deve non ostacolare, bensì servire alla realizzazione dello scopo; e ogni mezzo serve, in quanto viene consumato affinché lo scopo si realizzi. Ma (e questa volta dal punto di vista stesso della scienza) la consunzione ha un punto di non ritorno, oltre il quale essa diventa inevitabilmente distruzione di ciò che va consumandosi. Rendendosi conto del punto-limite della consunzione del mezzo, il capitalismo non può più salvare la Terra per salvare se stesso, ma o cessa di agire e di esistere, oppure deve salvare la Terra per salvare la Terra. Cioè deve rinunciare a se stesso, giacché, anche se vuole continuare a esistere, deve realizzare il profitto come mezzo (dunque consumabile) per assumere come scopo la salvezza della Terra.

Il capitalismo ha vita lunga (ma più breve di quanto si creda), perché ha la possibilità di ritardare l’esito distruttivo della propria attività. Ma è inevitabile che per il capitalismo giunga un momento cruciale in cui gli divenga evidente che tale esito non può più essere ritardato e rinviato, e che la forma di produzione che salva la Terra con l’intento di salvare se stessa sta giungendo al punto di non ritorno, ossia è in procinto di avviare un processo irreversibile di distruzione della Terra e di se stessa.

È a questo punto che, se l’uomo – e lo stesso elemento umano che guida il capitalismo – vorrà continuare a vivere, dovrà dare alla produzione economica uno scopo diverso dal profitto privato. È cioè a questo punto che il capitalismo, proprio per non distruggere la Terra e quindi se stesso, dovrà rinunciare al proprio scopo specifico, ossia dovrà rinunciare a se stesso. E cioè, daccapo, dovrà distruggere se stesso. Il dilemma che sopra è stato prospettato rimane insuperabile. Soprattutto su di esso sarà chiamata a riflettere l’analisi della società contemporanea.

Tuttavia non si può escludere l’ipotesi che lo sviluppo della scienza e della tecnica metta a disposizione del capitalismo energie sempre meno inquinanti e infine assolutamente non inquinanti. L’energia pura, pertanto, salverebbe la Terra, e la salvezza della Terra, sembra, sarebbe sì il mezzo per realizzare il profitto, ma, questa volta, un mezzo che, appunto per la disponibilità illimitata di energie non distruttive, non sarebbe consumato per la realizzazione dello scopo. Capitalismo e salvezza della Terra potrebbero convivere.

Ma in questa situazione – nella quale, certamente, il dilemma sopra considerato non sussisterebbe più – il destino del capitalismo verrebbe a dipendere dalla tecnica e dalla scienza, come si è rilevato nella prima parte del capitolo precedente. Il capitalismo si rapporterebbe allo sviluppo della tecnica come a ciò che non dovrebbe essere ostacolato da alcunché, e dunque nemmeno dalla volontà di profitto, e che quindi si porrebbe come lo scopo primario della produzione economica. Pertanto, il capitalismo dovrebbe, insieme, assumere e non assumere come scopo primario lo sviluppo della tecnica. Dovrebbe così assumerlo, appunto perché da esso dipenderebbe la sopravvivenza del capitalismo; ma, per non rinunciare a se stesso, il capitalismo dovrebbe anche non assumerlo come scopo primario. Ma per uscire da questa contraddizione, il capitalismo non potrebbe rinunciare direttamente e immediatamente a se stesso e dovrebbe quindi illudersi di poter sopravvivere anche quando lo scopo primario dell’attività produttiva fosse la produzione dello sviluppo della tecnica, da cui dipende la sua sopravvivenza. Dovrebbe illudersi di sopravvivere anche quando ciò che domina non fosse più il capitalismo, ma la tecnica.