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Realtà, mezzo, fine

Se la logica sta alla base, la struttura mezzo-fine sta al centro delle forme di razionalità che il capitalismo (e non solo la scienza economica capitalistica, ma lo stesso agire capitalistico) considera inseparabili da se stesso. Che lo scopo dell’agire sia l’essenza stessa dell’azione è un principio che trova nel capitalismo non solo una delle applicazioni, ma anche uno dei riconoscimenti più radicali (anche se è nell’organizzazione scientifico-tecnologica dell’esistenza che viene raggiunta la radicalità estrema). Dal punto di vista dell’agire capitalistico, ciò che non serve alla produzione del profitto non esiste, e ciò che la ostacola deve essere reso inesistente. È quanto accade in ogni agire (anche nella carità cristiana, anche nella produzione artistica, anche nell’agire in cui vuol consistere la contemplazione filosofica). Lungi dall’essere un principio dell’utilitarismo moderno, che il «reale» sia ciò che si struttura nel rapporto mezzo-fine, è un principio che risale all’inizio della civiltà dell’Occidente. L’«essere», dice Platone (Sophista, 248 d-e) è «potenza», cioè «potenza di fare o di patire». Ma la potenza di fare è capacità di realizzare scopi; e la potenza di «patire» (ossia di essere ciò su cui si esercita il fare) o è lo scopo stesso, nella sua capacità di diventare il prodotto del fare, o è la materia, l’oggetto dell’azione, nella sua capacità di farsi trasformare in un mezzo idoneo alla produzione dello scopo. (Il pensiero greco, poi, e una volta per tutte nella storia dell’Occidente, conferisce al fare una potenza inaudita, perché per la prima volta lo intende in relazione al significato radicale dell’«essere» e del «niente»: la capacità di fare è l’azione capace di trarre dal nulla la realtà dello scopo, che prima del compimento dell’azione è reale solo «idealmente»; e la capacità di «patire» è la capacità – da parte dello scopo o della materia in quanto mezzo – di esser tratti fuori dal nulla.) Ma lungo il piano inclinato che conduce alla dominazione della tecnica, la potenza dell’agire capitalistico è riuscita a prevalere su ogni altra forma di azione. Ciò che non serve alla produzione del profitto – ciò che non è «utile» – è reale solo come apparenza di realtà. Ma la realtà suprema è il profitto, cioè lo scopo che nell’agire capitalistico si vuole realizzare e che dunque «deve» essere realizzato. La realtà suprema non è qualcosa di già compiutamente esistente, ma è la realizzazione della crescita indefinita della ricchezza esistente. La realtà suprema è la realtà futura. Appunto per questo, «reale» è solo ciò che serve a realizzarla (come nella prospettiva cristiana «reale» è solo ciò che serve a realizzare il regno di Dio). Ma ciò che serve ed è utile è il mezzo; e il mezzo serve a produrre lo scopo. Lo scopo seleziona i mezzi: è il principio in base al quale ciò che è assunto come mezzo e ciò che non è così assunto hanno rispettivamente valore di realtà e di irrealtà.

Per il capitalismo la realtà suprema è la realtà futura, perché essa ha dalla sua la forza capace di realizzarla. Certo, la forza che vuole realizzare il profitto ne è il fondamento, ossia è il fondamento della realtà suprema. Ma a sua volta questo fondamento ha la potenza che gli compete, perché vuole realizzare non uno scopo qualsiasi, ma la crescita indefinita del profitto, vuole cioè realizzare la crescita indefinita della potenza. L’incremento indefinito del profitto è la prefigurazione dell’incremento indefinito della potenza perseguita dalla tecnica. Lo scopo della tecnica è la crescita indefinita della capacità di realizzare scopi; e questo è anche lo scopo del capitalismo, perché il profitto si risolve da ultimo nella forma del denaro e il denaro è, per il capitalismo, la capacità di realizzare scopi, sì che il perseguimento della crescita indefinita del denaro è il perseguimento della crescita indefinita della capacità di realizzare scopi.

Sia nel capitalismo, sia nella tecnica lo scopo che si vuole raggiungere è il possesso del mezzo universale, capace cioè di realizzare qualsiasi scopo. I singoli scopi che si possono realizzare col mezzo universale non sono quindi lo scopo ultimo del capitalismo e della tecnica. Lo scopo ultimo e autentico è la capacità indefinitamente crescente di realizzarli. Lo scopo è cioè il controllo del mezzo universale.

D’altra parte, il modo in cui la tecnica persegue la produzione del mezzo universale è diverso da quello del capitalismo. Il denaro, infatti, è il mezzo universale, ma solo relativamente all’acquisizione di ciò che già esiste. Il denaro può comperare tutto ciò che esiste; ma immediatamente, cioè come denaro, non fa crescere di un filo d’erba l’esistente. Per farlo crescere deve comperare le forze produttive e quindi, oggi, la tecnica, che è l’organizzazione più efficace di tutte le forze produttive. È la tecnica a far crescere indefinitamente la capacità di realizzare scopi, e a condurre tale capacità al di sopra della dimensione in cui la crescita del denaro è sì crescita indefinita della capacità di realizzare scopi, ma che sono qualcosa di già esistente e che sono scopi solo in quanto il già esistente non sia ancora di fatto posseduto dal denaro.

Il capitalismo sa che il denaro non può comperare tutto, perché non tutto ciò che si vorrebbe esiste; e appunto per questo il capitalismo compera la tecnica, ossia la capacità di produrre il non ancora esistente. Ma il capitalismo è capitalismo perché, comperando la tecnica, intende poi mantenere il profitto, cioè il denaro, come forma ultima della capacità di incrementare indefinitamente la capacità di realizzare scopi. Il capitalismo si serve della tecnica (ossia della forma tecnologica dell’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi), per realizzare quella forma di incremento indefinito della capacità di realizzare scopi che è costituita dall’incremento del profitto e del denaro. Ma è proprio questo fatto, è proprio perché il capitale acquista la tecnica e se ne serve per incrementare il profitto, che, come si è visto nei capitoli precedenti, e come verrà richiamato nel capitolo seguente, il capitalismo è contraddizione e autodistruttività.