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«Obiettivi complementari»

Con Al Gore, Clinton sostiene che «è un’alternativa falsa» quella per la quale un’economia forte è incompatibile con le preoccupazioni per l’ambiente. «Il conseguimento di un’economia sana e di un ambiente sano sono obiettivi complementari, non contraddittori.» Questa tesi è sostenuta nell’articolo scritto da Bill Clinton per «The Earth Times» e il «Corriere della Sera» poco dopo la sua elezione a presidente degli Stati Uniti.

Una tesi che farà piacere a una parte e dispiacerà a un’altra parte del capitalismo mondiale. Farà piacere ai gruppi industriali che producono tecnologie non inquinanti o addirittura disinquinanti, oppure possono permettersi o hanno convenienza a effettuare una riconversione del loro sistema produttivo mirata alla salvaguardia dell’ambiente. Non farà piacere a tutti gli altri, cioè a quelli organizzati in modo che per essi la produttività economica è effettivamente incompatibile con le preoccupazioni per l’ambiente.

La mossa di Clinton dà comunque un rilevante contributo a quel rimescolamento gigantesco delle forze produttive del capitalismo, che prima ha deciso la fine della guerra fredda e ora pone la produzione economica di fronte all’esigenza di salvare la Terra. Già la strategia reaganiana dello «scudo spaziale», oltre a mettere in ginocchio l’apparato militar-industriale dell’Urss, ha determinato la crisi del settore dell’industria americana che aveva legato la propria fortuna alla perpetuazione della contrapposizione nucleare. Ora il rimescolamento si accentua perché, se si dà ascolto a Clinton, la riconversione industriale si estende dall’industria bellica a tutto il sistema produttivo. La tesi di Clinton non è utopica solo se egli può contare su una parte consistente del capitalismo americano.

È comunque una tesi pericolosa per il capitalismo. Proprio perché essa, che non è affatto nuova, vien fatta valere dal nuovo presidente e dal nuovo ceto dirigente americano. Clinton e Al Gore – rovesciando completamente l’atteggiamento tenuto dagli Usa e da Bush alla Conferenza di Rio sull’ambiente – sollecitano le forze produttive a trasformarsi perché, se così come sono attualmente sono distruttive ed economicamente malate, esse devono rendersi conto che ambiente sano ed economia sana sono «obiettivi complementari, non contraddittori».

Ma economia sana vuol dire tutela e crescita del profitto. Si tratta di comprendere che un «obiettivo» non rimane lo stesso quando è perseguito come unico scopo e quando è perseguito insieme a un altro «obiettivo» che gli sia «complementare».

Uno può uscire di casa per fare del moto. Se questo è il suo unico obiettivo, non farà altro. Ma si può uscire di casa per fare del moto e insieme per fare degli acquisti. Se i negozi non sono troppo lontani questi due obiettivi non sono contraddittori ma complementari. Tuttavia gli acquisti ridurranno il moto, e viceversa. Il moto, come unico obiettivo, non è cioè il moto che è praticato insieme a quell’obiettivo complementare che sono gli acquisti.

Analogamente, l’economia sana, come unico obiettivo dell’attività economica, non è l’economia sana come obiettivo perseguito insieme a quell’obiettivo complementare che è l’ambiente sano. Questi due obiettivi, come tutti gli altri obiettivi complementari, si riducono, si limitano, si frenano a vicenda. Il capitalismo è la volontà che il profitto non sia limitato, frenato, ridotto da alcunché. Perseguire il profitto insieme a qualche altro obiettivo complementare – come la salvaguardia della Terra, o la democrazia, o il «bene comune» – significa quindi uscire dal capitalismo. Appunto per questo l’atteggiamento di Clinton e del nuovo ceto dirigente democratico non potrà non essere percepito come una minaccia dell’ordinamento capitalistico.

Nel suo articolo Clinton affermava che sta sempre più crescendo – nei Paesi sottosviluppati e in quelli che si sono sviluppati troppo rapidamente, come il Messico, a spese dell’ambiente – la domanda di attrezzature, tecnologie, servizi che alimentino la crescita economica senza distruggere l’ambiente. E la salute dell’economia americana – egli aggiunge – dipende dalla sua capacità di soddisfare questo tipo di domanda. In questo modo – sembra voler dire Clinton – l’incremento del profitto sarebbe così complementare alla salvaguardia dell’ambiente da coincidere addirittura con essa. Si aumenterebbe il profitto proprio producendo la salute dell’ambiente. Come se uno riuscisse a fare del moto anche e proprio mentre fa degli acquisti.

Tuttavia, fare degli acquisti per fare del moto non è la stessa cosa che fare del moto per fare degli acquisti. Sentir musica per stare in compagnia di una donna a cui piace la musica non è la stessa cosa che stare in compagnia di una donna per sentir musica. Mangiare per vivere non è la stessa cosa che vivere per mangiare. Produrre la salute dell’ambiente per incrementare il profitto non è la stessa cosa che incrementare il profitto per produrre la salute dell’ambiente: nel primo caso il capitalismo continua a vivere, nel secondo no. Ma nel primo caso è inevitabile che la volontà di incrementare il profitto finisca col mettere a repentaglio la salute dell’ambiente (così come prima o poi una donna si stanca di essere il pretesto, o il mezzo, per ascoltar musica).

Clinton non prevede tutto questo e quindi non dice nemmeno per quale di quei due casi propende. La logica del suo discorso vorrebbe che egli si dichiarasse favorevole a entrambi. Ma è impossibile. Non si può mangiare per vivere e, insieme, vivere per mangiare. Se si pensa che vivere e mangiare siano obiettivi complementari, si ritorna alla situazione precedentemente considerata, nella quale gli obiettivi complementari si limitano a vicenda, e dove la salute economica, perseguita come unico obiettivo, è qualcosa di diverso dalla salute economica perseguita insieme alla salute dell’ambiente. La preoccupazione per questa seconda salute mette in questione il capitalismo. Gli ecologisti non se ne rendono conto. Non se ne rendono conto nemmeno Clinton e Al Gore; ma è inevitabile che prima o poi si percepisca che tutti gli obiettivi complementari sono contraddittori e che parlare di più scopi complementari equivale a dire che un convoglio si muove contemporaneamente verso sud e verso nord. Non si possono servire contemporaneamente due padroni.

Prima o poi il capitalismo si renderà conto che la propria forma di produzione finisce col distruggere la Terra e, con la Terra, se stessa. Come ogni attività, anche il capitalismo si è sviluppato e ha perseguito il proprio obiettivo sulla base del presupposto che la propria attività produttiva non distrugge se stessa. L’assenza di questa autodistruttività è sempre stata intesa dal capitalismo come una «condizione naturale», e sulla base di tale convinzione il capitalismo ha perseguito il profitto. Ma questa «condizione naturale» sta sempre più manifestandosi come qualcosa di non naturale – tanto che la produzione economica sta orientandosi verso un tipo di produzione che mira a realizzare, essa, quello che invece dovrebbe essere un prerequisito, ossia mira a evitare, essa, quell’autodistruttività della produzione economica che invece dovrebbe essere una «condizione naturale». Ma quando la produzione economica si propone di non essere autodistruttiva, essa è già qualcosa di diverso da quello che essa è quando il suo scopo è il profitto e l’assenza di autodistruttività è un prerequisito e una precondizione naturale del perseguimento del profitto. Appunto per questo vado dicendo da qualche tempo che è il capitalismo a determinare la fuoriuscita dal capitalismo, e che il pericolo maggiore per il capitalismo è il capitalismo stesso.

Le elezioni presidenziali americane hanno confermato la crisi delle forze che sono sì uscite vincenti dalla lotta contro il socialismo reale, ma che dopo la vittoria hanno accentuato la loro reciproca incompatibilità e conflittualità. Che nelle elezioni americane la crisi abbia investito il fondamentalismo della destra repubblicana, cioè l’aspetto più radicale e più vistoso del cristianesimo nordamericano, è il lato meno sorprendente della situazione. Il tramonto del cristianesimo è in atto da tempo e solo la confusione tra l’onda lunga e l’onda corta degli eventi può far pensare che l’attuale vigore della Chiesa cattolica costituisca l’inversione della tendenza a lungo termine che porta il cristianesimo al tramonto. Il successo di un Ross Perot, che non vede alcuna differenza sostanziale tra un’azienda e uno Stato, e che si è opposto sia ai democratici sia ai repubblicani, mostra che è in crisi anche la politica, e anzi la democrazia stessa come forma attualmente vincente della politica. E l’affermazione elettorale è toccata a un Clinton che si era lasciato alle spalle la problematica più propriamente «politica» dei democratici (ossia quella dei democratici «liberali») e che aveva posto al centro la questione del risanamento dell’economia americana. Ma la mossa di Clinton a proposito della necessità di concepire l’economia sana come obiettivo complementare alla salute dell’ambiente è un segnale importante che la crisi sta investendo lo stesso capitalismo.

Gli equivoci sul carattere complementare degli «obiettivi» possono essere illustrati anche nel modo seguente. Questa volta non si tratta della complementarietà tra economia forte e tutela dell’ambiente, ma della complementarietà tra efficienza economica e solidarietà.

Prima del convegno di Cernobbio del settembre ’93, Mario Monti ha illustrato sul «Corriere della Sera» (3.9) il suo progetto di «come dovrà essere organizzata e gestita l’economia dei prossimi anni» in Italia. Ha cioè indicato un insieme di «obiettivi» da realizzare. E mi sembra che abbia ricondotto la molteplicità degli obiettivi (ad esempio l’eliminazione del disavanzo corrente, degli impieghi improduttivi del capitale e del lavoro, l’eliminazione del consociativismo, la solidarietà «vera», coperta con tasse e non con spese sociali in disavanzo e con prezzi politici) a due obiettivi primari: la capacità di competizione con i Paesi europei economicamente più avanzati e con quelli del Nord America e dell’Asia – capacità in assenza della quale «senza volerlo prepariamo l’Italia a un futuro di disoccupazione» –; e «gli obiettivi di solidarietà», non perseguendo i quali rinunceremmo a valori che «sono parte importante del nostro patrimonio culturale».

Al convegno di Cernobbio, l’implicazione di efficienza e solidarietà è stata sostenuta anche dal presidente di Confindustria Luigi Abete, per il quale è indispensabile (sebbene come uno degli «elementi fondamentali» della forma che il capitalismo deve assumere) «la definizione dei livelli di solidarietà compatibile e necessaria per lo sviluppo economico»: sviluppo (cioè efficienza) e solidarietà «devono alimentarsi in una circolarità virtuosa. Fino a ieri si poteva dire che lo sviluppo era la premessa della solidarietà, perché senza accumulazione non è possibile alcuna redistribuzione, ma oggi bisogna anche dire che la solidarietà è la premessa per lo sviluppo, perché senza la coesione sociale che deriva dalla partecipazione a un sistema solidale non è possibile sviluppo» («Il Sole-24 ore», 4.9).

Anche se l’osservazione può sembrare molto «astratta», va detto che ogni prospettazione di obiettivi presuppone che si sappia che cos’è un «obiettivo», cioè uno scopo, e cosa significa proporselo. Un’osservazione, dunque, che non si riferisce specificamente al discorso di Monti e di Abete, ma ad ogni riflessione sull’agire individuale e sociale, e anzi ad ogni agire in quanto tale, l’agire essendo appunto la realizzazione degli obiettivi. Il disagio che la scienza prova di fronte alle considerazioni «astratte» è in effetti il risultato di un malinteso. Può sembrare molto astratto o banale ricordare all’economia le regole dell’aritmetica; ma non sarebbe astratto né banale mostrare che tali regole non vengono rispettate, poniamo in un saggio di scienza economica o nei calcoli di un’impresa. Ma oltre alle leggi dell’aritmetica e delle scienze formali e naturali, ci sono anche, e altrettanto importanti, le leggi degli «obiettivi», ossia le leggi che regolano il rapporto che intercorre tra obiettivi diversi, e tra gli obiettivi (gli scopi) e i mezzi con cui essi sono realizzati. Scienza economica apparente non è soltanto un discorso economico che violi le regole dell’aritmetica, ma anche un discorso che violi quelle degli «obiettivi». Che tutti crediamo di conoscere, ma che hanno invece una natura molto diversa da quella che ci è familiare, che crediamo di praticare e che è generalmente adottata.

La prima diversità riguarda appunto la molteplicità e la complementarietà degli obiettivi. Ognuno di noi si propone molti scopi contemporaneamente. Se li propongono anche le istituzioni, i sistemi e gli scienziati sociali. E si sa che gli scopi non devono essere in contraddizione tra di loro. Non ci si può proporre di andare contemporaneamente al Polo Nord e al Polo Sud, nella sala da pranzo e nella camera da letto. Perché non lo si possa fare, le scienze sociali, e quindi la scienza economica, non se lo domandano – né qui ci avventureremo in questa direzione. Ma per ogni economista, e per ogni imprenditore, che un’azienda non possa fare nuove assunzioni riducendo contemporaneamente le spese – cioè che non si possano perseguire scopi tra loro contraddittori – è una verità altrettanto certa dell’affermazione che due più due fa quattro.

Le scienze sociali – ma il discorso va allargato a tutte le altre forme culturali, arte, religione, filosofia comprese – sono anche generalmente convinte che sia possibile, quando gli scopi non siano in contraddizione tra loro, proporsi contemporaneamente scopi diversi, molteplici, complementari. Ad esempio, come sopra si diceva, l’efficienza del sistema economico e la solidarietà sociale. Anche se a prima vista la cosa può sembrare del tutto inaccettabile, si tratta di capire che la diversità degli scopi e il loro carattere complementare, in un’azione o un insieme unitario di azioni, equivale alla loro contraddizione. Quando una coppia mette al mondo un bambino, provvede al suo sostentamento. Ha come scopo (di un certo insieme di azioni o addirittura di tutte le proprie azioni) il suo sostentamento o benessere; compie certe azioni in vista di questo scopo. Quando però mette al mondo un secondo bambino, essa si propone certamente il sostentamento di entrambi, ma nei confronti del primo non può più agire come in passato, non può più perseguire il suo sostentamento nelle forme e nei modi in cui era prima perseguito. Se lo facesse, trascurerebbe il secondogenito, o comunque subordinerebbe il suo benessere a quello del primogenito. Quando quest’ultimo era solo, il suo benessere era lo scopo primario dei genitori (o comunque di un certo insieme delle loro azioni); quando i generati sono due, lo scopo primario non è più il benessere del primo, ma di entrambi. La volontà che vuole primariamente il benessere del primo non è compatibile con la volontà che vuole anche il benessere del secondo, e tanto meno con quella che vuole primariamente il benessere del secondo. Ognuna delle due volontà tende a subordinare a sé l’altra. In un’unica volontà, gli scopi di queste due volontà possono cioè convivere gerarchicamente, ossia in un ordine dove uno dei due è subordinato all’altro – dove uno dei due è lo scopo primario e l’altro è quello secondario, subordinato.

Si può dire che, anche per motivi storici, l’efficienza economica sia il primogenito del capitalismo, e la solidarietà il secondogenito. L’efficienza è infatti efficienza delle procedure che producono accumulazione, e l’accumulazione è il profitto (dei singoli capitalisti, delle public company, dei lavoratori e risparmiatori le cui risorse finanziarie sono gestite dai money manager). Ma nonostante quello che dice Abete sulla circolarità virtuosa di efficienza e di solidarietà, il capitalismo riserva e deve riservare ai suoi due figli un trattamento diverso. Nella sua prima fase storica il capitalismo ha avuto come scopo primario il profitto, e non certo la solidarietà. Evolvendosi, il capitalismo capisce che deve dare spazio anche alla solidarietà, ad esempio perché essa è un valore importante della nostra cultura, come scrive Monti, oppure perché, come dice Abete, non ci può essere accumulazione senza solidarietà. Ma non può dar spazio alla solidarietà nel modo in cui quella coppia bennata dava spazio al secondogenito. Se lo facesse – se facesse davvero quello che Monti e Abete prescrivono al capitalismo, il capitalismo non ci sarebbe più. Non dico semplicemente come parola, ma come sostanza. È vero che discorsi come quelli di Monti e Abete possono essere intesi sia come mascheramenti più o meno consapevoli di ciò che il capitalismo vuole, sia come sintomi del declino del capitalismo. E si tratterebbe di un sintomo molto interessante.

Il capitalismo fa certamente spazio alla solidarietà; ma perché ora vede che è un mezzo indispensabile per realizzare l’efficienza. A loro volta, i movimenti di sinistra e la Chiesa cattolica fanno ora certamente spazio al capitalismo, ma perché ora si sono convinti che il capitalismo è lo strumento più efficace per produrre la ricchezza che deve servire alla promozione della solidarietà. Per il capitalismo la solidarietà è un mezzo indispensabile per produrre l’accumulazione; per le sinistre e la Chiesa l’accumulazione è un mezzo indispensabile per produrre la solidarietà. Nel primo caso la solidarietà è subordinata all’accumulazione; nel secondo l’accumulazione è subordinata alla solidarietà. Sono due cose molto diverse. Anzi, antitetiche. Se si percorre la prima strada non si può percorrere la seconda; e viceversa. Il capitalismo non è opera pia o di beneficenza, né opera di carità; e anche quando si rende conto che non può esserci accumulazione senza solidarietà, il suo scopo primario è l’accumulazione, e la solidarietà è uno scopo secondario e subordinato. In un celebre passo de La ricchezza delle nazioni (UTET, 1975, p. 92) Adam Smith, indicando l’essenza del mercato, osserva che nella «società civile» l’uomo ha bisogno dell’aiuto dei suoi simili, ma «invano se l’aspetterebbe soltanto dalla loro benevolenza. Potrà più probabilmente riuscirci se può indirizzare il loro egoismo a suo favore, e mostrare che per loro è vantaggioso fare ciò che egli richiede. Chiunque propone a un altro una transazione di qualsiasi specie procede così. Un’offerta del genere significa: dammi ciò di cui ho bisogno e avrai questo che ti occorre. In questo modo otteniamo dagli altri la massima parte dei servizi di cui abbiamo bisogno. Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai dei nostri bisogni». Quando arriva sul mercato, anche il capitalista si comporta nello stesso modo: non si propone di andare incontro ai bisogni altrui, per benevolenza, ma di ottenere ciò di cui egli ha bisogno, ossia l’incremento del profitto, dando in cambio quel che occorre (o si crede che occorra) a coloro con i quali effettua lo scambio. Che poi il mercato non debba essere formato da operatori morti di fame, e che dunque la solidarietà debba essere favorita è nell’interesse del capitalismo. Ma, appunto, lo scopo primario del capitalismo è l’incremento del profitto, non la solidarietà. Da parte loro i movimenti di sinistra e la Chiesa non si propongono primariamente di aumentare il profitto dei capitalisti, e anche se qualche intellettuale di sinistra, che scopre ora il mercato e il capitale, va a onde come i seminaristi che vedono per la prima volta una donna nuda, lo scopo primario delle sinistre e della Chiesa è la solidarietà o il «bene comune» della società, anche se è nel loro interesse che non venga manomessa e anzi venga favorita quell’efficienza della produzione capitalistica, che si è rivelata lo strumento più adatto per promuovere la solidarietà e il bene comune.

Se le cose non stessero così e quello che vuole il capitalismo non differisse da quello che vogliono le sinistre e la Chiesa, non ci sarebbe alcun conflitto tra i due schieramenti, e non si vedrebbe perché oggi, da una parte e dall’altra, ci si debba preoccupare tanto dei pericoli che per gli uni si stanno correndo dando ascolto agli altri. Il conflitto invece esiste, ed è inevitabile che esista. A questo punto, non solo è chiaro che la sintesi di efficienza e solidarietà è vista in modo rovesciato dalle parti in conflitto, ma (e anzi appunto per questo) è chiaro anche che efficienza e solidarietà non sono due scopi, ma due fattori dell’unico scopo che per il capitalismo è l’accumulazione, alla quale viene subordinata la solidarietà, e che per le sinistre e la Chiesa è la solidarietà, alla quale viene subordinata l’accumulazione. Due scopi diversi sono dunque in contraddizione tra loro, quando non si coordinano in una gerarchia e pretendono entrambi di essere scopi primari.

Ma non ci siamo nemmeno dimenticati della sintesi di efficienza e solidarietà di cui parla Monti, e della circolarità virtuosa di cui parla Abete: questa sintesi e circolarità, pensata per davvero, non è più capitalismo – e non è ancora solidarismo laico o cattolico. Pensata per davvero, infatti, essa è ciò a cui non solo è subordinata, sino ad essere annullata, la volontà di assumere come scopo primario il profitto (e, anche, la volontà di assumere come scopo primario la solidarietà), ma è subordinata anche quella volontà di profitto che dà spazio alla volontà di solidarietà così come la coppia bennata di cui si parlava dà spazio anche al secondogenito. Nella sintesi o circolarità virtuosa ognuno dei due fattori della sintesi è subordinato alla sintesi. Alla sintesi, cioè, non solo è subordinato il capitalismo vero e proprio, quello crudo e schietto che primariamente vuole il profitto, ma è subordinato anche quel capitalismo addomesticato e sfalsato che insieme alla solidarietà costituisce uno dei due fattori di quello scopo primariamente perseguito che è la sintesi di tali fattori. La circolarità è virtuosa perché i due fattori circolanti sono castrati. Fortunatamente per loro, i capitalisti razzolano meglio di quanto predichino. Che se, invece, quel che predicano fosse davvero quel che vogliono, allora, come ho già detto sopra, che il capitalismo voglia la sintesi e la circolarità virtuosa sarebbe un sintomo rilevante del declino e del dissolvimento al quale esso sta andando incontro.

È possibile che le sinistre e la Chiesa abbocchino all’amo della circolarità virtuosa (peraltro involontario perché è innanzitutto il pescatore ad esserne vittima). Può accadere, anche perché, last but not least, anche da questa parte c’è molta nebbia intorno alle leggi che regolano il gioco tra mezzi e fini. E se ciò accadesse, non sarebbe solo il capitalismo ad andare verso il tramonto, ma anche la dottrina sociale della Chiesa e quel che è rimasto delle dottrine sociali delle sinistre dopo il crollo del marxismo. Perseguire il limbo della circolarità virtuosa significa infatti (con castrazione simmetrica a quella del capitalismo) rinunciare alla solidarietà come scopo primario dell’azione sociale.

Ho anche qualche dubbio sulla possibilità che la circolarità virtuosa sia una buona mossa politica, perché (al di là dell’incapacità di scorgere l’autentica struttura del rapporto mezzo-fine) la circolarità virtuosa è un difficile punto di equilibrio tra i suoi due fattori. Abete esige appunto la definizione dei «livelli» di solidarietà compatibile con lo sviluppo economico. Ma come si fa a sapere che il rapporto tra solidarietà e sviluppo è equilibrato e al giusto livello? Molti elementi che per la Confindustria e, in generale, per il capitalismo sono equilibrati, per i sindacati e, in generale, per la Chiesa e per le sinistre sono invece squilibrati; e viceversa. E come Monti intende tutelare la solidarietà «vera», quella la cui attuazione sia affidata «a strumenti che non ostacolino troppo l’efficienza del sistema produttivo», così dall’altra parte si può auspicare l’efficienza «vera», quella cioè la cui attuazione sia affidata a strumenti che non ostacolino troppo il bisogno di sicurezza e di moderato godimento della vita da parte di chi lavora. Quella efficienza, dico, per la quale – pur tenendo conto che senza di essa l’Italia andrebbe incontro a un futuro di disoccupazione, come ricorda Monti – non si debba pagare un prezzo troppo elevato in termini di infelicità per coloro che oggi sono al mondo. I quali forse preferiscono maggiore felicità per sé e i loro figli, piuttosto che una riduzione della loro felicità presente in favore di una maggiore felicità delle generazioni future. La scelta della felicità presente è certo egoistica e poco previdente, ma è difficile considerarla come senz’altro «falsa», di contro a quella «vera»; mentre è più facile rilevare che la scelta opposta, in favore delle generazioni future, è più congruente con gli interessi del capitalismo, che per poter investire deve ridurre gli investimenti improduttivi (ed era più congruente anche con gli interessi del marxismo, che per la felicità delle generazioni future doveva sacrificare – disapprovato anche da Popper – quelle presenti).

Ci potrebbe essere dunque pieno accordo sulla formula astratta della circolarità virtuosa e totale disaccordo sul modo in cui da una parte e dall’altra questa formula viene riempita. Non sapendo o non essendo d’accordo sul livello in cui si colloca il giusto rapporto tra efficienza e solidarietà, è inevitabile che ognuno dei due contendenti tenda a subordinare al proprio scopo quello dell’antagonista, rompendo per ciò stesso il circolo virtuoso. O quest’ultimo prende piede nella coscienza dei contendenti, e si produce a un tempo la fuoriuscita dal capitalismo e dalla dottrina sociale della Chiesa e delle altre forze solidaristiche; oppure il circolo virtuoso rimane nel regno dei sogni, e il solco tra capitalismo e Chiesa (e, forse in misura minore, tra capitalismo e solidarismo laico) è destinato ad allargarsi. E anche per questo lato si preannuncia il declino delle grandi forze della tradizione occidentale oggi dominanti.