La tensione Usa-Urss ha favorito degli interessi economici – sia all’Ovest, sia all’Est. È ovvio. Nel mondo occidentale, la «corsa agli armamenti» ha arricchito soprattutto le imprese legate all’organizzazione della guerra; nel mondo sovietico ha rafforzato i privilegi dei ceti sociali preposti a tale organizzazione. È anche questo è ovvio: che chi trae vantaggio da una certa situazione agisce per perpetuarla, tanto più intensamente quanto più gli è vantaggiosa. Ovvio, dunque, che sia all’Est sia all’Ovest esistessero forze miranti a perpetuare la guerra fredda e la corsa agli armamenti – forze di grandi proporzioni, dato il peso che l’organizzazione della guerra ha nell’economia mondiale.
Si riflette invece di meno sulla circostanza che, se così stanno le cose, la fine della guerra fredda non ha determinato soltanto il tracollo del comunismo, ma ha anche messo in crisi quel grande settore del mondo capitalistico che traeva i propri benefici dalla tensione tra capitalismo e comunismo, e che era divenuto il fattore trainante dell’intera economia occidentale.
Non intendo certo, con questo, sostenere che gli Stati Uniti (e il mondo occidentale) stiano andando verso il disarmo. Il mondo ricco ha attorno a sé troppi nemici perché possa rinunciare alla propria potenza. In questa condizione si trova anche la Csi, che nonostante i problemi economici attuali, appartiene al club dei ricchi e non può rinunciare alla potenza militare che le consente di rimanervi.
Ciò nonostante, con la fine della guerra fredda, sia all’Ovest sia all’Est l’organizzazione della potenza militare e la produzione di ricchezza che ne deriva stanno subendo una profonda trasformazione, che nel mondo occidentale mette in crisi uno dei settori più importanti dell’economia capitalistica, quello che ha tratto i maggiori vantaggi dalla tensione Est-Ovest e che quindi mirava a perpetuarla.
Si deve quindi ritenere che l’azione degli Usa che ha condotto al crollo dello Stato comunista sia l’espressione di forze economiche diverse da quelle interessate al mantenimento della tensione. È difficile sostenere che tale azione non sia stata l’espressione di queste altre forze e che il crollo dell’ideologia comunista (ossia della fonte principale della tensione con il mondo capitalistico) sia stato un evento non previsto e non calcolato dalle forze economiche interessate alla sopravvivenza dell’avversario dell’Est. Il programma dello «scudo spaziale», avviato da Ronald Reagan, ha segnato infatti un salto di qualità, cioè ha condotto da una configurazione della tensione Usa-Urss, dove l’Urss poteva ancora reggere la competizione e sopravvivere come avversario, a una diversa configurazione della tensione, dove l’Urss, pur rimanendo superpotenza atomica, non avrebbe più potuto reggere il confronto con l’economia capitalistica e avrebbe dovuto rinunciare alla lotta, lasciando in eredità a uno Stato postcomunista la propria potenza (che sul piano dell’offesa atomica è peraltro tuttora competitiva con quella americana).
Questa seconda configurazione della tensione Usa-Urss ha cioè mobilitato negli Stati Uniti risorse economiche, il cui scopo è antitetico a quello delle risorse mobilitate dalla prima configurazione della tensione. È certamente possibile che negli Usa i settori occupati da questi due tipi di risorse siano, oltre che intercomunicanti, ampiamente coincidenti. Ma anche se il settore economico che organizza la forma «tradizionale» della tensione fosse fortemente integrato a quello mobilitato dal progetto dello «scudo spaziale» e delle «guerre stellari» rimane il carattere antitetico degli scopi perseguiti dai due settori, la cui diversità è dunque irriducibile. Rimane cioè fermo che il crollo del comunismo ha determinato, nell’economia statunitense, il crollo del settore «tradizionale» – quello cioè che organizzava la tensione con l’Urss in modo di consentire e anzi salvaguardare la sopravvivenza dell’avversario.
L’altro settore, invece, ha un futuro, sia perché, anche se il comunismo è crollato, rimane, sempre più minacciosa, la pressione del Terzo Mondo, sia perché può diventare uno dei principali campi di collaborazione tra Ovest ed Est. Rispetto alla proliferazione atomica del Terzo Mondo è inutile rafforzare ulteriormente l’arsenale atomico esistente nel Nord del Pianeta, più che sufficiente a rispondere con successo a qualsiasi coalizione atomica dei Paesi poveri, e nell’allestimento del quale si è impegnato, negli Usa, il settore «tradizionale» dell’organizzazione della tensione.
Che la vittoria delle democrazie occidentali sul comunismo abbia leso, nel mondo capitalistico, interessi economici di grande consistenza, è un fatto da non trascurare nel chiarimento dei motivi per i quali gli Stati Uniti hanno penalizzato, in modo apparentemente paradossale, il presidente che li ha condotti alla vittoria sul comunismo, sviluppando la politica di Reagan. È in atto, all’interno dell’economia statunitense, uno scontro di grandi proporzioni tra il settore «tradizionale» – che non trova conveniente la riconversione del proprio sistema produttivo, basato soprattutto sull’allestimento dell’attrezzatura atomica – e il settore più avanzato (in cui fa sentire la sua voce il tipo di tecnologia prodotta dal Giappone), che, anche per disfarsi del concorrente, ha fatto proprio il principio che il prolungamento della tensione Est-Ovest conduce inevitabilmente alla distruzione atomica dell’umanità – e che si evita questo pericolo predisponendo un sistema di difesa che l’economia dell’avversario non abbia la capacità di realizzare. È difficile negare che lo scontro tra questi due settori, che sembra ormai risolto in favore del secondo, appartenga alla sostanza della crisi economica che il mondo capitalistico sta attraversando dopo la fine della guerra fredda.
In termini ecologico-energetici, si può dire che all’Ovest e all’Est è prevalso il convincimento che la produzione della sicurezza delle società del Nord del Pianeta non può più essere affidata all’accumulazione militare dell’energia atomica, in procinto di portare a quella forma estrema di «inquinamento» che è la stessa distruzione nucleare dell’umanità ricca. Gli Usa si sono convinti che la sicurezza deve essere affidata a una forma di energia «pulita», quella utilizzata appunto nella strategia dello «scudo spaziale». Tale convinzione ha condizionato e insieme è stata condizionata dal fatto che la corrente principale della conflittualità planetaria non procede più da Est a Ovest, ma da Nord a Sud – come lo stesso Eltsin ha riconosciuto, proponendo la collaborazione di Russia e America per la realizzazione di quella strategia.
Analizzare in termini ecologico-energetici la fine della tensione Usa-Urss significa vedere in luce più chiara il modo in cui è destinata a risolversi la «tensione» che sussiste tra la forma attuale della produzione economica – ossia tra la forma di energia attualmente impegnata – e la sopravvivenza della Terra e dell’uomo.
Come il ritmo di produzione di armi nucleari conduce, se mantenuto, alla distruzione della Terra, così a tale distruzione si perviene se la produzione economica continua nelle forme attuali. Si può allora credere che come i popoli ricchi del Pianeta, sia pure a prezzo di una profonda crisi economica, possono imboccare la strada che, mediante l’adozione di una forma alternativa di energia, evita la distruzione nucleare, così essi possono evitare la distruzione dovuta alla produzione economica «pacifica», adottando energie alternative non inquinanti e mantenendo in vita la produzione economica di tipo capitalistico.
Il sottinteso di questa opinione è che tali energie possano essere sempre disponibili. Ma è anche possibile che accada l’opposto, e che il capitalismo si renda conto di provocare la distruzione della Terra e quindi di se stesso. Il «dilemma» del capitalismo – abbiamo rilevato – è o distruggere «realmente» la Terra, distruggendo quindi se stesso, oppure convincendosi del carattere distruttivo del proprio agire, assumere come scopo la salvezza della Terra e non il profitto, anche in questo secondo caso distruggendo se stesso. È vero che tale dilemma è insuperabile in relazione alla situazione – che peraltro è la più probabile – in cui le energie alternative non inquinanti non siano sempre disponibili. Ma al termine del capitolo precedente è stata affrontata anche la questione di principio, e cioè a quale sorte andrebbe incontro il capitalismo, se si trovasse nella felice circostanza di poter disporre in continuazione di energie sempre meno distruttive. Anche in questo caso, abbiamo incominciato a rilevare, il capitalismo dovrebbe rinunciare a se stesso. Un’ulteriore giustificazione di quest’ultimo asserto è indicata nel capitolo seguente.