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Il conflitto tra capitalismo e tecnica

A Rio de Janeiro, la Conferenza mondiale sull’ambiente si è chiesta fino a che punto il sistema attuale della produzione economica distrugga la Terra. L’area conservatrice del capitalismo americano aveva suggerito a Bush di non partecipare al vertice ecologico brasiliano: consumismo e capitalismo non sono distruttivi. Il punto è però controverso. Non solo in sede politica ed economica, ma anche scientifica.

Tuttavia la convinzione che la forma attuale dello sviluppo economico condurrà in breve tempo alla distruzione totale della vita sta diffondendosi. Tale convinzione non ha certo l’appoggio di tutti e forse nemmeno della maggior parte degli scienziati qualificati; ciò nonostante essa può spingere le società ricche del Pianeta a impedire che lo scopo primario della produzione economica sia il profitto privato, e a far sì che tale scopo consista invece nella salvaguardia della Terra.

È comprensibile pertanto che le forze conservatrici del capitalismo intendano squalificare sia la convinzione che la produzione economica sta distruggendo la Terra, sia iniziative come la Conferenza di Rio de Janeiro, dove tale convinzione può diventare trascinante. D’altra parte, in occasione del summit brasiliano una voce insospettabile come la Banca mondiale ha dichiarato nel modo più esplicito che la lotta contro la povertà non può essere separata dalla protezione dell’ambiente, e ha consigliato una mossa sostanzialmente riconducibile a quella concezione economica keynesiana che l’attuale cultura capitalistica sente come il fumo negli occhi: la presenza «essenziale» di «forti istituzioni pubbliche e politiche» che, questa volta, proteggano l’ambiente dalla produzione incontrollata e devastante.

Il «dilemma» (richiamato anche al termine del capitolo precedente) di fronte al quale il capitalismo si trova, si riferisce appunto al carattere distruttivo della forma attuale della produzione capitalistica. Ed è su questo piano che oggi si gioca la partita. Essa, tuttavia, diventa ancora più decisiva se si considera il destino del capitalismo non soltanto in relazione al suo presumibile carattere distruttivo, ma anche in relazione alla possibilità che la produzione capitalistica adotti forme sempre più pulite di energia, rese disponibili dallo sviluppo tecnologico. Anzi, in linea di principio non si può escludere che la produzione capitalistica riesca a non esser più in alcun modo inquinante. Non si tratta di prestare attenzione a ipotesi lontane dallo stato presente del mondo, ma di non ridurre l’analisi del capitalismo agli aspetti distruttivi della sua forma di produzione.

Dopo il crollo del comunismo non viene in primo piano soltanto il conflitto tra il capitalismo e le altre forze che oggi intendono guidare il mondo – democrazia, cristianesimo, movimenti ecologici –: il capitalismo si trova in conflitto con lo stesso strumento che gli consente una vertiginosa moltiplicazione del capitale: la tecnica. Il capitalismo si trova in conflitto cioè con la forza che più delle altre può pretendere di porsi alla guida del mondo. La tecnica – cioè il sistema di strumenti organizzati secondo i criteri della razionalità scientifica e costituenti quella complessa struttura di prestazioni, non solo tecnologiche in senso stretto, ma anche giuridiche, burocratiche, istituzionali, militari, sanitarie, scolastiche e certamente anche economiche, che formano l’apparato scientifico-tecnologico.

Il capitalismo è in conflitto con la tecnica, perché mentre l’apparato della tecnica tende a ridurre il più possibile la scarsità, il capitalismo deve perpetuarla. Lo scopo che tale apparato possiede di per se stesso è l’incremento indefinito della propria potenza, cioè della propria capacità di realizzare scopi. E la scarsità di beni è una forma di impotenza; che dunque l’apparato tende a ridurre il più possibile. Il capitalismo, invece, è un modo di produrre ricchezza in una situazione di scarsità. Se quindi vuole sopravvivere, deve perpetuare la scarsità. In un mondo dove lo sviluppo della tecnica eliminasse la scarsità – cioè consentisse di avere a disposizione i beni economici mediante l’impiego di una quantità di capitale e di lavoro considerevolmente inferiore a quella richiesta dall’economia capitalistica –, quasi tutti potrebbero essere imprenditori, ed essere nel contempo lavoratori per svolgere la quantità minima di lavoro richiesta dall’alto sviluppo tecnologico. In questa situazione il profitto, così estesamente distribuito, non sarebbe più qualcosa di appetibile: la sua appetibilità consiste nella sua capacità di far avere quello che la maggior parte del prossimo non riesce ad avere.

Per sopravvivere, il capitalismo deve dunque frenare, a un certo momento, lo sviluppo tecnologico: deve controllarlo in modo da impedire che esso metta tutti su un piano di parità economica. Se non vorrà limitare la potenza della tecnica e intenderà d’altra parte sopravvivere, il capitalismo dovrà trasformarsi in una ideologia palesemente repressiva, in nome della quale una ristretta minoranza estromette la maggioranza dal controllo dell’apparato scientifico-tecnologico e la estromette in modo essenzialmente diverso da quello che oggi sta verificandosi. Oggi infatti, anche al Nord del Pianeta, la maggioranza della popolazione non dispone dei capitali richiesti dalla forma attuale della concorrenza (e appunto per questo può accadere che in America si ritenga ancora accettabile che l’1% abbia una ricchezza superiore a quella del 90% della popolazione); mentre nella situazione ora ipotizzata, dove lo sviluppo tecnologico sarebbe così elevato da eliminare la scarsità, tutti o quasi tutti avrebbero il capitale necessario per giungere all’elevato tenore di vita consentito da quello sviluppo, e tuttavia sarebbe loro impedito di giungervi.

Il capitalismo è una procedura economica volta a realizzare benefici considerevolmente superiori a quelli goduti dalla maggioranza. Un imprenditore che guadagni come un impiegato statale non è un capitalista povero, ma un capitalista fallito (anche se, in un futuro più o meno remoto, il tenore di vita di un impiegato statale fosse simile a quello di un imprenditore del nostro tempo). Uno sviluppo tecnologico che consentisse a tutti di vivere come oggi vivono i ricchi, vanificherebbe l’impulso principale dell’intrapresa capitalistica, cioè la volontà di avere più ricchezza e più potere degli altri.

Proprio perché il capitalismo deve limitare lo sviluppo della tecnica, diventa improponibile il principio che la proprietà privata dei mezzi di produzione (e in generale la proprietà privata in quanto tale) sia la condizione imprescindibile dell’efficacia della produzione economica (anche se questo principio rimane sostanzialmente valido nel confronto tra l’economia capitalistica e le varie forme di economia pianificata). I cosiddetti fondamenti etico-giuridici della proprietà privata non hanno alcun valore assoluto: il nostro è il tempo della morte di ogni verità assoluta e quindi nemmeno quei fondamenti possono avere una tale verità: essi possono soltanto rafforzare (con motivazioni controvertibili) la volontà di tenere in vita la proprietà privata.

Con rilievi sopra sviluppati non abbiamo semplicemente considerato un’ipotesi che riguarda il futuro e insegna poco al presente. Rispetto al Terzo Mondo, tutto il Nord del Pianeta è l’area dove lo sviluppo tecnologico è così elevato da consentire già oggi di risolvere i problemi della sopravvivenza dell’umanità intera; e dove il capitalismo è l’ideologia repressiva, sostanzialmente condivisa dalle popolazioni del Nord, per la quale la minoranza costituita da tali popolazioni estromette il resto del mondo dal controllo dell’apparato scientifico-tecnologico. È del tutto improbabile che i ricchi rinuncino ai loro privilegi.

Ma è anche evidente che il capitalismo è inseparabile dall’ideologia che lo spinge a sopravvivere e prevalere. Ha infatti un carattere ideologico, politico, sia la volontà di frenare lo sviluppo e la potenza della tecnica, sia la volontà di estromettere la maggior parte del mondo dal controllo di tale sviluppo, sia la forma attuale della produzione, che conduce alla distruzione della Terra e dello stesso capitalismo.

D’altra parte sono già ben visibili i segni che la politica e le ideologie sono al tramonto. Per sopravvivere nei Paesi dell’Est, l’apparato della tecnica ha dovuto separare la propria sorte dall’ideologia marxista. Non si profila dunque qualcosa di simile a proposito dell’ideologia capitalistica?

Quindi, da un lato (cfr. capp. 9, 10), la sopravvivenza del capitalismo dipende dallo sviluppo della tecnica, perché è in forza di esso che sono rese disponibili quelle energie non inquinanti senza le quali il capitalismo non potrebbe uscire dal «dilemma» indicato nei capitoli precedenti. Per questo primo lato, il potenziamento della tecnica diventa lo scopo primario della produzione economica e quindi il capitalismo scompare.

Dall’altro lato, il capitalismo deve indebolire e frenare lo sviluppo tecnologico, perché, come si è visto in questo capitolo, deve evitare che tale sviluppo elimini la scarsità e quindi dissolva la convenienza economica dell’attività imprenditoriale. Per questo secondo lato, il capitalismo deve cioè indebolire lo strumento da cui ormai dipende la sopravvivenza dell’uomo, di ogni attività economica e dunque del capitalismo stesso. Per questo secondo lato, il capitalismo deve indebolire se stesso. Questi due lati sono tra di loro in contraddizione e formano un superiore «dilemma» di fronte al quale il capitalismo viene a trovarsi.

Ritornando ora al primo dei due lati di cui si è ora parlato, va aggiunto che il potenziamento della tecnica, a cui il capitalismo è costretto, è determinato anche dalla situazione conflittuale in cui l’agire capitalistico si trova, rispetto ai propri avversari (cfr. E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo, cit., II; La filosofia futura, cit., Parte seconda) – sia rispetto a quelli «ideologici», sia rispetto a quelli costituiti dalla stessa concorrenza capitalistica. In questa situazione conflittuale l’agire capitalistico deve incrementare, per prevalere, la potenza dell’apparato della tecnica e non ostacolarne la crescita anteponendogli il proprio scopo ideologico (il profitto). Lo scopo ultimo del capitalismo – come di ogni forza che trovandosi oggi in conflitto con le altre intenda prevalere servendosi della potenza della tecnica – diventa pertanto, inevitabilmente, l’incremento indefinito della potenza della tecnica. Anche l’esigenza di non distruggere la Terra è un avversario della volontà di profitto, che il capitalismo può neutralizzare affidando alla tecnica il compito di assicurare energie sempre meno inquinanti e cioè affidando la propria sorte e salvezza alla tecnica.

Ma chi viene salvato deve assumere come scopo primario la potenza del salvatore. Se il salvatore fallisce non c’è salvezza. Ma se lo scopo primario di chi è salvato è la potenza del salvatore, chi viene salvato non è più chi voleva salvarsi; è diventato qualcosa di diverso. Proprio perché la tecnica salva, chi è salvato non è salvato: ha perduto la propria anima, cioè il proprio scopo. Si può salvare la propria anima solo perdendola. (Accade lo stesso anche quando l’uomo vuole ottenere la propria salvezza mediante la grazia di Dio: l’uomo non deve porre ostacoli alla potenza della grazia, deve assumerla come scopo primario, aprirsi incondizionatamente ad essa, giacché solo nel trionfo della grazia egli può ottenere la propria salvezza. Lo scopo primario diventa così la potenza e il trionfo della grazia divina. Come distinta e autonoma rispetto alla grazia, la salvezza dell’uomo diventa uno scopo subordinato, anzi, diventa uno scopo evitato. Così come diventa uno scopo evitato la volontà di profitto come distinta e autonoma rispetto alla potenza salvifica della tecnica. L’uomo aveva incominciato col voler salvare se stesso, e finisce col volere che sia fatta la volontà di Dio – o della Tecnica.)