Durante il mezzo secolo di lotta contro il comunismo, nelle democrazie occidentali si è formata e consolidata una rete di intese tra le istituzioni dello Stato democratico e le forze del capitale, da un lato, e le forme più potenti di devianza sociale, tra cui la mafia, dall’altro. Ma ora che il comunismo è finito, la prima di queste due parti contraenti vorrebbe recedere dal patto – incontrando però le più forti resistenze dell’altra.
Gli Stati democratici erano convinti che il comunismo operasse senza esclusione di colpi. Si vuol credere che il capitalismo e la democrazia si lasciassero colpire interdicendo a se stessi i colpi proibiti? Se una società si scontra con un nemico esterno che ne mette in pericolo la sopravvivenza, essa è disposta ad accordarsi con quanti, al suo interno, pur violando l’ordinamento legale, e anche gravemente, non mirano al sovvertimento del sistema, ma anzi tendono a infiltrarvisi e a controllarlo dall’interno.
Contro il comunismo, quelle che, dal punto di vista dei valori ufficiali del mondo occidentale, erano le grandi forme del crimine internazionale, quindi anche la mafia, erano diventate alleati preziosi. Soprattutto là dove, come in Italia, il pericolo comunista era maggiore e più deboli le forze della democrazia e del capitale. Negli anni della guerra fredda aveva avuto molto successo questo slogan di nobili origini: «Meglio morti che rossi». Meglio il peggiore dei mali, la morte, piuttosto che diventare comunisti. A maggior ragione, ogni male inferiore alla morte era preferibile al comunismo. Dunque, meglio mafiosi che comunisti. Sul piano internazionale, meglio solidarizzare con le dittature di destra che con i comunisti. Stupirsi e indignarsi di tutto questo significa scambiare le aspirazioni delle «anime belle» con le dure leggi dell’istinto di sopravvivenza, che agisce nei gruppi sociali non meno che negli individui anche quando dicono di preferire la morte al comunismo.
Ci si scandalizza del fenomeno delle «tangenti». In molti casi si sono arricchiti politici senza scrupoli (tra cui, ma sembra una minoranza, esponenti della stessa sinistra). Ma nel suo insieme il fenomeno costituiva un finanziamento dei partiti che sorreggevano il peso della lotta anticomunista. Un finanziamento certo illegale, ma che, per chi vedeva nel comunismo il pericolo maggiore, era pur sempre un male minore. Si trattava di comprare il consenso della gente; ma questa compravendita era pur sempre preferibile alla rivoluzione proletaria e alla guerra civile. Il capitalismo finanziava la propria sopravvivenza. Forse l’avrebbe potuto fare con una spesa considerevolmente più ridotta.
Il debito pubblico di due milioni di miliardi di lire si spiega in buona parte, oltre che con la preoccupazione di finanziare i partiti e i movimenti anticomunisti (giacché il finanziamento illegale, sopportato dalle imprese e dai gruppi economici, non può non tradursi in costi maggiori a carico dello Stato), anche con la necessità di non far rimpiangere quello che per molti, in Italia, era il paradiso perduto del comunismo. Il tanto deprecato Welfare State ha avuto soprattutto questo compito – al di là delle incompetenze e disonestà con cui esso è stato gestito in Italia. A suo tempo dicevo che c’era poco da stupirsi e indignarsi per la P2. Era inevitabile che l’establishment occidentale si garantisse anche in Italia. E l’occupazione dello Stato da parte di uomini di sicura fede anticomunista, quali sono i mafiosi e i piduisti, aveva questa giustificazione di fondo.
Il finanziamento illegale del Pci da parte del capitalismo italiano (comunque di proporzioni estremamente più ridotte di quello elargito a partiti anticomunisti) appartiene a una fase successiva alla «guerra fredda» e, in generale, è relativo a un aspetto, della presenza di questo partito in Italia, diverso da quello per il quale il Pci, finanziato da Mosca, teneva in vita lo scontro col capitalismo. Quanto più diventa chiaro al Pci che non solo la rivoluzione comunista in Italia è impossibile, ma che, anche sul piano della rinuncia alla rivoluzione, è pericoloso per la sinistra sviluppare oltre un certo limite l’atteggiamento critico nei confronti del capitalismo, tanto più il Pci è portato a inserirsi nel gioco della concorrenza capitalistica, proponendosi come sostegno ed espressione politica di certi gruppi industrial-finanziari, piuttosto che di altri meno «progressisti», e ricevendone in cambio un appoggio che, legato alla logica della concorrenza capitalistica, è inevitabilmente illegale.
È auspicabile che – in mancanza di meglio – i valori della democrazia e della morale facciano sentire la loro voce. Ma sarebbero voci vane se i portavoce si dimenticassero del contesto internazionale – lo scontro capitalismo-comunismo – che ha reso inevitabile la corruzione nel mondo occidentale. È in tale contesto che sono state tollerate forme di guadagno gravemente illecito dal punto di vista dei valori ufficiali. Appunto in questo contesto la mafia è stata tollerata e utilizzata. Non si tratta di assolvere i corrotti, ma di capire i motivi della corruzione.
Chi poi ha la pretesa che tutte queste affermazioni debbano diventare dei fatti accertabili all’interno della logica giudiziaria, e impreca contro le «dietrologie», oltre a contribuire a nascondere le cose e a illudersi che il senso storico di un’epoca venga alla luce nei tribunali, dimentica, se è un estimatore della scienza, che la scienza è proprio un andare al di là, cioè dietro i fatti (che non possono mostrare altro che se stessi), per costruire ipotesi capaci di illuminarne il significato.
Ora che il comunismo è finito, le grandi forze della devianza internazionale, con cui capitalismo e democrazia avevano dovuto allearsi quando il comunismo era il loro nemico più pericoloso, sono diventate degli alleati scomodi e dai quali la società legale tenta di separarsi incontrando la loro più feroce resistenza. Si sono consolidati troppi privilegi sulla base di una tolleranza interessata da parte della legalità che oggi trova indecente la loro perpetuazione. Questo è il problema centrale della società e della politica italiana contemporanea. L’Italia si trova in peggiori condizioni perché, col più grande partito comunista del mondo occidentale e con una democrazia e un capitalismo non altrettanto competitivi, ha dovuto compromettersi più gravemente con le forze e le procedure illegali ritenute utili nella lotta anticomunista e la separazione dalle quali risulta quindi più dolorosa.
Tuttavia la situazione italiana sarebbe ancora peggiore (dal punto di vista di chi ha a cuore la salvezza della democrazia e di un capitalismo che non distrugga i valori democratici) se la nostra società non mostrasse di volersi separare dalle forme di anomia a cui si è dovuta unire. Quanto negli ultimi tempi è accaduto in Sicilia e nelle maggiori città italiane è drammatico, ma è anche (in un contesto negativo a cui si accenna qui avanti) un segno positivo, perché è la reazione violenta al processo in cui la società italiana incomincia a trovare indecente il matrimonio contratto con le grandi forme della delinquenza, in nome dell’anticomunismo.
La connessione tra mafia e droga esclude che in Italia si debba combattere una delinquenza semplicemente locale. Tuttavia il crimine internazionale concentra i propri sforzi sugli anelli deboli della catena. Per questo motivo il modo migliore per difendere lo Stato di diritto in Italia è quello apparentemente più banale, ossia il rafforzamento dell’anello, cioè quel risanamento dell’economia e quella riforma delle istituzioni, che sottintendono, dopo il «compromesso storico» con il crimine, il divorzio storico da esso.
D’altra parte chi pensava che con la fine del socialismo reale non ci sarebbero più stati problemi per il capitalismo era uno sprovveduto. Oltre ai motivi di fondo che spingono al tramonto il capitalismo e che sono stati indicati nei capitoli precedenti, era ripetuto che se la scienza e la tecnica hanno reso accessibile il benessere alle masse mondiali, tuttavia la forma attuale della distribuzione della ricchezza fa del benessere un monopolio dei popoli ricchi e accentua le diseguaglianze e le emarginazioni all’interno degli stessi popoli privilegiati. L’affermazione di alcuni che la «sinistra» sopravvivrà al crollo del socialismo reale è quindi corretta se per «sinistra» si intende la volontà di emancipazione dei non privilegiati.
Si può dire anzi che, per questo aspetto del problema, dopo la fine dell’Urss i problemi del capitalismo sono aumentati. In regime di guerra fredda, infatti, una rivoluzione delle sinistre nei Paesi occidentali sarebbe stata inevitabilmente interpretata come una mossa guidata dall’Unione Sovietica, e la repressione antirivoluzionaria avrebbe avuto il carattere di una legittima difesa della democrazia e degli interessi dell’Occidente. La ribellione sociale contro i privilegi si sarebbe rivestita di una forma politica che metteva a repentaglio la sicurezza delle democrazie occidentali. In queste condizioni una rivoluzione di sinistra appariva a quasi tutti destinata al fallimento, era cioè impossibile.
Ma dopo il crollo dell’Urss il legame tra forma sociale e forma politica della ribellione degli emarginati si spezza; la loro protesta non si presenta più come longa manus del centro mondiale del comunismo, ma come espressione di bisogni che, al di fuori di ogni superfetazione ideologico-politica, si presentano come aspirazioni legittime della società. Se durante la guerra fredda la rivoluzione comunista nel mondo occidentale era soltanto un’utopia che sarebbe stata stroncata sul nascere, col crollo dell’Urss l’emancipazione dei non privilegiati perde, soprattutto nei popoli ricchi del Nord, buona parte del suo carattere utopico. E il mondo capitalistico se ne è reso conto. Ci si spiega in questo modo perché, nonostante la fine dell’Urss, l’intesa tra certi gruppi di potere e grande criminalità internazionale – l’intesa che aveva la sua ragion d’essere nella lotta contro il comunismo – invece di smobilitarsi è tuttora in vita e sembra anzi che vada rafforzandosi, come dimostra la ripresa del terrorismo in Italia. Per chi è disposto a trasgredire le leggi della convivenza sociale pur di non perdere i propri privilegi, la pressione degli emarginati è diventata più pericolosa di prima, e le grandi organizzazioni criminali continuano ad essere un alleato prezioso.
In relazione al Nord del Pianeta, vendere la droga (non solo quella in senso farmacologico) alle classi inferiori è pur sempre un buon espediente per indebolirle e renderle inoffensive. In relazione all’intero Pianeta, con il crollo dell’Urss non è che le rivoluzioni degli emarginati abbiano cessato di essere utopiche: sono diventate meno utopiche. Sono destinate a fallire, ma per il sistema capitalistico è più difficile contenerle.
Sono destinate a fallire, sia perché il capitalismo ha ormai il monopolio dell’apparato scientifico-tecnologico, sia perché, configurandosi esse come lotta contro l’organizzazione dominante, e cioè contro quell’intreccio tra apparato e ideologia capitalistica, che oggi è la forma più forte di amministrazione dell’apparato, è inevitabile che, per essere lotte efficaci, si organizzino e cioè si realizzino conformemente a ciò che esse intendono distruggere. È inevitabile che accada per esse quanto già è accaduto per l’amministrazione ideologica marxista dell’apparato della tecnica. Non possono più essere i valori dello «spirito» a portare al tramonto la «carne» del capitalismo. È la tecnica a spingere al tramonto, dopo lo «spirito», anche la «carne».
«Dietrologia» – un brutto neologismo, un concetto screditato –: l’invenzione arbitraria e interessata di eventi che si svolgerebbero al di là (dietro) dei fatti osservabili e che ne sarebbero la spiegazione – un’invenzione interessata, perché favorisce l’ideologia di chi la fabbrica e la diffonde.
Quasi sempre, però, il rifiuto della «dietrologia» è espressione di un dogma altrettanto grave e oggi molto più diffuso: l’incondizionata venerazione dei «fatti», la fede in ciò che sarebbe «osservabile» al di là dei pregiudizi, delle fantasie, degli errori degli uomini. Non si tratta di rendersi conto che anche in questo modo ci si porta «al di là», «dietro» qualcosa (i pregiudizi, gli errori, ecc.): si tratta di non dimenticare la critica serrata a cui sono stati sottoposti i concetti di «fatto», di «osservabile», di «dato» nella cultura filosofica e scientifica contemporanea.
L’ossequio per i «fatti» e la riprovazione della «dietrologia» si presentano spesso uniti alla sopravvalutazione del potere esplicativo delle procedure giudiziarie. Non c’è chi non veda quanto bisogno di applicazione delle leggi ci sia oggi in Italia. La forza con cui oggi si sviluppa da noi l’azione giudiziaria esprime inoltre in modo significativo una tendenza generale: il prevalere della mentalità scientifica su quella ideologica – in questo caso sull’ideologia dei partiti, dei gruppi economici che li hanno finanziati illegalmente, delle varie ideologie della tensione.
Ma proprio perché la logica della procedura giudiziaria ha un carattere scientifico, è di grande interesse ricordare che quando la scienza, riflettendo su se stessa, vuole esprimere il valore problematico dei propri risultati, e l’inaffidabilità dei «fatti», dell’«osservabile», del «dato», ecc., essa sottolinea con energia la profonda somiglianza tra il proprio modo di operare e la procedura giudiziaria. Intendo dire che mentre la venerazione per i «fatti» ritiene di trovare un potente alleato nel fatto giuridico, la scienza, al contrario, riflettendo su di sé, presenta se stessa come una procedura giudiziaria proprio per mostrare che i «fatti» non hanno alcun valore assoluto e incontrovertibile.
In ogni tribunale si stabilisce che cosa è effettivamente accaduto in rapporto alle imputazioni, e poi si applica il sistema di norme giuridiche vigenti. Ma stabilire che cosa sia effettivamente accaduto non significa esibire un «fatto» indiscutibile, ma decidere, in base a certi criteri, che un certo evento, piuttosto che un altro, è quanto è effettivamente accaduto e che dunque esso deve essere considerato come «fatto» reale, come cosa effettivamente accaduta. Che si tratti di una decisione, e dunque di qualcosa di discutibile e modificabile, è riconosciuto da tutti i sistemi giuridici moderni, che ammettono la possibilità di impugnarla o modificarla.
Come è noto, soprattutto Karl Popper ha mostrato come il controllo delle teorie scientifiche debba essere inteso come una procedura sostanzialmente analoga a quella del processo giudiziario. Alla base delle teorie scientifiche non ci sono «fatti» inconfutabili, ma c’è la decisione di assumere come base empirica delle teorie scientifiche certe asserzioni che si riferiscono a oggetti individuali appartenenti all’esperienza e che non sono messe in questione sino a che non si decida di impugnarle, rivederle e sostituirle con altre asserzioni di questo tipo, ritenute più congruenti agli interessi pratici fondamentali dell’uomo.
Le teorie scientifiche corrispondono al sistema delle norme giuridiche; la decisione di assumere certe proposizioni come base delle teorie scientifiche corrisponde alla decisione con cui il giudice o la giuria stabiliscono che i fatti che si sono realizzati sono questi piuttosto che quelli. «Dunque la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di “assoluto”. La scienza non poggia su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude.» Questo passo di Popper è ormai celebre. A noi, però, qui interessa perché indica un buon modo di sfatare l’idolatria della procedura giudiziaria, spesso incautamente contrapposta alla «dietrologia» da quanti venerano i «fatti osservabili» e che magari vedono nell’«esposizione fedele dei fatti» il compito più autentico dei mass media. Intendiamoci: quell’idolatria non ha nulla a che vedere con la corretta procedura giudiziaria; e un giornalista o una giuria che si sforzano di «appurare i fatti» non vanno confusi con i giudici e i giornalisti disonesti e incapaci. Ma qui si aveva l’intento di rilevare come il rifiuto della «dietrologia» non lasci libero uno spazio da riempire soltanto con la chiarificazione giudiziaria degli eventi o addirittura della storia di un popolo. Se le invenzioni «dietrologiche» sono ipotesi arbitrarie, non ci si deve buttare nelle braccia della venerazione acritica dei «fatti» e dell’azione giudiziaria, ma si devono formulare ipotesi consistenti, che certamente sfuggono al controllo giudiziario, ma dalle quali si possono trarre conseguenze che hanno una potenza esplicativa superiore a quella giuridica.
Pasolini diceva di «sapere» chi fossero i responsabili delle stragi, ma di non avere e non poter avere, in quanto intellettuale, «prove» e nemmeno «indizi» (mentre chi, al potere, aveva le prove non le esibiva e non faceva nomi). Ma più importante della conoscenza dei nomi dei responsabili è, come in ogni altro caso di questo genere, la conoscenza del senso della situazione storica in cui ci troviamo. È possibile conoscere i nomi di tutti i responsabili delle stragi e non capire niente di quanto sta accadendo. Ed è possibile conoscere il senso di quanto sta accadendo senza le prove e gli indizi della logica giudiziaria, ma sul fondamento di una logica superiore, di prove e di indizi di tipo diverso ma più decisivi.
Esistono infatti convinzioni che sono condivise più o meno da tutti, ma che non potranno mai essere «provate», all’interno di un processo, mediante un’esibizione di «fatti». Per esempio la convinzione – presa in considerazione in queste pagine – che tra le società capitalistico-democratiche e il socialismo reale è stata combattuta una guerra senza esclusione di colpi. Fuori del mondo considereremmo chi dicesse di non condividere questa convinzione, ma non chi si dichiarasse poco convinto del modo in cui si è concluso un processo. Quella convinzione ha un valore non inferiore a quello di tutti i principi giuridici – anche perché ormai la nostra cultura attribuisce ai principi giuridici (e di ogni tipo) un valore di leggi semplicemente «positive», cioè costruite dall’uomo e quindi modificabili e sostituibili.
Ma quella convinzione implica «logicamente» una conseguenza che, anche quando ci si rifiuta di accettarla, è più certa e ha una forza esplicativa superiore a quella di tutte le conclusioni giudiziarie; e cioè che anche le società democratiche hanno dovuto adottare, per la propria sopravvivenza, comportamenti non pubblici e quindi illegali, e che questa illegalità di alto profilo (che implica anche forme di alleanza con il crimine internazionale) è stata il terreno in cui ha potuto attecchire quella criminalità miserabile, volta a interessi personali o di gruppo, che oggi non intende uscire di scena, come ha mostrato, tra l’altro, la ripresa del terrorismo in Italia.
Ogni «dietrologia» deve essere evitata; ma non ci si dimentichi che il compito della scienza è proprio quello di costruire ipotesi che, come dice la parola, si riferiscono a ciò che sta «sotto» o «dietro» la superficie delle cose. Sentiamo ancora Popper: «Nella scienza cerchiamo sempre di spiegare l’osservato (e l’osservabile) con ciò che non si osserva (e che, forse, non può essere osservato)». Certo, i problemi non finiscono qui, – né Popper (impropriamente utilizzato dagli estimatori dei «fatti») è il vangelo.